“Io voglio sempre migliorare, non mi basta mai.”
Giacomo Ferrara lo sappiamo, non sta mai fermo. A cominciare con “Suburra – La serie” che ha portato su Netflix: un prodotto italiano di alto livello che è diventato un fenomeno globale, passando per altri suoi progetti, sempre nuovi, sempre diversi come ad esempio il film “Non mi Uccidere” o la serie tv Sky che andrà in onda dal 21 giugno “Alfredino: Una Storia Italiana” e, per finire, lo aspettiamo nel suo ruolo da protagonista nel film “Ghiaccio”, che gli ha dato l’occasione di aprire gli occhi ancora di più sulle cose belle del suo lavoro.
Ma a Giacomo non basta mai, vorrebbe essere sempre in movimento, nel suo caos creativo che contrasta quello della sua vita privata, in cui tutto è “ordinato” e preciso.
Lo abbiamo incontrato tra le mura medioevali e gli affreschi barocchi del castello di Torre in Pietra, una struttura imponente e maestosa che ci ha aperto le porte e permesso di creare qualcosa con lui tra risate, balli improvvisati e affreschi accarezzati, ma è stato anche il luogo per un incontro che ci ha fatto comprendere quanto rispetto, umiltà e dedizione Giacomo metta in ogni cosa, anche e soprattutto se si parla di arrosticini.
Giacomo è la nostra Cover di giugno e con lui è stato bello capire e scoprire di nuovo il significato del coraggio, e perché è così importante avere paura.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il primo film che ho visto è stato “Pocahontas” [ride], è il primo film che ricordi di aver visto nella vita, però le sensazioni non me le ricordo troppo bene [ride]. Il mio primo set, invece, è stata una grandissima emozione, dovevo capire come funzionasse quel mondo che avevo tanto sognato. Dopo aver studiato ritrovarmi lì era stupendo, era come stare sulle giostre, e mi ricordo che ero molto più educato di come possa essere adesso sul set, nel senso che stavo lì, al posto mio, avevo paura di disturbare, di fare qualcosa che potesse disturbare gli altri, o quando mi vestivano ripetevo “grazie” tremila volte e le costumiste mi guardavano e mi dicevano: “Stai bene?”. L’ansia faceva quelle cose.
“Il mio primo set, invece, è stata una grandissima emozione, dovevo capire come funzionasse quel mondo che avevo tanto sognato”.
Quando stai facendo una cosa che hai sognato da tanto tempo, che non vedevi l’ora di fare, ti sembra di camminare in una nuvola: si è super gentili con tutti, si ringrazia mille volte…
Sì, esattamente. Anche adesso eh, non è che ora sono diventato stronzo [ride], ci mancherebbe, più vai avanti e più capisci quanto tu sei veramente la falangetta del cinema, gli attori sono l’ultima parte della mano, rispetto a tutto quello che c’è dietro. Ci sono grandissimi professionisti che hanno lavorato con i più grandi, hanno fatto set anche internazionali, e alcuni, magari, per ruolo, ti dovrebbero reggere l’ombrello, che ci sia il sole o piova, ma io non glielo faccio fare mai, è una roba che mi mette completamente a disagio, però rifletto e penso al curriculum che hanno loro, e che dovrei essere io a farlo, per la storia che hanno. È sempre bello.
“…gli attori sono l’ultima parte della mano, rispetto a tutto quello che c’è dietro”.
Quando leggi una sceneggiatura, c’è un elemento che ti fa dire “sì, lo voglio fare”, un qualcosa che ti fa scattare?
Sì, possono essere molteplici i ruoli, ma, principalmente, il ruolo dev’essere qualcosa sul quale devo sentire che ci possa essere un vero lavoro attoriale, una vera trasformazione, perché la cosa che mi diverte di più, quando faccio il mio lavoro, è il potermi immedesimare nelle vite altrui; per me è importante che il ruolo voglia trasmettere qualcosa di importante. Poi, sicuramente la storia dev’essere originale, che nessuno ha mai fatto o, comunque, mai fatto in quel modo. Lo capisci subito se una sceneggiatura è valida, soprattutto in Italia, se c’è un’idea veramente figa, o se è una storia come tante altre.
