Una regista che sa quello che fa, un’attrice che è incredibilmente in sintonia col proprio personaggio: cosa desiderare di meglio e quali migliori ingredienti per un debutto di successo?
La regista Georgia Oakley e la protagonista Rosy McEwen hanno trasformato una collezione di racconti di vita vera di repressione e di paura in un film-gioiello che punta ad aprire un dialogo intergenerazionale. Per colmare il divario di comprensione che caratterizza la società umana quando si tratta di norme di genere e orientamento sessuale.
Ambientato negli anni ’80, ai tempi dell’Articolo 28 contro la “promozione” dell’omosessualità, “Blue Jean” racconta una storia che enfatizza quanto sia importante non smettere mai di lottare per quello in cui crediamo, soprattutto quando c’è da rivendicare l’autenticità e la libertà di espressione.
Nel nome della libertà di essere chi sentiamo di essere, e di amare chi vogliamo amare.
Il film inizia sulle note di “Blue Jean” di David Bowie, il cui testo dice: “Blue Jean / Ha il volto camuffato e niente soldi”, che un po’ si addice alla Jean del vostro film, soprattutto il riferimento al volto camuffato… La canzone ha ispirato il film oppure l’idea di utilizzarla è sopraggiunta in un secondo momento? Com’è nato il progetto in generale?
G: Non è stata la canzone a ispirare il film, in realtà, è stata piuttosto una bella coincidenza. Ho iniziato a sviluppare una storia su un insegnante che lavorava ai tempi dell’Articolo 28: all’inizio, non sapevo bene chi potesse essere questa insegnante, ma ero attratta dall’idea che un’insegnante di educazione fisica avrebbe potuto relazionarsi agli adolescenti e ai loro corpi, in particolare, in modo diverso rispetto, per esempio, ad una di matematica, anche in termini di nascondere la propria identità e sessualità. Abbiamo avuto solo due settimane per sviluppare la storia, prima della scadenza della cessione dei fondi in Inghilterra, e quindi è successo tutto molto in fretta, e non saprei dire da dov’è nato esattamente il titolo, ma ho sempre saputo che la protagonista si sarebbe chiamata Jean. Una delle primissime cose che ho creato per questo film è stata la playlist di canzoni che ne avrebbero fatto parte e che, ovviamente, l’avrebbero ispirato, e “Blue Jean” di David Bowie era una di queste.
Il blu è un colore dominante nel corso del film, ma il blu del titolo, il blu di Jean, magari si riferisce non tanto al colore quanto al sentimento di tristezza e malinconia che tormentano il personaggio. Qual è il significato di questo colore nel film? E a Rosy vorrei chiedere: come hai approcciato il personaggio e qual è stato il tuo primo pensiero quando hai letto la sceneggiatura?
G: Sì, hai perfettamente ragione, il blu del titolo si riferisce alla tristezza del personaggio. Mi ha sempre incuriosita il fatto che non ci siano molti personaggi femminili che all’inizio del film vivono un dilemma e non ne escono mai fuori. Adoro i film come “Manchester by the Sea”, in cui il protagonista è triste, per ovvie ragioni, e il film esplora questo sentimento, ma alla fine lui non supera mai questa sua tristezza. Con Jean ho sempre saputo che, nonostante lo sviluppo del personaggio, non avrei mai voluto farle percorrere un arco e riconciliare tutto alla fine, non avrei mai voluto che alla fine lei fosse più felice e sistemata.
Dunque, è esatto, “blue” significa tristezza.
La palette di colori ha semplicemente a che fare sulle sensazioni che i colori ci trasmettono in maniera inconscia, quando guardiamo qualcosa, e immagino che anche questo si ricolleghi alla tristezza.
R: Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, ho notato che Jean ha questo modo di pensare mille cose una dopo l’altra, e questo atteggiamento alla “guerra e fuga” è argomento di discussione per tutto il film, dall’inizio alla fine, ed è qualcosa che comprendo a pieno. Uno dei primi elementi in cui sono riuscita a immedesimarmi è stato il livello di paura che raggiunge in maniera molto estrema e anche il modo in cui indossa varie maschere in vari momenti della sua vita: in ogni contesto sociale in cui si trova, indossa una maschera diversa, che nasconde la versione più autentica di sé stessa.
