“Sentirsi padroni di tutte le risposte.
È questa la normalità? La salute mentale?
La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai” – Daniele Mencarelli
Con Federico Cesari, la nostra Cover di giugno, abbiamo parlato di tutto: di paura, di salute mentale, di nuovi progetti, di luoghi sereni dove rifugiarsi, che altro non sono che le persone della propria vita.
Con progetti in uscita che fanno sempre più vedere un percorso preciso, pensato e unico, Federico ci ha fatto entrare nel suo mondo dove sentimenti ed emozioni non sono da nascondere e dove la consapevolezza sul tema della salute mentale è sempre al primo posto e parlarne è il modo migliore per creare un ambiente migliore.
Spesso è proprio l’arte che si rivela il principale veicolo di parola e strumento per unire le generazioni, nella speranza di rendere il divario tra la nostra e quella precedente sempre più piccolo.
Queste domande, questa intervista che ti farò parlerà sia dei tuoi nuovi progetti ma soprattutto di te e del lavoro che stai facendo riguardo la salute mentale. Noi da circa un anno e mezzo abbiamo lanciato questo format di interviste per poter parlare di salute mentale e per parlarne nel modo più naturale possibile, perché non si dovrebbe nemmeno sottolineare che lo stiamo facendo, dovrebbe essere un qualcosa di totalmente normale, che fa parte della nostra società. Cosa hai scoperto essere la cosa più difficile quando si vuole educare sulla salute mentale? E quanto è importante per te parlarne?
Il fatto è che c’è ancora una sorta di repulsione che ancora devo capire da cosa derivi, forse dal significato che si attribuisce alla sofferenza psicologica, quindi alla paura dello stigma. Credo che questa sia la cosa che spaventa di più le persone, è quella condizione di non essere definito in qualche modo “normale” che spaventa le persone e, quindi, le fa rifugiare dal parlarne, o dal voler ammettere di avere un problema. Io, per esempio, vivo quotidianamente questi esempi sulla mia pelle, perché un sacco di persone a me vicine mi dicono “A che ti serve andare dall’analista…”. Se io in primis sento il bisogno di andarci, non dovrebbe essere questionato, non si dovrebbero mettere in discussione i bisogni altrui. L’idea di una persona apparentemente “normale” e una che “non lo è” si sovrappone in qualche modo allo stereotipo che hai nella tua testa della persona che va dall’analista e che si possa considerare una persona che è matta e potenzialmente pericolosa; quindi, secondo me si rifà tutto a quell’immagine completamente distorta della persona che va incontro alla sofferenza psicologica. Penso che questo sia il più grande scalino da superare, il fatto di tornare a relazionarci con quelli che credo siano sentimenti che appartengono a tutti, emozioni che fanno parte dello spettro emotivo umano, che ci rendono ancora più umani. Perché nel momento in cui si persegue la volontà di raggiungere uno status di persona estremamente performante che prova emozioni costantemente positive e, come si dice in “Tutto chiede salvezza”, non si inginocchiano mai, credo si raggiunga la versione più disumanizzata e disumana della persona che chiede aiuto e va in analisi.
Trovo che in questo periodo storico, soprattutto, i modelli che ci vengono proposti e che il pubblico riceve attraverso piattaforme o esempi vari distanzino molto spesso la persona dalla propria umanità, cancellino delle parti fondamentali della nostra umanità.
Assolutamente. Poi tante volte c’è quasi una vergogna di ammettere che si ha bisogno di aiuto. Io sono in terapia da dieci anni e senza la mia psicoterapeuta ci sono tante cose contro cui probabilmente sarei ancora qui a lottare. C’è da dire che io ho avuto la fortuna di essere circondata da persone che mi hanno molto supportata, che nemmeno per un momento mi hanno fatto pensare che andare in terapia non fosse “normale”. Secondo te da dove si dovrebbe davvero partire per vedere un cambiamento?
Penso che sia molto importante parlare di salute mentale a scuola.
