Ci sono registi che sfornano film quasi ogni anno, e poi ci sono quelli che in 12 anni ne creano solo tre ma tutti di qualità.
Stiamo parlando di Florian Henckel von Donnersmarck, regista de “Le vite degli altri” e “The Tourist” che ha presentato alla 75a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo ultimo lavoro, “Opera senza autore”.
La lunga pellicola del regista tedesco ci presenta un giovane pittore (Tom Schilling), la cui infanzia è stata segnata dal regime nazista, che si innamora di una ragazza (Paule Beer) e che grazie a questo amore e alla sua arte riesce a superare le sofferenze infantili. Grazie alla storia personale del pittore attraversiamo la storia contemporanea tedesca e la sua arte in un lungo discorso estetico sulla bellezza e sulla verità.
Abbiamo incontrato Florian Henckel von Donnersmarck durante la Mostra per sapere da dove sia nata questa idea, per conoscere la sua poetica e scoprire come lavora.
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Da dove è partita l’idea? Vedendo il film sembra che lei voglia dire che l’arte è un modo anche per rimuovere il trauma, è così?
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Sono completamente d’accordo con questa analisi. C’è questo tipo di alchimia in un grande artista nel prendere le ferite della propria vita e farne un qualcosa di grande che ci muove e che ci fa vedere la sua sofferenza, trasformandola appunto in qualcosa di grande e di bello.
Questo mi ha sempre affascinato e ho avuto l’idea di raccontarlo così attraverso la trama di una famiglia in cui vivono insieme le vittime del nazismo e coloro che hanno commesso i crimini. Volevo raccontare questa storia personale e insieme anche la storia dell’arte contemporanea tedesca.
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In questa Mostra abbiamo visto diversi film che analizzano la difficile relazione estetica fra arte e verità, come “The mountain” o “At eternity’s gate”. Nel suo film è uno dei punti centrali facendo prevalere il concetto di bello=reale. In questo senso quindi, essendo un film una storia chiaramente costruita e quindi falsa, qual è la “ricetta” per un film bello?
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Questo film è ispirato a Gerhard Richter, il grande pittore tedesco che ha somiglianze con il personaggio interpretato da Tom Schilling, e lui ha una filosofia che dice “non c’è niente che non si possa esprimere attraverso la bellezza”.
Lo vediamo anche con la musica. La musica romantica per esempio è sempre bellissima, ma può provocare in noi qualsiasi emozione, può renderci tristi o felici, e tutto attraverso la bellezza.
E questo è quello che abbiamo cercato di fare anche noi, di vedere come si possa trovare la verità attraverso la bellezza, perché le due cose che cercano gli artisti, o molti di loro, sono la bellezza e la verità. Quindi ci deve essere un legame. Forse non è un legame in cui una è uguale all’altra, come dice il personaggio della zia, ma lei è anche schizofrenica quindi chi può dirlo [ride].
C’è una relazione fra questi due aspetti, ma non si sa bene né quale sia e nemmeno se esista. Credo che la verità sia così fuggevole che per un artista quando la trova sembra subito bella.
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Nel film vediamo una lunga carrellata delle forme d’arte che si sono sviluppate in quel periodo, di ricerca e non figurativa. Perché ti interessava spiegare così bene quella parte della storia dell’arte tedesca?
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L’artigianato era molto importante nell’arte prima di questo periodo contemporaneo, l’arte dei nazisti era un’arte in cui, anche se non c’era molto di quello che ora chiamiamo arte, era presente almeno l’artigianato, che ci dava un minimo di consolazione, vediamo che una cosa è disegnata e costruita bene.
Dopo la fine della guerra in Germania era quasi impossibile fare qualcosa di figurativo, anche in Italia se vediamo l’Arte Povera. C’è stata una sorta di liberazione che però buttando via il dogma dei sistemi autoritari ha spazzato via anche l’artigianato.
E questo vuol dire che è molto più facile nascondere delle cose senza importanza e senza significato, anche stupide e assurde, all’interno dell’arte contemporanea.
Penso anche che il pericolo maggiore sia che è facile perdere fra tutte queste cose i veri gioielli che comunque esistono, e questo è il vostro e il nostro dovere: scoprire i gioielli fra le opere assurde.
Bisogna trovare l’anima dell’arte.
Credo che la verità sia così fuggevole che per un artista quando la trova
sembra subito bella.
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Ci sono state tante difficoltà nel girare questo film? Dal suo ultimo film, “The Tourist”, sono passati molti anni. Come mai?
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Sì [ride]. Eravamo molto ambiziosi per questo film, volevamo fare un grande film dove non si vedesse mai la finzione e l’artificialità, ogni effetto doveva essere perfetto, ogni opera d’arte fatta da grandi artisti doveva rappresentare quello che rappresentava originariamente.
È stata una grande sfida, ma quando hai un gruppo di attori come questo, di cui l’ultimo che abbiamo trovato è stato Oliver Masucci, sai che il film è ormai fatto.
Ci vuole un certo tempo per trovare qualcosa che io voglia fare realmente. La cosa peggiore è iniziare un film e dopo un anno abbandonarlo. Per questo sono molto cauto nella scelta del soggetto e mi sembrava che qui avessi qualcosa di abbastanza interessante per occuparmi degli anni. Non sapevo sarebbero stati così tanti però.
Per “The Tourist” ci abbiamo messo 11 mesi, mentre per questo ci è voluto molto tempo. Vorrei ci volesse sempre così poco ma purtroppo non è sempre così.