“…perché la cosa che mi diverte di più, quando faccio il mio lavoro, è il potermi immedesimare nelle vite altrui; […] Lo capisci subito se una sceneggiatura è valida, soprattutto in Italia, se c’è un’idea veramente figa, o se è una storia come tante altre”.
Ti piace di più cercare dei personaggi che siano completamente diversi da te, o ti piace anche cercare un appiglio, qualcosa di simile a te?
Sostanzialmente vorrei che fossero personaggi che non ho mai interpretato, che siano diversi l’uno dall’altro, perché, nell’arte, ho voglia di essere un camaleonte e di diventare qualsiasi cosa a seconda del progetto, del ruolo che mi si pone davanti. Però, io credo che ogni personaggio ti racconti qualcosa di te, che sia estremamente diverso o estremamente simile, anche se poi anche lì ci sarà sempre qualche differenza, va sempre a raccontarti qualcosa in più di te. È un mestiere bellissimo, antropologico, proprio perché vai a conoscere l’essere umano, quindi vai a conoscere sempre più te stesso. Capire che un personaggio farebbe una cosa che tu non faresti mai, ti fa capire già una cosa in più di te, oppure quando un personaggio ha una difficoltà molto simile ad una tua, il vedere come ne esce, che cosa gli capita se non fa qualcosa per uscirne, ti insegna sempre qualcosa.
“Suburra”: una serie che non ha visto nessuno, ti ricordi qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura e hai metabolizzato il ruolo che avresti dovuto interpretare?
Più che leggere la sceneggiatura, mi ricordo il primo colloquio che abbiamo fatto, io e Alessandro [Borghi], con Gina Gardini, che tra l’altro era ai provini per cercare Lele, che poi è stato Eduardo Valdarnini; noi stavamo facendo i provini e c’era questa scena, la scena del patto iniziale, quella di fine primo episodio della prima stagione, e lei ci ha raccontato alcune dinamiche, ci ha parlato della sessualità di Spadino, del loro rapporto, dei conflitti, del fatto che bisognasse trovare un punto in comune, un punto d’incontro per far diventare subito amici due personaggi così diversi, sia per estrazione culturale, sia per le diversità che possiamo vedere nella serie, perché poi nel cinema bisogna abbattere dei tempi; magari, due personaggi così, nella vita reale, ci avrebbero messo molto di più per fidarsi l’uno dell’altro, e nella prima stagione sono sempre sul chi va là, entrambi, l’uno sull’altro, però si vanno ad accorciare molto di più i tempi, perché c’è la necessità, in 10 episodi, di raccontare un arco narrativo. Quindi, mi ricordo quella giornata con Gina e il fatto che ho pensato: “Cazzo, figo”. Mi si presentava davanti l’opportunità di interpretare un ruolo che non era mai stato fatto in nessun modo, e l’ho capito da subito.
È stato divertente farlo, io uso sempre questa parola, “divertente”, perché effettivamente è così, faccio un lavoro divertentissimo e se non la prendi con questo piede, vai in depressione in un attimo, vista la precarietà che ha, quindi ti ripeto la parola “divertente” non perché non ho altri vocaboli, ma perché credo che debba essere così.
Immagino che sia stata anche un’esperienza umana incredibile, sia tra voi del cast, sia nella troupe, insieme per tanto tempo: c’è qualcosa che ti manca dell’esperienza?
Sì, come hai detto si è creato qualcosa di umano che va oltre il lavoro, si è creata veramente una famiglia, è qualcosa che va oltre. Poi, è capitato in un momento della mia vita in cui ero molto giovane, lo sono anche adesso [ride], ma nel senso che quando ho iniziato la serie era il 2016, non avevo nemmeno 26 anni, li ho compiuti sul set, e mi è successa una cosa bella, ovvero di crescere insieme a un personaggio, tramite quello che mi capitava nella vita e capitava nella sua vita. Però, effettivamente, quello che poi mi rimane non è tanto il ruolo, perché il ruolo poi sì, è stato bellissimo, il progetto meraviglioso, ma è quello che mi ha lasciato, un contatto con delle persone che io so che se non ci vediamo per 20 anni, poi ci rivediamo ed è come se non fossero passati quei 20 anni, come se ci fossimo visti l’ultima volta il giorno prima.
“…mi è successa una cosa bella, ovvero di crescere insieme a un personaggio, tramite quello che mi capitava nella vita e capitava nella sua vita”.