Secondo me, quella mancanza di libertà, quel desiderio di essere liberi e di essere chi si è davvero, è qualcosa che molte donne provano anche oggi, così come la pressione che tutti quanti sentiamo di essere un certo tipo di persona, o di essere perfetti sotto certi punti di vista o imperfetti sotto altri, e questa è l’osservazione su cui mi sono soffermata come prima cosa, i ruoli che sente di dover recitare a seconda della situazione.
“In ogni contesto sociale in cui si trova, indossa una maschera diversa, che nasconde la versione più autentica di sé stessa”.
Ricordi una domanda che hai rivolto a Georgia a proposito del film? E Georgia, tu ricordi la prima domanda che hai rivolto a Rosy?
R: Un momento particolarmente speciale è stato il nostro primo incontro. Ho registrato un provino e poi ci siamo sentite su Zoom e abbiamo iniziato a parlare del film, e ho avuto subito la sensazione che parlavamo la stessa lingua. Mi sono sentita sempre molto calma in tutti i nostri incontri e nelle mie audizioni, che è sempre un buon segno, quando non stai costantemente a pensare: “Devo ripassare, devo dire quello che vogliono che dica”.
Quindi, tra di noi, non erano mai domande, piuttosto discussioni.
G: Anche solo guardando il filmato della prima audizione di Rosy, e vedendo che aveva compreso Jean dal modo in cui io l’avevo creata, e perché il progetto era in fase di sviluppo da ormai tre anni e avevo fatto leggere la sceneggiatura a molte persone, sapevo che il personaggio non era facile da capire, infatti molti mi hanno fatto un sacco di domande dalle quali ho capito che Jean poteva essere leggermente fraintesa e che loro non avevano colto la sua natura, e sapevo bene chi l’aveva compresa e chi no e perché. Attraverso la performance di Rosy, ho capito all’istante che lei Jean, invece, l’aveva capita e proprio per questo motivo, quando abbiamo iniziato a lavorare al film, ci siamo trovate sempre sulla stesso lunghezza d’onda, non facevamo altro che chiederci a vicenda cosa pensassimo. Eravamo in sintonia anche a proposito di cosa volessimo dal personaggio, quindi non ho mai dovuto rispondere a troppe domande, è stato più un lavoro di collaborazione su Jean, dato che ovviamente il personaggio del copione nel corso della storia evolve.
R: Durante le settimane di prova prima di iniziare le riprese, c’è stato un momento in cui mi sentivo preparata e pensavo di aver capito chi fosse quella persona, ma poi di giorno in giorno, di scena in scena, non facevamo che dirci: “Oh, aspetta un attimo, c’è questa nuova sfumatura, è cresciuta” e Jean continuava a crescere man mano che giravamo il film.
Quindi, ti sei lasciata guidare più dalla razionalità o dall’emotività nella costruzione del personaggio?
R: Credo di essere stata razionale con la ricerca, ma poi quando vai sul set e la telecamera ti inquadra, ti dimentichi di tutto e reagisci di conseguenza.
“Quando vai sul set e la telecamera ti inquadra, ti dimentichi di tutto…”
Qual è stata la sfida più grande del fare questo film?
G: La mia risposta è noiosa e ha a che fare col tempo e con i soldi [ride].
È il mio primo lungometraggio, e ha un sacco di personaggi e location, è ambientato negli anni ’80, e ogni singola persona che ha fatto parte del film ha lavorato sodo perché non ci sono stati momenti di pausa, i ritmi sono stati intensi dall’inizio alla fine, fino al punto in cui, quando abbiamo girato l’ultima scena, io sono scoppiata in lacrime e ho detto, “Oh mio Dio, ce l’abbiamo fatta”, ho tirato un respiro di sollievo.