Per esempio, tramite un progetto dell’UNICEF a cui ho partecipato, io ho avuto la fortuna di incontrare dei ragazzi e delle ragazze che seguono un ambulatorio al Policlinico Gemelli, che funziona da accesso ad una sorta di psicologo di base a cui potersi rivolgere, utile soprattutto per le persone che non hanno disponibilità economica e magari hanno bisogno di accedere rapidamente alle cure psicologiche. Ho conosciuto tanti ragazzi che hanno usufruito di questo servizio: molti di loro non parlano di questo percorso con i loro amici, quando in realtà può essere anche molto formativo per i loro coetanei e dare indicazioni. Capisco, però, perché non ne parlino, perché molto spesso lo stigma è diffuso anche nella nostra generazione. Credo che parlarne nelle scuole, rappresentarlo attraverso i mezzi che sono più fruibili per i ragazzi, sia una cosa importantissima. Infatti, sono molto contento di far parte di un progetto come “Tutto chiede salvezza”, che è stato apprezzato da tanti giovani.
Credo, però, che ci sia un altro problema importante all’interno della struttura familiare, ovvero nelle figure genitoriali. Secondo me, la nostra generazione ha il grande vantaggio di essere aperta su tantissime tematiche, molto di più rispetto alle generazioni più adulte, quindi sicuramente se ne parla molto di più ora rispetto a un dialogo che ci possa essere tra i più adulti. Insomma, siamo una generazione più sensibile rispetto a determinate tematiche, mentre in quelle più adulte c’è un po’ più di resistenza a questi argomenti e una visione spesso alterata. Io credo che nella maggior parte dei casi, se i ragazzi hanno una visione distorta del supporto psicologico e quello che significa chiederlo, la causa sia l’istruzione familiare che hanno ricevuto.
Soprattutto le figure genitoriali sono quelle che realmente possono fare la differenza per il percorso psicologico di un ragazzo, perché banalmente, non essendoci ancora in Italia una figura statale a cui un ragazzo possa rivolgersi, non essendoci uno psicologo di base, giovani che sono figli di genitori che non credono nella psicoterapia, e io purtroppo ne conosco tanti, anche se loro, magari sentono l’esigenza di andare dallo psicologo, nella maggior parte dei casi non se lo possono permettere, perché se i genitori non li supportano, loro sono impossibilitati a chiedere aiuto; nonostante a volte i ragazzi cerchino di far capire quali siano i loro reali bisogni, spesso non vengono compresi, quindi, secondo me, c’è una grande urgenza di far capire alle figure genitoriali l’importanza di questo discorso.
“Siamo una generazione più sensibile rispetto a determinate tematiche, mentre in quelle più adulte c’è un po’ più di resistenza a questi argomenti e una visione spesso alterata”.
Con il lavoro che fai, come attore, entri a contatto con i diversi personaggi che devi interpretare e le domande che devi porti, e immagino che entri anche a contatto con parti di te nuove. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso?
Domanda interessante. L’ultima cosa che ho scoperto di me stesso, grazie al personaggio di Daniele, credo sia un sentimento che pensavo mi risultasse più difficile, ma che è stato quasi una valvola di sfogo e che adesso sto cercando di identificare da dove venga, da quale parte di me. È un muro che io mettevo nella mia vita personale, e che magari metto ancora, nei confronti del sentimento della rabbia. Invece, ho scoperto che questo sentimento viene fuori molto più facilmente proprio grazie a Daniele, e sto cercando di capire perché.
Forse a volte è quasi terapeutico fare il tuo lavoro, penso tu ti sia fatto un sacco di domande, per esempio, per interpretare Daniele, un personaggio così complesso, interessante e diverso.
È decisamente terapeutico, perché oltre a farti domande, ti permette di incontrare, se le subisci, delle emozioni che nella vita di tutti i giorni incontri più difficilmente, o che sono talmente tanto amplificate che è più difficile incontrarle nella vita quotidiana. Sicuramente è una grande valvola di sfogo, un grande contenitore di emozioni che ogni volta ti riempie, quando reciti e ricevi e dai. Per me è una cosa di cui sento il bisogno.
