Per alcuni, il cinema è “solo” intrattenimento. Per altri, è un rifugio, un luogo sicuro dove le emozioni si amplificano e i confini della realtà si dissolvono. Per Federico Majorana, il cinema è ancora di più: una scoperta, una ribellione, un linguaggio capace di dare senso alla complessità della vita e, soprattutto, il desiderio di prendere parte a quello che rappresenta.
In “M. Il figlio del secolo”, diretto da Joe Wright, interpreta Amerigo Dumini, una delle ombre più cupe della Storia italiana. Prepararsi per questo ruolo ha significato immergersi nei documenti storici, studiare la psicologia di un uomo violento, ma anche cercarne l’umanità nascosta. L’approccio meticoloso al personaggio lo ha trasformato in una metafora, un simbolo disturbante e necessario per raccontare la nascita del fascismo. Ma la cupezza del ruolo non ha (fortunatamente) intaccato l’esperienza sul set e il senso di fratellanza che si è creato con il cast. La dualità tra l’immersione totale nei personaggi e la necessità di distaccarsene, accompagna Federico anche fuori dal set: che sia sul palco o dietro una macchina fotografica, ogni forma d’arte diventa per lui un modo di esplorare sé stesso e il mondo.
Con uno sguardo aperto al futuro, il desiderio di raccontare storie proprie e la consapevolezza che il cinema resterà sempre la sua “isola felice”, questa intervista è il ritratto sincero di un artista che vive il suo lavoro come un atto di ribellione verso la realtà, nel tentativo di comprenderla e, magari, cambiarla.
Qual è il tuo primo ricordo legato al mondo del cinema?
Ne ho due particolarmente vividi. Il primo risale a quando sono andato a vedere al cinema “Tarzan” con mia nonna. Mi ricordo molto bene il post-proiezione, in cui ero molto preso da quello che avevo visto e ho cominciato a saltare sulle poltrone del cinema, un cinema che tra l’altro ora non c’è più, si trovava proprio davanti a casa dei miei genitori.
Poi un altro ricordo è la prima volta che ho visto “Blow Up” con un’amica dei miei. Ricordo che nel frattempo ordinavamo cibo indiano. Quello in particolare fu uno dei film che mi fece innamorare del cinema.


C’è stato invece qualcosa che ti ha fatto venir voglia di far parte di questo mondo?
Vedendo sempre più film, ho cominciato a capire che del cinema volevo essere parte attiva, però all’inizio non sapevo bene che cosa volessi essere… Sicuramente non l’attore, ero più interessato a stare dietro la camera. Però, non c’è stato un evento in particolare che mi ha fatto decidere che volevo fare questo come lavoro. Forse è stato davvero semplicemente guardando i film: mi sono innamorato di quel tipo di linguaggio, delle emozioni che i film mi trasmettevano, di quello che mi insegnavano, permettendomi di vedere cose che nella vita vera non puoi vedere da così vicino o con quella chiarezza.
I film mi hanno aiutato a capire la vita, in un certo senso.