Da un punto di vista pratico, è stata la sfida più grande, ma in termini di soggetto, direi che il nostro ostacolo più grande è stato il fatto che alcune persone pensavano che la storia sarebbe stata di nicchia, su una parte troppo specifica della storia delle donne britanniche, culturalmente così specifica che avrebbe potuto non attirare il pubblico perché sarebbe stata percepita come una bolla temporale che racchiudeva un concetto troppo specifico. Ho sempre combattuto contro questa cosa, per ovvie ragioni, e non credo che sia questo il caso, ma in termini di sviluppo del film, è stato questo il nostro grande ostacolo. La gente si è congratulata con me queste scorse settimane dicendomi: “Brava, sei riuscita a portare a Venezia un film su un argomento così fuori moda”. Questo, per me, dice molte cose a proposito delle sfide che abbiamo dovuto affrontare.
R: Ovviamente, per me gli ostacoli sono stati il tempo, ma anche il fatto che Jean è presente in ogni scena, il che è estenuante. Abbiamo girato in ordine di location e non cronologico, quindi è stato impegnativo e anche stancante, dover essere lì tutto il tempo. Ma quando stai raccontando una storia che è reale, che ha un significato vero, la situazione ti trasporta, ti dona quel livello di emozione di cui hai bisogno, perché parliamo di donne che hanno vissuto davvero queste vite. Io non avevo mai fatto una cosa del genere prima. Sul set con noi c’erano anche alcune delle donne che hanno ispirato la storia del film, e che ci raccontavano sempre più dettagli man mano che giravamo, e guardavano il monitor e piangevano dietro il monitor, perché alla fine stavano guardando la rappresentazione delle loro vite. Non credo che nessuno si aspettasse quel livello di emotività, che alla fine ci ha motivati ad andare avanti.
Quindi, immagino che la storia sia ispirata da persone ed eventi reali?
G: Sì. Hélène [Sifre] e io abbiamo girato il paese per incontrare donne che hanno vissuto queste esperienze, ma è stata una combinazione di cose, non è stata ispirata da nessuna esperienza singola in particolare, ma abbiamo messo insieme racconti che potessero mettere in luce questioni come la salute mentale, le relazioni che finiscono, correndo da una parte all’altra per incontrare studenti o genitori nei bar e quel genere di cose. Abbiamo preso alcuni elementi delle varie storie che sembravano combaciare e poi abbiamo creato qualcosa che fosse diverso dalle singole esperienze e anche romanzato, ma pur sempre ispirato alla realtà, e senza quei momenti lì, questo film non sarebbe stato quello che è, perché la differenza la fa l’essere in grado di fare domande: il coraggio di Rosy di fare domande, il mio coraggio di fare domande. Ascoltare risposte vere in momenti in cui stai facendo fatica a costruire un personaggio o scrivere una sceneggiatura, avere qualcuno a cui rivolgerti, ed avere la possibilità di iniettare la storia di autenticità ed emozione è stato meraviglioso.
“La differenza la fa l’essere in grado di fare domande”
Il film affronta un tema importante negli anni ’80, che è ancora vivo oggi in alcune parti del mondo: qual è un aspetto della società e dell’opinione comune che vi piacerebbe fosse diversa oggi? E come credete che il cinema e l’arte in generale possano dare il loro contributo a questo processo di cambiamento?
G: Secondo me, il momento in cui ci sentiremo di aver fatto un vero progresso sarà quando i ragazzi non si sentiranno in dovere di fare coming out, non sentiranno la pressione di farlo con i loro genitori.
Se tutti quanti pensassero che dire ai propri genitori di essere queer scatenerebbe la stessa reazione che dire loro di avere un partner del sesso opposto, allora quello sarebbe vero progresso, ma non è ancora il caso di nessun Paese.
R: Penso che il bello di questa storia, tra le varie cose, sia il suo lato educativo.
