Da qualche anno a questa parte, Fotinì Peluso è presenza fissa su grandi e piccoli schermi. Questo mese, in particolare, la ritroviamo in due progetti emozionanti e particolarmente formativi, come ci ha raccontato. Nel film “Dieci minuti” di Maria Sole Tognazzi, liberamente ispirato al romanzo “Per Dieci Minuti” di Chiara Gamberale, al cinema dal 25 gennaio, esplora il potere di dieci minuti in ogni giorno per cambiare tutto. Perché il valore dei piccoli gesti, per quanto costantemente decantato, continua ad essere sottovalutato.
In Francia e presto anche nel resto d’Europa, la vediamo in “La Tresse” di Laetitia Colombani: qui interpreta Giulia, una giovane italiana coinvolta nel mondo delle parrucche e in un inaspettato amore con un ragazzo sikh. Una storia di tre donne, da tre continenti, unite da una treccia che lega i loro cammini.
A queste storie di donne, guidate da donne, Fotinì aggiunge non solo il suo talento, ma anche e soprattutto la sua magia. Quella stessa magia che la invita sempre a pensare col cuore e col corpo, per un approccio empatico al lavoro come alla vita.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Sono andata a vedere “Alla ricerca di Nemo” quando ero molto piccola e questo è il mio primo ricordo in una sala cinematografica. Ero con mia sorella e mia mamma, molto divertente.
A casa mia si sono sempre visti molti film, quindi c’erano proprio delle serate in famiglia in cui guardavamo film tutti insieme e forse anche questo ha sviluppato il mio interesse per il cinema.
Sei tra i protagonisti di “Dieci Minuti”, il nuovo film di Maria Sole Tognazzi in uscita in sala il 25 gennaio. La storia si concentra sulla potenza di dedicare dieci minuti al giorno a qualcosa di nuovo, perché il cambiamento può avvenire anche solo attraverso questa pratica quotidiana. C’è un momento nella tua vita in cui un piccolo cambiamento ha avuto un impatto significativo?
Credo che dipenda tutto dall’attitudine che abbiamo nel fare piccoli gesti come il caffè la mattina. Svegliarsi e prendersi cura di sé stessi penso che sia un atto in grado di avere un impatto enorme sulla nostra vita. Oltretutto il cambiamento non è costante, penso che si coltivi, ed è la ricerca che cerco di fare ogni giorno della mia vita.
Cosa puoi svelarci del tuo personaggio, Jasmine, e il suo ruolo nelle vicende rappresentate? Quanto c’è di te in lei?
Jasmine è una ragazza molto determinata che si è dovuta fare un po’ da sola. Il padre non è mai stato molto presente nella sua vita avendo scelto l’altra figlia, Bianca, interpretata da Barbara Ronchi. Quindi Jasmine si è dovuta fare le ossa da sola, è una ragazza intraprendete e indipendente che non si fa mettere i piedi in testa. Ha una grandissima corazza di ironia e sarcasmo e la cosa che ho trovato molto interessante da interpretare è il modo in cui piano piano, nell’evoluzione del personaggio, si mostrano le sue fragilità, che sono anche la sua forza, perché ha una sensibilità enorme, tant’è che sceglie di occuparsi di questa sorella senza neanche conoscerla e ci si dedica appieno. Similitudini fra me e lei di sicuro la determinazione, lei forse è più cazzuta. Decisamente.
“una grandissima corazza di ironia e sarcasmo”
Hai mai sperimentato personalmente quel tipo di approccio nella tua quotidianità? In che modo ritieni o speri che questo concetto del “ritagliarsi sempre del tempo da dedicare a qualcosa di “mai fatto” possa influenzare il pubblico?
L’approccio di tentare di fare sempre qualcosa di nuovo nella quotidianità, di spingersi al di là dei propri limiti è una ricerca personale che tutti dovremmo fare anche per vivere meglio con noi stessi. Il fatto di essere curiosi e di uscire dalla propria comfort zone credo che dovrebbe essere un’aspirazione per tutti.