Ora uscirà “Alfredino – Una storia italiana”, in cui tu interpreti un personaggio e racconti una storia di grande tensione, e una storia reale. Hai lavorato con il regista sul tuo personaggio per capire questa tensione? Quali sono state le domande che hai fatto? O magari hai scoperto qualcosa di questa storia che non conoscevi prima, che ti ha colpito?
Guarda, la storia bene o male credo la conoscano tutti, ma non effettivamente in tutti i fatti che sono successi. La prima volta che ho letto la sceneggiatura e ho scoperto che tutte le cose erano andate così – la serie è molto documentaristica nel raccontare, fatto dopo fatto, tutto quello che è successo – leggendola, tu pensi che se non fosse stata vera, sarebbe stata impossibile, se fosse stata una storia di finzione, tu avresti letto la sceneggiatura e avresti detto: “Dai, però, non è possibile che gli succedano tutte ‘ste cose a questo bambino, che cavolo, prendete degli sceneggiatori che sappiano scrivere, che non si inventino tutte ‘ste robe fantastiche!”.
Invece, purtroppo, a questo bambino è successo di tutto, quindi raccontare una storia del genere ti mette una grande responsabilità sulle spalle. Secondo me, era una storia che si doveva raccontare, nel senso che fa parte della nostra cultura italiana; ovunque tu vada, con chiunque tu parli che ha vissuto in quegli anni, se gli parli di quella storia tutti se la ricordano come se fosse un trauma, è stata proprio una ferita, quindi un pezzo di storia che andava raccontato proprio perché ha segnato la vita degli italiani così a fondo.
Nell’interpretare un personaggio realmente esistito, ho preso quello che mi serviva per interpretarlo: Marco Pontecorvo non ci ha chiesto di andare a copiare quelle che sono le persone realmente esistite, non ci ha detto, se magari uno ha un tic, “ti faccio vedere, tu vai a rifare quel tic”, non ci ha chiesto di fare un lavoro del genere. Il personaggio che interpreto, Maurizio Monteleone, è stato una grande botta emotiva, soprattutto perché vedevo lui e Tullio Bernabei – il personaggio interpretato da Daniele La Leggia, che è il mio superiore nel rango speleologi e con il quale c’è una grandissima amicizia, come vedete nella serie – che venivano sul set, ricreato esattamente con tutte le specifiche di quella situazione, che non riuscivano nemmeno a stare troppo sul set per quanto era ancora viva questa ferita, è stato forte, mi sono detto: “Okay, stiamo a fa’ una cosa seria, qua non si può cazzeggiare”.
“…era una storia che si doveva raccontare, nel senso che fa parte della nostra cultura italiana; ovunque tu vada, con chiunque tu parli che ha vissuto in quegli anni, se gli parli di quella storia tutti se la ricordano come se fosse un trauma, è stata proprio una ferita, quindi un pezzo di storia che andava raccontato proprio perché ha segnato la vita degli italiani così a fondo”.
Magari ci sono persone più giovani, o persone che magari conoscono questa storia, ma non così bene, quindi penso sia molto importante portare in vita storie del genere.
Secondo me, la serie potrà piacere o non piacere, come tutte le cose; fino all’ultimo, tu speri che lo salvino, è una roba incredibile, perché ci sono dei momenti effettivi di gioia che loro hanno vissuto, una gioia effimera che purtroppo poi è stata dilaniata dopo due secondi, che a me, rivedendo gli episodi, ha fatto sperare che ce la facessero. Ho vissuto quella catarsi che loro hanno vissuto in quel momento, rivedendola.
Poi, Maurizio è un personaggio che non doveva essere lì, questa è la particolarità di quel ruolo, è un personaggio che poteva non essere lì in quel momento, perché non era il capo squadra degli speleologi, però, per qualche strano motivo, la telefonata per dire “sappiamo che siete degli speleologi e ci serve il vostro aiuto” è arrivata a lui nel cuore della notte, quindi poi lui ha chiamato il caposquadra. È un personaggio di cuore totalmente anarchico, che si ribella a qualsiasi tipo di comando, lo vedrete anche nel rapporto con Francesco Acquaroli, che fa il capo dei pompieri: tra loro due ci sarà uno scontro, non mi chiedere perché sempre con Francesco… [ride]. Tra loro due c’è molto scontro, perché Maurizio è un personaggio molto passionale e anarchico, quindi se lui crede fermamente in una cosa, è quella.