Ai tempi dell’Articolo 28 io andavo a scuola, ma non avevo idea di quello che stava succedendo. Quindi, informare le persone che forse non sapevano nulla delle vite di queste donne, ma anche i genitori che hanno figli queer ma non sanno nulla sulle loro vite, motivo per cui ragazzi sono costretti a fare coming out, ed è difficile per questi genitori capire le storie queer. Ma non dovrebbe essere così complicato, dovremmo tutti essere liberi di portare a casa la persona con cui usciamo qualunque sia il suo sesso!
G: Il fatto che spesso i Paesi non progressisti sembrano percepire quest’atmosfera generale di progresso per cui le cose sono diverse ora, è qualcosa a cui mi ribellerei dicendo che noi, in quanto comunità di filmmaker o artisti, abbiamo la responsabilità di mettere in luce il fatto che abbiamo fatto diversi progressi negli ultimi 30 o 50 anni, ma c’è ancora molto lavoro da fare e non possiamo fermarci perché sarebbe pigrizia. Direi che non è affatto vero che certe cose non succedono più, moltissimi degli aneddoti di “Blue Jean”, i commenti che fanno a Jean sul suo taglio di capelli o le microaggressioni che subisce, queste sono cose che ho vissuto io o i miei amici o la mia ragazza, sono cose che capitano ogni giorno e continueranno a succedere.
Disprezzo l’idea che c’è in giro che il grosso è stato fatto e siamo in una nuova era, sento che abbiamo il dovere di ribellarci a questa convinzione.
Jean sembra reagire quasi in maniera apatica, all’inizio del film, a tutta l’ingiustizia e gli episodi di bullismo di cui è testimone nella sua scuola: perché decide di non fare niente per rimediare, a differenza della sua studentessa, Lois, che è molto più reattiva? Secondo voi esiste un gap generazionale quando si parla di apertura mentale e libertà di espressione?
R: Secondo me, una delle cose di Jean in cui mi ritrovo e in cui secondo me anche il resto del pubblico si ritroverà, è la sua imperfezione: lei è un po’ un antieroe, fa errori e tutti quanti i personaggi fanno errori tutto il tempo, è umana alla fine. Il fatto che la vediamo come una persona tridimensionale, che sbaglia e poi rimedia, è una boccata d’aria fresca, un elemento necessario per la nostra storia. E inoltre, è così perché la società l’ha messa all’angolo, perché si sente bloccata, come se non ci fosse nient’altro da fare e il suo unico meccanismo di difesa potesse essere mantenere il maggior silenzio possibile perché sarebbe l’unico modo per sopravvivere.
G: Vorrei aggiungere che secondo me è vero che c’è un gap generazionale quando si parla di apertura mentale ed è qualcosa che ho cercato di affrontare nel film perché è l’ho provato io sulla mia pelle. Ovviamente, io ho fatto coming out, ma ho degli amici della generazione dei miei nonni che non hanno fatto coming out per gran parte della loro vita, e vivono in segreto e si sono sposati e cose così, e credo sia molto difficile per chi appartiene alle generazioni più giovani, che ha avuto le proprie singolari esperienze, immaginare cosa deve aver significato vivere in quei tempi. Io mi ritrovo, a volte, a giudicare le persone che non hanno imparato ad accettarsi come avrei sperato.
Quindi, cerco di affrontare tutto da una prospettiva generazionale. In “Blue Jean” per esempio, sul set con noi c’erano gli insegnanti di educazione fisica che appartengono alla generazione precedente a quella mia e di Hélène, poi c’eravamo noi, e poi alcune delle adolescenti del cast che avevano già fatto coming out, e vedere tre generazioni riunite in un unico luogo parlare delle loro esperienze, hanno dimostrato quanto la situazione fosse ed è diversa, e che spesso abbiamo un certo gap anche a livello di comprensione quando si tratta di considerare le generazioni precedenti e capire perché si sono comportate nel modo in cui si sono comportate.
La mia speranza era quella di creare empatia intorno alle cose che Jean fa e che sembrerebbero sbagliate, volevo spiegarle in modo tale che risultasse comprensibile il perché le facesse, senza che le puntassimo troppo il dito contro, perché aveva i suoi motivi.
Photos by Johnny Carrano.