Grazie a questo film, di Maria Sole Tognazzi, e a un altro tra i tuoi ultimi progetti, il film “La Tresse” di Laetitia Colombani, attualmente nelle sale francesi e presto in arrivo in Europa, hai lavorato con registe di talento. Qual è stata la tua esperienza di collaborazione con loro e in che modo hanno influenzato la tua interpretazione?
Per me è interessantissimo lavorare con delle registe donne, le quali per quanto differenti possano essere l’una dall’altra, hanno un occhio che per certi versi si accomuna. Ci sono temi importanti per la nostra generazione di donne che trovo che le registe riescano molto bene a individuare. A loro modo hanno entrambe voluto rappresentare delle donne forti e indipendenti e che vogliono cercare di levarsi di dosso il ruolo che gli è stato affibbiato dalla società e trovare il loro posto come esseri umani donne.
In “La Tresse” interpreti Giulia, una ragazza che lavora in un piccolo laboratorio familiare che tratta e rivende capelli per parrucche. Quando suo padre muore, si scopre che l’attività è piena di debiti, ma lei è determinata a prendere le redini dell’azienda e rinnovarla. Come hai affrontato il processo di preparazione per il ruolo, considerando la complessità del personaggio e la sua evoluzione nel corso della storia?
Interpretare Giulia, il mio personaggio in “La Tresse”, è stato un percorso molto interessante perché la regista Laetitia Colombani è stata estremamente aperta al dialogo e alla modifica della sceneggiatura, che già aveva tutti gli elementi fondamentali per interpretare il personaggio, però molti aspetti sono stati modificati alla luce del dialogo con lei e con gli altri attori. Di sicuro poter costruire un personaggio insieme con una apertura mentale e una flessibilità così grande mi ha permesso di arricchire il personaggio in corsa.
È stato complicato prepararsi, perché uscivo da un progetto molto lungo che avevo da poco terminato di girare, “Greek Salad”, e abbiamo avuto una settimana intensissima di preparazione. Il personaggio di Giulia ha una evoluzione enorme nella storia e la costruzione del personaggio in maniera così profonda credo sia data anche dal periodo in cui forse ho girato il film, un periodo di profondo flusso di idee e di passaggi da un progetto all’altro che ho trovato molto prolifico.
“…un periodo di profondo flusso di idee e di passaggi da un progetto all’altro che ho trovato molto prolifico”.
Qual è l’aspetto più affascinante che hai scoperto sul tuo personaggio?
L’aspetto più affascinante credo che sia il fatto che per andare avanti e ristabilire il suo nuovo ruolo nella società, rimodellando sé stessa per diventare la persona che lei vuole, non ha bisogno di rinnegare le proprie origini. La sua evoluzione è un connubio perfetto tra la tradizione da cui viene e l’innovazione che vuole dare alla sua vita, il progresso. Questo l’ho trovato molto commovente, perché a volte si tende a seppellire il passato per poter costruire qualcosa di nuovo e invece la forza di questo personaggio è nel rimanere profondamente ancorata alle sue origini, ma rinnovandosi sempre.
“La Tresse” ci racconta di tre donne che, pur non incontrandosi mai, sono legate da un filo conduttore. Come hai gestito il rapporto con gli altri personaggi senza condividere scene dirette con loro?
