Tra le luci soffuse del cinema, l’emozione del grande schermo, e personaggi dalle sfumature più profonde, l’attrice Gaia Girace ci porta dietro le quinte del suo ultimo film, “Girasoli” di Catrinel Marlon. Storia (vera, riadattata) di un amore travagliato tra le mura di un ospedale psichiatrico.
Come meglio iniziare l’anno, se non con un viaggio tra passato e presente? In una lunga e piacevole chiacchierata, Gaia, la nostra Cover di gennaio, racconta il suo coinvolgimento nell’affascinante storia di Lucia, una quindicenne schizofrenica sottoposta a cure sperimentali in un manicomio degli anni ’60. Una sfida emotiva per lei senza precedenti quella di interpretare un personaggio così complesso e coinvolgente, che le ha concesso di immergersi nel mondo della follia e dell’amore impossibile.
Dall’esordio televisivo ne “L’amica geniale” alle sfide della serie “The Good Mothers”, Gaia ci guida attraverso il suo percorso artistico, condividendo riflessioni sulla differenza tra il cinema e la televisione, sulla sensibilità femminile e sull’arte di rappresentare la sofferenza. Attraverso il suo sguardo fresco, Gaia ci regala una nuova prospettiva sul significato della crescita artistica e sulle sfide che comporta l’interpretazione di storie toccanti e coinvolgenti.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il mio primo giorno di set. Perché ho scoperto cosa significasse veramente fare cinema. Prima, certo, amavo recitare, volevo entrare in quel mondo, ma solo quando ho iniziato a lavorarci ho scoperto cosa significasse. È stato destabilizzante, perché ho scoperto c’è si lavora e si fatica tanto, ci sono tempi strettissimi da rispettare, bisogna essere sempre preparati. Per un momento mi sono domandata se stessi facendo la cosa giusta… Ma una volta ambientata, ho capito che il set era un posto in cui mi sentivo bene, quindi poi l’ho amato.
Ora sei protagonista del film “Girasoli”, esordio alla regia di Catrinel Marlon: un film che affronta temi profondi, importanti, delicati: la follia e l’amore impossibile. Qual è stata la tua reazione quando hai letto la sceneggiatura per la prima volta? C’è stata una scena o un momento che ti ha particolarmente colpito?
Appena ho letto la sceneggiatura ho subito pensato che si trattasse di una bella occasione per mettermi in gioco, perché il mio era un personaggio veramente difficile e lontano da me. Ho pensato che avrei dovuto studiare veramente tanto, perché non dovevo rappresentare solo un carattere, ma dovevo analizzare il contesto storico, studiare le patologie, e fare un lavoro profondo sul corpo per rappresentare la vita dei ragazzi che erano rinchiusi lì, nella struttura psichiatrica, e che è una cosa completamente estranea a quello che viviamo noi.
Sicuramente la fine della storia mi ha sconvolta. Anche sul set, c’era questa scena che dovevamo girare io e la dottoressa, con una vasca piena di sabbia che mi hanno spiegato trattarsi di una tecnica che si usava molto all’epoca, perché attraverso i disegni dei piccoli pazienti sulla sabbia si capiva se erano stati violentati, se avevano subito violenze di vario tipo; questa cosa mi ha sconvolta.
Come ti sei preparata per interpretare il ruolo di Lucia, quindicenne schizofrenica sottoposta a cure sperimentali in un manicomio negli anni ’60?
Ho studiato tanto, ma purtroppo non ho parlato o conosciuto nessuno. Ho lavorato molto sullo sguardo, per riprodurre quel tipico “sguardo perso” dei ragazzi che venivano riempiti di medicinali al punto che anche se non erano pazzi, in qualche modo lì dentro lo diventavano. Ho studiato per cercare di creare una certa ambiguità nel personaggio, in modo che fino alla fine non si capisse mai se fosse pazza o meno. Mi sono ispirata a tanti film sul tema per riprodurre al meglio gesti che potessero esprimere i disagi di questa ragazza. Le ricerche più consistenti che ho fatto sono state quelle sulle “tarantolate”.
Il tuo personaggio instaura un “legame particolare” con la giovane infermiera Anna. Puoi parlarci della dinamica tra i due personaggi e di come hai lavorato per creare questa connessione?
Ho cercato di considerare Anna come lo spiraglio di luce di Lucia, che vive nel buio totale e solo grazie ad Anna riesce a scoprire le emozioni. Da quando conosce Anna, inizia a parlare, a sorridere, a ballare, a fare cose che non aveva mai fatto, e prova cose che non aveva mai provato perché era stata chiusa in manicomio fin da ragazzina. Ho cercato di rappresentare le emozioni pure e rendere l’idea che una persona davvero ti può salvare la vita o te la può far vivere meglio.
Abbiamo fatto degli incontri preliminari con Mariarosaria [Mingione] e con la regista per creare una sintonia tra noi, per conoscerci meglio.