Quando si parla di salute mentale si parla spesso anche di corpo ma se ne parla molto di più quando riferito a donne, anche questo aspetto secondo me è da sdoganare. Cos’è per te il tuo corpo?
La mia visione del mio corpo è molto essenziale. Nel mio lavoro diventa uno strumento di espressione, quindi mi è molto utile. Nella mia vita di tutti i giorni, è semplicemente il mio modello di interazione con quello che mi circonda. Io, in realtà, sono molto in pace con il mio corpo e il suo sottostare alle leggi biologiche, ovvero il fatto che il mio corpo sia parte di un processo che è quello del mondo naturale. Questo da un lato mi spaventa, dall’altro mi fa sentire parte di qualcosa di più grande. Io ho una frase tatuata che esprime in parte questo concetto e in parte altro, una frase dei Radiohead: “But gravity always wins”.
Tornando a “Tutto chiede salvezza”, io quando ho letto il libro ne sono rimasta folgorata perché parla in maniera così profonda ma vera, spiazzante. In una delle prime 20 pagine parla anche di salvezza e del fatto che il terrore di Daniele più grande sia che l’essere umano non sia altro che un caso e lui di essere una vita per sbaglio. Si fa sempre domande grandissime e importantissime. Quanto è stato difficile interpretare questo ruolo, entrando in connessione con questi aspetti anche?
In realtà non molto, perché parliamo di domande che io mi faccio quotidianamente e di cui mi ricordo quotidianamente, perché si tratta più di ricordarsele che di farsele, dato che nella maggior parte dei casi non hai una risposta. Queste grandi tematiche rientrano nell’ordine quotidiano della mia vita. Penso che poi ognuno abbia il suo modo di credere in qualcosa e che quel qualcosa rappresenti il motore o la spinta della propria vita. Sono cose che mi ripropongo quotidianamente, quindi su questo io e Daniele siamo molto simili. Anche Daniele Mencarelli, sebbene si trovi in un’altra fase di vita rispetto a quando ha passato il ricovero in TSO, continua tutt’oggi a riproporsi quelle domande e c’è uno scambio molto importante tra me e lui sulle nostre visioni, quindi siamo molto simili su questo anche noi due.
“Penso che poi ognuno abbia il suo modo di credere in qualcosa e che quel qualcosa rappresenti il motore o la spinta della propria vita”.
Ti capita mai di scrivere qualcosa di tuo?
Sì, per me la scrittura è la mia seconda forma d’espressione preferita.
Dipende dai momenti, a volte è anche la prima, perché nella maggior parte dei casi può essere anche molto più personale della recitazione stessa. La recitazione, infatti, implica sempre il limite del personaggio a cui bisogna attenersi. Invece, la scrittura è qualcosa che mi permette sia di ricordarmi delle mie fasi di vita, quindi in qualche modo scrivere di me e dei miei pensieri in un determinato periodo mi ricorda quali erano i miei pensieri e quale era il mio stato emotivo: è un po’ una mappa del mio percorso. Dall’altra parte, a volte mi permette di mettere ordine, quando magari passo un periodo difficile, scrivere mi permette di mettere in ordine e dire: “Okay, parto da qui”. Mi piace molto scrivere, e lo faccio molto più quando sto male che quando sto bene, purtroppo, quindi i miei diari non sono proprio allegri [ride].
Ho provato anche a coniugare cinema e scrittura, ho provato a scrivere un cortometraggio che forse prima o poi mi piacerebbe mettere in scena, anche se per ora non mi sento ancora pronto. È una cosa che trovo complicata, perché è un connubio tra un mio pensiero e una rappresentazione visiva di quel pensiero, quindi è molto cerebrale come operazione, più che un lavoro emotivo e sul testo, è una scrittura concettuale, che vedo più complessa da realizzare.