È stato molto interessante girare questo film anche, appunto, per il legame profondo che c’è tra le tre protagoniste che non si incontrano mai e anche noi, durante le riprese, non ci siamo mai incontrate perché giravamo in paesi diversi: Italia, Canada e India. La cosa incredibile è che per me è stato sempre molto presente il legame di empatia fra me e queste donne, sia come attrice sia come personaggi. Laetitia Colombani non perdeva mai di vista che il film fosse tutto interconnesso, ovvero che le relazioni che c’erano tra queste donne influenzavano profondamente la storia e il suo messaggio e quindi non mi è mai sembrato di fare un film da sola. Sono sempre state molto presenti. Siamo entrate in contatto inizialmente online e io sono stata la prima a incontrarle tutte e due. Quando ci siamo viste per la prima volta tutte insieme durante la première a Parigi mi sembrava già di conoscerle da una vita. Il fatto di lavorare così intensamente su dei personaggi tenendo conto del ruolo dell’altra, anche se non era presente fisicamente, credo abbia sviluppato proprio una interconnessione tra noi ancora prima di incontrarci dal vivo.
Le tre protagoniste provengono, come dicevi, da continenti diversi. In che modo la diversità culturale dei personaggi e i loro trascorsi hanno arricchito la tua esperienza di recitazione e di vita?
In generale, trovo che il fatto di confrontarci con culture, lingue, persone che vengono da classi sociali, ambienti e lavori diversi sia una cosa che può solo arricchirci nella vita e nella storia, allo stesso tempo, per me è stato uno spunto gigantesco. È anche questo che il film vuole mettere in risalto: mostrare allo spettatore questo mix, queste differenze, ma farci anche capire che ci sono delle condizioni universali. Il profondo nocciolo dell’essere umano, dunque, è che siamo tutti uguali.
“Il profondo nocciolo dell’essere umano, dunque, è che siamo tutti uguali”.
Entrambi i film, “Dieci Minuti” e “La Tresse”, affrontano tematiche universali e profonde. Cosa ti ha attratto di più di questi progetti e, in generale, cosa ti fa dire di sì ad un progetto?
Ci sono tantissimi aspetti che considererei, ma in generale credo che tutto ciò che mi arricchisca come persona e mi insegni qualcosa di nuovo per me è un progetto valido in quanto essere umano in primis e poi come attrice. Mi piace molto cambiare e la cosa più divertente e interessante del mio lavoro è poter interpretare diversi personaggi.
In progetti come “La Tresse” e “Dieci minuti” un fattore che ha giocato un ruolo molto importante per me è stato che fossero girati da donne e che trattassero temi universali che mi stanno molto a cuore in quanto giovane ragazza. Credo che non se ne parli abbastanza ed è sempre importante impegnarsi in questa direzione. Sono temi che sento molto vicini e questa è stata una spinta enorme, oltre che lavorare con due registe incredibili.
Si tratta di storie di cambiamento e crescita. Hai notato dei cambiamenti personali nel tuo approccio alla recitazione o nella tua vita durante o dopo la realizzazione di questi progetti? In altre parole: cosa hai scoperto di nuovo su te stessa?
Credo che tutti i film ci lascino qualcosa che ci portiamo dietro e alcuni ruoli restano attaccati come una sottopelle. Da tutte le nuove esperienze si impara qualcosa, da questi progetti in particolare è stato il rendermi conto, in quanto ragazza, di quanto fosse importante parlare di certi temi che mi piacerebbe fossero, piuttosto, demodé, come il fatto di ridefinire il proprio ruolo nella società in quanto donna. Per “Dieci minuti” il discorso è leggermente diverso, perché la protagonista si ridefinisce anche alla luce di una propria crisi esistenziale. Però mi rendo conto di quanto sia importante parlarne e credo che sia una lotta che vada fatta nel quotidiano e, forse, mi hanno fatto prendere coscienza di quanto dovrebbe essere un cambiamento costante e che si dovrebbe partire dai piccoli gesti, e anche io nella mia vita cerco di andare in questa direzione come posso.
Come gestisci le emozioni che sopraggiungono quando interpreti storie o scene particolarmente significative, che affrontano temi delicati e profondi? Tendi ad essere più razionale o a lasciarti andare all’istinto?