Le tue parole secondo me rendono bene quello che poi è un po’ il potere del cinema, l’idea che i film ti fanno capire la vita, trovare una nuova chiave di lettura. Parliamo, invece, del tuo lavoro “davanti alla cinepresa” in “M-Il figlio del secolo” e del tuo personaggio, Amerigo Dumini: qual è stato il lavoro di preparazione per questo ruolo, quanto il libro di Antonio Scurati e la Storia effettiva hanno inciso nella tua interpretazione?
Sono partito da una base storica, ovvero il romanzo di Scurati, l’autobiografia di Dumini e tanti documentari e testimonianze video di quel periodo che mi hanno aiutato ad approfondire. Questo è stato il punto di partenza.
Ovviamente, poi, con Joe Wright, sin dal provino abbiamo puntato a fare un lavoro più personale, rendendo il personaggio una “metafora”, una rappresentazione di quello che erano tante persone in quel periodo, cercando anche di attualizzarlo. Infatti, nelle prime proposte che avevo portato ai provini, la mia era un’interpretazione quasi “antica” del fascista di quell’epoca e dell’idea del fascismo che abbiamo. Invece, con Joe abbiamo cercato di attualizzare il personaggio: man mano, ho spostato la mia attenzione dall’elemento storico alla concretizzazione di quello che Dumini poteva rappresentare per me. Ho cercato delle reference in altri film, come “Arancia Meccanica”, per esempio, che era una reference per Joe, anche dal punto di vista visivo.
È stato importante per me anche cercare la musica giusta che potesse aiutarmi, ho lavorato sulla fisicità nelle scene di violenza, e ho cercato di trovare dei lati umani in Dumini, come il suo sentirsi escluso, o il suo voler essere qualcosa che non era. Ho pensato sempre che Dumini potesse essere un po’ l’ombra di Mussolini, così come tutti gli altri personaggi che, in qualche modo, forse volevano essere lui. Nella serie ci sono dei piccoli accenni a questa cosa, per esempio, c’è la scena in cui Dumini ha lo stesso cappello di Mussolini, un tipo di scarpa molto simile alle sue, con le ghette. Ricercare l’umanità del personaggio mi ha aiutato a renderlo mio e a non fare un’interpretazione puramente storica del personaggio, ma a renderlo più una metafora di qualcosa, come dicevo.

“Con Joe Wright, sin dal provino abbiamo puntato a fare un lavoro più personale, rendendo il personaggio una ‘metafora’, una rappresentazione di quello che erano tante persone in quel periodo”

Insomma, l’hai voluto rendere più umano, farlo tuo, ma scoprirlo anche da altri punti di vista, per così dire, oltre a quelli più tristemente noti della storia italiana: c’è stato, quindi, un aspetto di Dumini che ti ha sorpreso, che non ti aspettavi? O qualcosa che hai scoperto su questo periodo storico in generale?
Dal punto di vista storico, sicuramente questa serie è stata un’esperienza che mi ha aiutato ad approfondire tante cose. Quello che mi mancava erano i particolari, i dettagli di alcuni personaggi, anche di Dumini, di cui non sapevo l’esistenza prima di fare questa serie. Ci sono dei dettagli curiosi, come il fatto che Dumini è nato durante un tornado in America, oppure che dopo il processo per l’omicidio di Matteotti fu catturato più volte, una volta in particolare dagli inglesi che tentarono di giustiziarlo: a quanto pare, gli spararono 17 colpi e lui riuscì a fuggire comunque.


Da cui il nome della sua autobiografia anche, giusto?
Esatto, “17 colpi”. Questi personaggi avevano delle vite sicuramente rocambolesche, il che suona strano, perché quasi sempre fallivano nelle loro azioni, Dumini compreso. Io ho cercato di non avere paura di interpretarne la “stupidità” per così dire, perché a volte erano veramente ridicoli. Anche l’operazione Matteotti, per esempio, fu gestita in modo totalmente fallimentare, dall’inizio alla fine… Erano degli inetti, in qualche modo.

È vero, stavo proprio pensando al fatto che tutta la sequenza sull’omicidio di Matteotti sembra quasi “satirica”, uno sketch dal risvolto comico. Alla fine, è un po’ tutta l’atmosfera che si percepisce guardando la serie, che sembra voler rendere reale un periodo storico così difficile, ma allo stesso tempo non ridicolizzarlo. In quanto produzione corale, si percepisce molto un senso di unità, anche se vengono rappresentati gli aspetti più difficili e orribili di quando il senso di comunione e di idealismo si trasformano in crudeltà e dittatura. Come è stato lavorare tutti insieme a questo senso di fratellanza sul set, alle varie relazioni con l’altro, a partire dal regista Joe Wright?
Il sentimento di fratellanza andava a volte oltre il lavoro: eravamo tutti molto uniti, noi del cast e anche la troupe, quindi era molto bello e facile lavorare insieme, c’era una bellissima atmosfera sul set.
Pensa che il primo provino era un incontro con Joe, una chiacchierata, e secondo me anche questo è stato una sorta di “scrematura” dei caratteri delle persone, motivo per cui c’era molta armonia sul set. Quando ti trovi a lavorare con un regista o un partner di scena che ha tantissima esperienza, all’inizio ti senti piccolo, ma con Joe, questa cosa già dal primo giorno di set nessuno di noi credo l’abbia mai accusata, e nemmeno con Luca [Marinelli]; è stato molto piacevole lavorare con loro, nonostante il tema delicato della serie: era un set molto rilassato in cui ci siamo tutti divertiti.