Il regista Roberto Faenza torna al cinema con un film sulla poetessa Alda Merini e tu interpreti Arnoldo Mosca, nipote del fondatore di Mondadori. “Che cos’è la libertà?”, si è più volte chiesta Alda Merini. Che cos’è la libertà per te?
La libertà per me è uscire da schemi che mi costringono da quando sono bambino ad una modalità di azione che non mi piace e che sto cercando di cambiare, anche grazie alla psicanalisi. Diciamo che la libertà per me è quando questi schemi vengono abbattuti e io posso essere qualcun altro al di fuori di me, e anche per questo faccio l’attore [ride].
“Qualcun altro al di fuori di me”
Presto comincerete a girare “Tutto chiede salvezza 2”. Come ti senti all’idea di riprendere questo progetto così importante?
Esattamente come prima di fare la prima stagione, anzi, forse ancora più contento, perché nella prima non sapevo davvero a cosa sarei andato incontro, che persone avrei incontrato. Ora, abbiamo creato un gruppo fantastico e non vedo l’ora di ricominciare a lavorarci insieme. Da un lato non vedo l’ora, dall’altro, come per la prima stagione, mi sto cagando sotto, perché ci sono sempre delle cose molto delicate e importanti da raccontare, e bisogna avere la disponibilità emotiva tutti i giorni per i due/tre mesi di riprese, bisogna essere disponibili per gli altri e ricevere quello che gli altri ti danno, ovvero, in questo caso, di emozioni sempre molto forti, il che è una cosa che sicuramente mi spaventa.
Certo, mi rendo conto che per gli argomenti affrontati, o anche solo per l’impegno di adattare un romanzo per lo schermo, e di interpretare un personaggio che dà tutto, non sia facile poi “uscirne”, tirare fuori nella quotidianità certe cose personali, certi pensieri che ti spingono sempre a metterti in discussione.
Sì, assolutamente, è un lavoro che ti mette costantemente davanti a uno specchio, ti fa confrontare con te stesso ogni giorno, anche quando non lavori. Il “grande stress” di fare l’attore, almeno per me, è esclusivamente psicologico, considerando anche che non ho mai fatto serie come ad esempio “Romulus”, che so essere stato massacrante anche a livello fisico. A livello psicologico c’è un bel lavoro da fare, però è quello che ci siamo scelti e che siamo fortunati a fare, e di questo sarò sempre riconoscente.
Io poi non sono uno di quegli attori che ha bisogno di stare sempre nel personaggio, è una cosa che non so sperimentare, perché ad un certo punto io ho bisogno di uscire e di tornare ad essere me nella mia quotidianità e anche di distrarmi al di fuori del set e tornare alle mie cose e alle mie persone, altrimenti sarebbe troppo pesante. Anzi, mi ricordo che quando giravo “Tutto chiede salvezza” facevo di tutto pur di non rimanere da solo a fare i conti con quello che avevo fatto durante la giornata o quello che avrei dovuto fare dopo, perché avevo bisogno di staccare e di uscire dal personaggio e dalla storia e tornare ad essere me.
“Ad un certo punto io ho bisogno di uscire e di tornare ad essere me”
Come attore, hai fatto delle scelte molto precise nella tua carriera fino ad ora. C’è qualcosa in particolare che ti spinge a dire di sì ad un progetto?
Sto iniziando negli ultimi anni a fare delle scelte mirate, perché purtroppo questo è un lavoro che si costruisce sui “no”. Però, quello che cerco sempre di ricordarmi è che anche questo è un lavoro, nonostante faccia parte del mondo dell’arte; è un lavoro che molto spesso non dipende completamente da noi, e quindi le nostre scelte a volte sono dettate da esigenze molto più pratiche e quindi molto spesso le persone non hanno la possibilità di fare le scelte che vorrebbero fare.
Infatti, una cosa che odio tantissimo è lo snobismo che c’è in alcune persone di questo settore nei confronti di attori o attrici molto bravi o brave che hanno fatto delle scelte dettate esclusivamente da un bisogno pratico, perché poi stiamo parlando di questo, del fatto che le persone in qualche modo si devono sostentare e non tutti hanno la possibilità di scegliere.