Da poco è anche uscito un altro film, “Non mi uccidere”: com’è stato portare sullo schermo il tuo personaggio, ancora una volta molto diverso da quelli che hai interpretato in precedenza?
Guarda, quella è stata una bellissima sfida che mi sono posto, che mi ha posto Andrea [De Sica], perché dovevo raccontare un personaggio con tante sfumature in pochissime scene. Soprattutto, è stato uno dei ruoli più difficili che io abbia interpretato per quelli che erano i suoi pensieri: è un personaggio che non fa una bellissima fine, e – credo che chi lo doveva vedere, l’ha visto – il fatto che si sia suicidato è un gesto ultimo, un po’ perché non voleva essere mangiato, ma soprattutto per quello che stava vivendo in quel momento.
Io amo molto la vita e ho sempre avuto dei sogni, delle aspirazioni, ho sempre avuto qualcosa che mi ha portato avanti, perché non mi basta mai niente, voglio sempre di più, quindi sto sempre lì a fare e fare, infatti non dormo la notte [ride], perché voglio sempre di più, e invece lui è rassegnato, non ha sogni, non sa quello che vuole dalla vita, pensa che ormai nulla ha più senso; vivere quella roba, per me che sono totalmente altro, è stato un grosso peso. Questo mi ha fatto dire: “Cazzo, figo, la voglio fare, pure se non è il protagonista, ‘sti cazzi, è una roba che voglio raccontare”. Poi, il progetto mi piaceva perché era totalmente diverso, un progetto unico, a sé, che non era mai stato fatto in quel modo, quindi ho detto subito di sì ad Andrea quando me l’ha proposto.
“…è stata una bellissima sfida che mi sono posto, che mi ha posto Andrea [De Sica], perché dovevo raccontare un personaggio con tante sfumature in pochissime scene”.
Alla fine di quest’anno uscirà anche il film “Ghiaccio”, che ti vede come protagonista. Tu, prima, hai detto che ogni volta che interpreti un personaggio, scopri qualcosa di nuovo di te stesso: interpretando questo personaggio, che è un pugile, cosa hai scoperto di te stesso?
La voglia di essere disposto a tutto per un sogno.
Lui, all’inizio, vive una situazione personale di grande difficoltà che lo allontana da tutto quello che è il suo sogno, però, da un certo punto in poi, inizia di nuovo a crederci, e quindi diventa in qualche modo l’unica cosa che lo può salvare. Un po’ è stato così anche per me con la recitazione, nel senso che non è che io avessi problemi familiari o delle difficoltà, anzi, sono stato un bimbo molto fortunato, però comunque sia vivevo una situazione che non sentivo mia, per tutta una serie di motivi, perché sennò non fai l’attore, stai bene in Abruzzo e basta; invece, sentivo sempre da piccolo questa malinconia e questa solitudine che, in qualche modo, mi facevano sentire diverso da tutti gli altri, e il personaggio di “Ghiaccio”, Giorgio, è così. Lui è della borgata, vive nella borgata, però è una mosca bianca, fa delle robe che fanno tutti, fa dei grandi errori che si fanno in borgata, ma in cuor suo sa che sono sbagliate, in cuor suo sa che desidera altro; poi, gli servirà una persona che lo spingerà oltre sé stesso, però quella roba è reale, l’ho provata anch’io, il voler fuggire dal posto in cui sono cresciuto, per quanto io lo ami, per quanto lo senta casa mia, per quanto ringrazio tutto quello che ho avuto, però sentivo che era una situazione che a me stava stretta, quindi, il venire a Roma e il diventare un attore è derivato anche da quello.
Sono veramente una testa dura, se mi metto in testa di fare una cosa, la faccio, quindi mi sono dovuto fare un bucio de culo enorme [ride] per allenarmi e avere le sembianze di un pugile, non solo fisicamente, ma anche nei movimenti. Il pugilato è una cosa dalla quale tu non puoi fuggire, nel senso che o la sai fare, o non la sai fare, non c’è un grigio, o è nero o è bianco, se sali sul ring e non ci sei mai stato, si vede, non puoi fuggire da quello. Ringrazio sempre Giovanni De Carolis, lo ringrazierò fino al giorno della mia morte, perché mi ha allenato come se dovessi andare a combattere.