Durante la visione della serie, abbiamo avuto l’impressione quasi di essere trascinati in un’altra realtà, grazie anche alla musica coinvolgente, al fatto che ci si rivolge direttamente in camera e alle azioni serrate, finendo per uscire dalla visione di ogni episodio in modo scosso. Anche voi avete percepito questa sensazione quasi di “stordimento” nel vivere l’esperienza sul set?
Sicuramente sì, in maniera però volutamente controllata, anche per evitare di farsi trascinare troppo. Comunque, quel tipo di atmosfera di cui parli si sentiva e rendeva facile mettersi nei panni di Dumini, nel mio caso. La scenografia e le tantissime comparse poi aiutavano, era bello e molto semplice immedesimarsi, e poi al contempo c’era un’atmosfera rilassata per evitare eventuali “tensioni”. C’era già tanta cupezza per via della storia che volevamo raccontare, per cui anche un po’ per allontanarla, sul set c’erano tanti momenti di “distacco”, di rilassamento: mi ricordo, per esempio, che nei cambi di scena c’era sempre un po’ di musica di sottofondo.
Inoltre, Joe è un grande ascoltatore, gli piace tantissimo lavorare con gli attori, nel mio piccolo mi sono sempre sentito ascoltato. Joe chiedeva sempre di vedere una prova di come la scena l’avremmo fatta noi, senza alcuna direzione: ci guardava, ed era proprio come vedere un bambino che giocava, in quel momento.
È stato un onore, per me, non mi aspettavo di ricevere tanta attenzione, e invece ce n’è stata tantissima, per ogni singolo dettaglio.

“C’era già tanta cupezza per via della storia che volevamo raccontare, per cui anche un po’ per allontanarla, sul set c’erano tanti momenti di ‘distacco’, di rilassamento”

Abbiamo intervistato Benedetta Cimatti e anche lei ci ha detto una cosa simile.
Sì, si percepiva il piacere di fare cinema sul set. Non è un caso, secondo me, che alla fine sia una serie ben riuscita.
All’inizio avevo un po’ paura dell’effetto che avrebbe potuto avere sul pubblico, temevo io stesso di piacere ma in senso negativo, per esempio; invece, alla fine, la serie ha avuto una risposta molto positiva e io sono orgoglioso di farne parte.


Infatti, la serie ha avuto e sta avendo un meritatissimo impatto e risonanza sia di critica che di pubblico. C’è stata una reazione, un’opinione che ti ha particolarmente colpito?
Per esempio, la serie è piaciuta a mio padre e questo mi ha reso orgoglioso. Poi, di critiche e di recensioni ne ho lette tantissime: in particolare, una ragazza mi ha parlato di Dumini e della sua percezione del personaggio proprio nel modo in cui io volevo farlo arrivare. Mi ha fatto piacere che anche persone “non addette ai lavori” abbiano compreso il lavoro che è stato fatto.


Parlando invece di teatro, hai appena finito una produzione teatrale: interpretare un personaggio per lo schermo e sul palco è diverso per te in qualche modo?
Nello specifico, quest’ultima produzione in cui ho lavorato tendeva all’interpretazione cinematografica: avevamo i microfoni e cercavamo di fare un teatro più moderno, più “inglese”.
Per quanto riguarda in generale come io affronto un ruolo, in realtà, non c’è differenza tra cinema e teatro. Chiaramente, cambia il rapporto con il pubblico, perché a teatro gli spettatori vedono l’interpretazione completa, mentre nel cinema si lavora più sul dettaglio, sul viso, e soprattutto a singhiozzi. In quest’ultimo spettacolo, per esempio, io stavo sul palco per un’ora intera senza mai scendere. Io il teatro lo percepisco più come una sfida, quasi uno sport da combattimento. A parte questo, il personaggio lo affronto sempre nello stesso identico modo: cerco di portarlo nel mio subconscio, in modo tale che lui prenda controllo di me, anche nelle piccole cose; un po’ me lo porto addosso anche nella vita, a volte: l’ho fatto con Dumini, i dettagli “non pericolosi” tipo il suo tic di leccarsi le labbra. Insomma, portare il personaggio nel mio subconscio è un modo per renderlo mio, per fare l’imitazione dell’idea che ho del personaggio, per farlo vivere dentro di me.