Io negli ultimi anni sto cercando di fare esclusivamente le cose in cui credo e che mi piacciono, e quello che ricerco dipende sempre dal progetto e da in che momento di vita mi trovo. Sicuramente, la sceneggiatura è ciò da cui parto, e poi, ovviamente, anche le persone con cui lavori. Poi, ovviamente, se il progetto includesse dei grandi registi, ci lavorerei indipendentemente dalla sceneggiatura [ride], però quella è sicuramente un elemento importante: io, ad esempio, se mi appassiono alla sceneggiatura, anche se non sono il fan numero uno del mio personaggio, posso trovare un compromesso. Insomma, secondo me, quello che si vuole raccontare è la cosa più importante, poi ovviamente anche il personaggio che interpreto è fondamentale nella scelta, perché quello che mi piace raccontare è sempre la persona, non il personaggio; per me, è fondamentale avere la possibilità di fare un racconto tridimensionale del personaggio, per non relegarlo alla figura che vuole simbolicamente raccontare qualcosa all’interno della storia e che quindi è lì per un motivo esclusivo, ma dargli in qualche modo una forma e tridimensionalità, e quindi farlo vivere nei suoi lati di luce e in quelli di buio.
Cosa ti fa più paura e quando ti senti più al sicuro?
La cosa che mi fa più paura è la solitudine, ma anche la perdita dei legami importanti. Io, ad esempio, ho un rapporto totalmente irrisolto con la morte, perché rappresenta la massima espressione della perdita del legame. Io, se perdo un legame, non sto male tanto per le emozioni che perdo, quanto per la quotidianità che perdo con una persona.
Il posto dove mi sento più al sicuro è con la mia ragazza, i miei amici e la mia famiglia, con le persone che mi conoscono e sanno come sono.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Il mio più grande atto di ribellione è stato contro me stesso, una ribellione positiva in realtà. Io sono sempre stato molto insicuro, e la ricerca della sicurezza e qualcosa che sicuramente ha dettato gran parte della mia vita: il mio atto di ribellione è stato decidere di puntare su me stesso. Fino a due anni fa, ho sempre creduto che mi sarei laureato, avrei iniziato la specialistica e fatto la carriera da dottore, ma questo principalmente perché non ho mai avuto il coraggio di scommettere su me stesso e di prendermi il rischio di vedere che succede se va tutto male. Sempre due anni fa, ho deciso di farlo, di scommettere su me stesso e di mandare all’aria la modalità di scelte di vita che ho sempre adoperato, quindi è stato un atto di ribellione ma anche quasi un regalo che mi sono fatto. Poi, c’è una parte di me che odia questa scelta quotidianamente, e l’altra che mi ringrazia per aver creduto in me stesso e per essermi dato una possibilità e per essermi detto almeno una volta: “Senti, fanculo, io ci provo”. Adesso sta andando bene, in futuro non lo so, ma sarò sempre contento di aver fatto questa scelta in questo momento della mia vita. Se poi dovessi tornare indietro, non mi potrei recriminare di niente, almeno.
Che libro stai leggendo ora e quale consiglieresti?
Ho appena attraversato un periodo in cui non leggevo, perché sto scrivendo la tesi e quindi passo tutto il giorno a leggere articoli, quindi non avevo la minima voglia di leggere. Però, proprio mentre tornavo da Milano il giorno del nostro shooting insieme, sono entrato in Feltrinelli: stavo sfogliando alcuni libri e me n’è capitato tra le mani uno di Joan Didion, “Blue Nights”, ed è quello che sto leggendo ora. Mi ha attirato per la sua trama, incentrata sulla morte della figlia in un anno particolarmente sfortunato della sua vita, sempre per ricollegarmi al fatto che io ho un rapporto irrisolto con la morte.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
Thanks to Andreas Mercante & Edoardo Andrini PR Talent Agency.
LOOK 1
Total Look: Louis Vuitton
LOOK 2 & 3
Total Look: Vintage