Io sono una persona molto razionale, quindi è proprio questo il mio conflitto interiore: da un lato ho una emotività molto profonda che viene però ancorata e radicata per terra dalla mia razionalità. La challenge per quanto mi riguarda nel lavoro è lasciarmi andare, non pensare col cervello ma col cuore, col corpo. Una cosa della quale mi sto rendendo conto è che il corpo ha sempre ragione e ha ragione molto prima rispetto al cervello, e nella nostra società questa è una cosa che trascuriamo completamente. Questa è la sfida a cui vado incontro quando cerco di interpretare un qualsiasi ruolo particolarmente emotivo e trovo una enorme liberazione quando effettivamente riesco, anche se non si arriva mai al 100% a farlo, a esprimermi e a dire qualcosa tramite la recitazione e le mie emozioni. Devo dire che c’è una enorme soddisfazione nel lasciare un po’ la presa.
“Il corpo ha sempre ragione e ha ragione molto prima rispetto al cervello”
Il libro sul tuo comodino in questo periodo?
Il mio libro sul comodino in questo momento si intitola “La più recondita memoria degli uomini” di uno scrittore senegalese che si chiama Mohamed Mbougar Sarr, che ha vinto il premio Goncourt nel 2021. Ci sono poi anche una quantità imbarazzante di pièce di teatro che comunque leggo e che mi fanno perdere ore in libreria. Poi ne ho un altro che si chiama “Klara e il sole” di Kazuo Ishiguro, scrittore che ha vinto il premio Nobel della letteratura e trovo molto interessante.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione finora?
Il mio più grande atto di ribellione nella mia vita finora … andare a letto presto e prendere un gatto.
La tua più grande paura?
La mia più grande paura di sicuro è l’idea di essere abbandonata, penso che però spaventi tutti. Sono una persona socievole e ho bisogno di condividere e avere sempre persone attorno, quindi il fatto che queste persone possano sparire mi spaventa.
Però forse la mia più grande paura è anche un po’ me stessa, il fatto di convincermi di non essere in grado di fare qualcosa o di non essere abbastanza. Questa è una mia ansia nella vita, una continua lotta con me stessa.
Cosa o chi ti fa sentire più al sicuro? E cosa o chi ti fa sentire più sicura di te?
La cosa mi fa sentire più al sicuro è la mia famiglia, anzi, nel mio immaginario è sempre stato il nucleo più protetto possibile, dove nulla mi poteva far male, dove nulla poteva entrare, fin da quando ero piccola. Poi, crescendo, questo rapporto cambia, però sì, sono le uniche persone su cui metterei volentieri la mano sul fuoco senza pensarci due volte.
Cosa mi fa sentire più sicura di me? Nessuno. Il mio lavoro, le mie soddisfazioni, il fatto di essere felice mi fa sentire più sicura di me, perché mi fa pensare di aver trovato un posto giusto nel mondo.
“Essere felice mi fa sentire più sicura di me”
L’ultima cosa o persona che ti hanno fatto sorridere?
L’ultima cosa che mi ha fatta sorridere è stata quando domenica sera sono andata a fare scalata a Parigi in una parete interna, insomma, in uno studio di scalata senza fune, non quella assistita, ma quella bassa di due metri; arrivata in cima ho guardato giù e non volevo più scendere, quindi mi sono messa ad urlare con tutte le persone che mi guardavano. Ecco, questa è stata l’ultima cosa che mi ha fatta sorridere.
La tua isola felice?
La mia isola felice è casa mia, l’idea che apri la porta a chi vuoi e se non vuoi non la apri; la chiudi e ci sei solo tu dentro, ed è il tuo posto. La mattina apri le finestre e ci sei tu. Credo che sia una enorme libertà e mi rende profondamente felice questo. Anche il fatto di avere la scelta di un posto proprio, che è tuo e di nessun altro, non in senso di appartenenza materiale, ma in senso di spazio proprio.
Photos by Johnny Carrano.
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