“Portare il personaggio nel mio subconscio è un modo per renderlo mio, per fare l’imitazione dell’idea che ho del personaggio, per farlo vivere dentro di me”

Hai dei prossimi progetti attoriali di cui puoi parlarci?
Uscirà un film di Eleonora Danco, che è l’autrice con cui ho fatto lo spettacolo: il film si chiama “Nego”. Poi, c’è un’altra cosa che però non posso dire…

Parlando di un altro tipo di arte invece, sei anche un fotografo: come approcci la ricerca del soggetto e progetto fotografico, è più una cosa istintiva/emozionale?
Nella fotografia, il mio approccio è più istintivo. Col tempo, mi sono reso conto che anche le foto che faccio hanno degli elementi in comune: c’è dietro una ricerca, un gusto, un qualcosa in particolare che cerco, che però viene dalla pancia.
Vado molto di pancia, ecco, e le volte che ho provato a fare shooting un po’ più ragionati, organizzando dettagli come la location, eccetera, non è andata bene. Ho iniziato fotografando semplicemente i miei amici, le situazioni che vivevo, per ricordarmene i dettagli, e poi man mano mi sono reso conto che c’era un fil rouge tra tutti gli scatti, come dicevo.


Ti piacerebbe, allora, affrontare un percorso come direttore della fotografia o altre figure simili?
Alla figura di direttore della fotografia non avevo mai pensato, in realtà, però, di sicuro mi piacerebbe scrivere, o addirittura dirigere. Comunque, non voglio mettermi fretta da questo punto di vista, perché ora come ora non mi sento pronto, non saprei nemmeno che cosa raccontare; però, è una cosa ho dentro di me e che so che più o meno emergerà, o almeno proverà ad emergere, ma non voglio mettermi fretta, perché non ne ho.
Penso spesso a storie da scrivere, e scrivo, prima di più, ora un po’ meno. La scrittura è un linguaggio che mi affascina e con cui ho capito molte cose: vorrei provare a parlare tramite il cinema, che sicuramente funziona meglio delle parole, e spero di poter dare indietro quello che il cinema ha dato a me, perché penso che sia il linguaggio migliore che esiste.


“Vorrei provare a parlare tramite il cinema, che sicuramente funziona meglio delle parole, e spero di poter dare indietro quello che il cinema ha dato a me”

Qual è invece l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso, grazie anche al tuo lavoro?
Ho scoperto che sono più ottimista di quello che immaginavo, che ho più energia positiva di quello che noto di solito. O meglio, gli altri lo notano, io tendo a non notarlo. Mi vedo come una persona più cupa di quello che invece poi arriva. Ho imparato a riconoscere questo lato di me e spero di aver imparato a sapermi nutrire di questo mio lato, e di saperlo notare quando c’è.



Invece, qual è stato il tuo più grande atto di ribellione fino ad ora?
Credo che la scelta di recitare sia un atto di ribellione nei confronti della verità, il tentare di afferrarla e riprodurla. In qualche modo, scegliere di fare questo lavoro è stato un atto di ribellione in primis verso me stesso, perché è un percorso che mi permette di mettermi in gioco e in dubbio in continuazione.

Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Significa ricordarmi che la percezione che ho di me è solo uno dei tanti punti di vista che compongono chi sono, e ciò mi fa sentire meglio e a più agio nella mia pelle.


Qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è la sala del cinema. È un luogo che mi fa sentire protetto, e quando esco sto meglio. Poi aggiungo anche un’isola vera e propria, cioè la Sicilia: ho origini catanesi, e ci vado da quando ero piccolo, ogni volta, infatti, è come ritrovare un pezzetto del me bambino.

Photos & Video by Johnny Carrano.
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