“Ho cercato di rappresentare le emozioni pure e rendere l’idea che una persona davvero ti può salvare la vita o te la può far vivere meglio”.
“Girasoli” è ispirato a una storia vera che ha toccato da vicino la regista e i suoi familiari. In che modo hai cercato di portare autenticità al tuo personaggio, considerando la storia reale alla base del film?
È stato molto difficile proprio perché si trattava di una storia vera e un progetto a cui sia la regista sia la sceneggiatrice tenevano veramente tanto: volevano raffigurare e raccontare questa storia come l’avevano immaginata. Purtroppo non è sempre possibile riuscirci, a volte proprio per esigenze cinematografiche, quindi è stato complicato cercare un equilibrio tra quello che studiavo e pensavo potesse essere giusto e quello che desideravano loro. Lavorando insieme, però, abbiamo cercato di creare armonia, anche perché è una storia vera che doveva essere trattato con rispetto e con tatto.
Il tuo ruolo in “Girasoli” deve aver comportato un carico emotivo non indifferente, un “peso” che immagino tu ti sia portata addosso anche dopo la fine delle riprese. In che modo hai gestito la sfida emotiva di interpretare un personaggio così complesso e coinvolgente?
In generale, tutte le storie che coinvolgono bambini mi fanno scattare una sensibilità particolare. Anche prima che questo progetto mi fosse presentato, quando mi capitava di vedere video o leggere notizie su manicomi infantili e come venivano trattati i bambini, mi assaliva un senso di angoscia, mi mancava il fiato. Quindi, girare questo film è stato ovviamente pesante; ho cercato di concentrarmi sul mio personaggio e di non pensare sempre troppo. Finora ho sempre interpretato personaggi tosti, storie vere, e se ogni volta mi facessi coinvolgere da tutto questo non ne uscirei più. Essendo molto empatica, devo cercare di mettere tutto da parte e concentrarmi su quello che devo fare.
“Finora ho sempre interpretato personaggi tosti, storie vere, e se ogni volta mi facessi coinvolgere da tutto questo non ne uscirei più”.
Dopo le tue esperienze televisive con “L’amica geniale” e “The Good Mothers”, come è stato affrontare il tuo primo ruolo importante in un lungometraggio? Ci sono differenze significative nel tuo approccio alla recitazione tra il cinema e la televisione?
Secondo me, la differenza principale è la “brevità” del lungometraggio. In una serie, hai la possibilità di far vedere lo sviluppo del tuo personaggio, di raccontare meglio, se consideri che una stagione dura diversi episodi e ci possono essere più stagioni di una serie. Un film invece implica un tempo limitato, quindi devi sfruttare al massimo tutte le scene che hai a disposizione. Da quel punto di vista, io mi sono impegnata molto perché non ci saranno secondi episodi in cui far vedere una nuova parte del mio personaggio, o fare di meglio, quindi ci ho messo una concentrazione maggiore.
Fare un film per la prima volta è stato speciale, non saprei spiegare esattamente perché, ma è un po’ l’emozione di andare sul grande schermo.
Come descriveresti il tuo coinvolgimento nella storia di “Girasoli” e cosa trovi affascinante del tuo personaggio o della storia che stai interpretando in generale?
In generale, trovo affascinante che sia una storia al femminile, scritta da donne; questa sensibilità iniziale mi ha coinvolta, così come il fatto che sia una storia vera. Secondo me, la cosa più bella è che è nato tutto quando la regista è andata in una biblioteca e ha trovato una lettera, testimonianza della storia d’amore tra Lucia e Anna avvenuta nell’Ottocento e trasposta qualche decennio dopo nel film. È bellissimo immaginare che una storia del genere sia veramente accaduta.
“The Good Mothers”, invece, affronta temi legati alla criminalità organizzata. Qual è l’approccio che hai imparato, nel corso di questi ultimi anni, ad adottare nell’interpretare personaggi coinvolti in storie basate su fatti di cronaca e violenza, come anche “L’amica geniale”?
Ho imparato ad affrontare e raccontare la sofferenza. La violenza, in generale, ti innesca un dolore dentro che per quanto si possa andare avanti, resta una cosa che ti porterai per sempre, perché la violenza ti segna, che sia fisica o psicologica. Io ho voluto rappresentare la sofferenza di queste donne che non le abbandona, giorno dopo giorno, donne che lottano per non farsi logorare, in un contesto da cui è difficile liberarsi.
“Donne che lottano per non farsi logorare”
Insomma, sia “Girasoli” che “The Good Mothers” sembrano affrontare temi sociali importanti. In particolare, la prima di “Girasoli” al TFF si è svolta in concomitanza con la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Qual è il ruolo dell’arte e del cinema, secondo te, nel trasmettere messaggi e sensibilizzare il pubblico su questioni sociali e attuali come questa?
Penso che l’arte abbia un ruolo fondamentale, e in particolare il cinema. Magari qualcuno guarda una serie, si riconosce in un personaggio e pensa, “Ma anche io allora posso uscire da questa situazione, diventare così, c’è speranza anche per me?”. Il ruolo dell’arte è quello di mandare messaggi, dare forza alle persone, farle sognare.
Guardando al futuro, ci sono altri generi cinematografici o tipologie di ruoli che ti piacerebbe esplorare in futuro? Hai già in mente progetti particolari?
Penso ci siano ancora tantissime cose che posso fare. Mi piacerebbe fare un film d’azione o un thriller, magari anche qualcosa di un po’ più leggero, una commedia. Mi piacerebbe provare a interfacciarmi con una storia non drammatica e mettermi alla prova, vedere come posso essere in un altro contesto.
Immagino che voi attori, attraverso il vostro lavoro, abbiate modo di esplorarvi nel profondo, di conoscevi sempre un po’ meglio, ad ogni progetto a cui lavorate. Qual è stata l’ultima cosa che hai imparato su te stessa attraverso il tuo lavoro?
Direi che è un imparare quotidiano. Ho scoperto che, pescando in fondo, posso essere tutto ciò che voglio, basta trovare il coraggio di tirarlo fuori. Interpretando personaggi, scopri che ci sono tante parti di te che puoi tirar fuori, che puoi essere chi vuoi. Amo il cinema anche per questo, perché mi consente di vivere mille vite ed essere tutto ciò che voglio.
“Ho scoperto che, pescando in fondo, posso essere tutto ciò che voglio”
Cosa ti fa sentire più al sicuro? E cosa, invece, ti fa sentire più sicura (di te)?
Uno dei posti in cui mi sento più al sicuro è sicuramente il set. Lì mi sento diversa, a mio agio, nel posto giusto.
Mi sento sicura di me poche volte in realtà. Piano piano questa cosa sta migliorando e migliorerà, ma io ho spesso bisogno di consigli dagli altri, perché molte volte non so quale sia la cosa più giusta da fare. Però, sono molto sicura di me quando riesco a essere consapevole di avere dei valori e riesco a dimostrarlo, ovvero quando penso che una cosa non sia giusta. Sono più insicura sulle cose di tutti i giorni e ho più bisogno di approvazione. Mentre quando sono cose veramente importanti, non ho bisogno di conferme o pareri, perché se credo che una cosa non sia giusta o che lo sia, lo credo fino in fondo.
Secondo me è molto più importante essere sicuri di sé in questi contesti che nelle cose di tutti i giorni…
Invece, un epic fail sul set?
Sul set de “L’amica geniale” una volta sono caduta e ho fatto una capriola rovesciando per terra anche dei gelati. Tutti si sono piegati dalle risate [ride].
Il tuo must-have sul set?
Non ho ancora un portafortuna, ma di sicuro ho sempre con me il copione con tutti i miei appunti.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Ce ne sono stati parecchi… Forse, il più significativo è stato rendermi conto di ciò che sono. La frase che riassume, il motto è: “Nonostante tutto, vado avanti”.
La tua più grande paura?
Non arrivare ai miei obiettivi, non riuscire a realizzare tutto quello che mi sono prefissata, in cui credo.
“Nonostante tutto, vado avanti”.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Significa sentirti bene nel tuo corpo con consapevolezza, essere felice di ciò che sei, non lasciarti scalfire dai commenti negativi. Si tratta di una consapevolezza che arriva o non arriva, perché poi ognuno ha i propri tormenti nella vita; io, fortunatamente, mi sento molto bene, ed è una bella sensazione sentirsi bene con sé stessi, è un limite in meno.
L’ultima cosa o persona che ti hanno fatto sorridere?
Tu, perché mi ha fatto piacere quando mi hai detto che “Girasoli” ti è piaciuto!
E a me fa piacere averti fatta sorridere!
Qual è la tua isola felice?
È dove sto bene io, con le persone che mi fanno stare bene. Non ho un luogo che abbia un particolare significato per me, perché io sono una che si adatta dappertutto. Il mio posto felice quindi sono solo le persone con cui sto bene.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup and Hair by Micaela Ingrassia.
Thanks to Cristiana Zoni – CZ 24 Comunicazione.
Thanks to Anna Lo Presti.
LOOK 1
Look: Vivetta
Shoes: Ovyé
Bag: Halíte Jewels
LOOK 2
Coat: Weili Zheng
Dress: Missoni
Shoes: Philosophy di Lorenzo Serafini
Socks: Missoni
LOOK 3
Coat: Philosophy di Lorenzo Serafini
Dress: Philosophy di Lorenzo Serafini
Shoes: Missoni
Socks: Missoni
Jewels: LIL Milan and Voodoo Jewels