“…sono stato un bimbo molto fortunato, però comunque sia vivevo una situazione che non sentivo mia, per tutta una serie di motivi, perché sennò non fai l’attore, stai bene in Abruzzo e basta; invece, sentivo sempre da piccolo questa malinconia e questa solitudine che, in qualche modo, mi facevano sentire diverso da tutti gli altri…”
Avevi scritto, riguardo “Ghiaccio”, che questo mestiere, il fare l’attore, ti fa vedere come le difficoltà, a volte, possano essere solo delle opportunità, e questo è molto bello.
Sì, effettivamente è quello. Il fatto che tu ti devi allenare nove volte a settimana, e devi fare una dieta che veramente, a un certo punto, ti cambia personalmente. Sono limiti che, per quanto uno possa pensarli stupidi, sono limiti, e se io non avessi fatto il mestiere che faccio, probabilmente non l’avrei mai fatta una cosa del genere. Ti dico una cosa fisica perché è la più lampante, ma te ne posso trovare anche a livello emotivo.
“Sono limiti che, per quanto uno possa pensarli stupidi, sono limiti…”
Quand’è che ti senti più libero di esprimere te stesso?
Quando lavoro, perché nella vita non è che lo faccio molto [ride]. Nella vita sono molto quadrato, molto perfettino, invece il lavoro mi dice sempre che devo sdoganare quest’ordine che ho nella vita, perché la creatività è fatta, almeno nel mio caso, di grande disordine, per poi ritornare in un ordine che è quello del personaggio.
Di primo acchito, farei sempre la cosa fatta bene, che però è sbagliata, perché non ha personalità, e se non hai personalità, una cosa come la racconti tu me la potrebbero raccontare altri centomila; invece, la cosa che differenzia un’interpretazione da come la fai tu a come la farebbe un altro, è proprio la tua personalità. Che cosa puoi fare tu che un altro non farebbe mai? È proprio quello.
“La creatività è fatta, almeno nel mio caso, di grande disordine, per poi ritornare in un ordine che è quello del personaggio”.
“Che cosa puoi fare tu che un altro non farebbe mai?”
Invece, qual è stato, se c’è stato, un incontro, cinematografico o non, particolarmente significativo che hai avuto ad oggi?
Beh, sicuramente l’incontro col mio acting coach, che è Alessandro Prete, al quale io devo tutto quello che so di questo mestiere, al quale sarò grato sempre per tutto quello che mi ha insegnato. Tra l’altro, io continuo a lavorare con lui ininterrottamente, lavoriamo insieme per preparare un ruolo nei momenti in cui sono fermo e ho la possibilità di lavorare con lui per diventare un attore migliore di quello che sono, perché te l’ho detto, io voglio sempre migliorare, non mi basta mai, infatti mi servirebbe una bella vacanza e una calmata.
Ale l’ho conosciuto appena arrivato a Roma e siamo cresciuti insieme, ormai sono 12 anni che lavoriamo insieme. Lui è cresciuto enormemente come artista e come acting coach, e io, di pari passo, sono stato chiamato da lui a dover essere un attore sempre migliore. A tutto quello che lui mi propone, io rispondo sempre “sì, cazzo, figo, facciamolo”, perché è sempre una sfida, sia per me che per lui. È proprio questo il bello del nostro rapporto, è sempre una sfida per entrambi, non è lui che si mette al di sopra di me, lui è proprio il mio mentore: “Questa cosa a me fa paura, fa paura pure a te?”, “Sì”, “Allora mi sa che è meglio se la facciamo, perché se fa paura a tutt’e due allora vuol dire che è una cosa che dobbiamo fare”.
“…io voglio sempre migliorare, non mi basta mai, infatti mi servirebbe una bella vacanza e una calmata”.
A proposito di paura, di cui hai appena parlato, di cosa hai più paura?
Eh… non te lo dirò mai! [ride] Ti potrei dire una paura banale, però non sarebbe quella vera.
Invece, la cosa più “coraggiosa” che hai fatto nella tua vita, finora? Che può essere l’aver deciso di scappare, come hai detto tu, e fare questo lavoro… o qualcos’altro.
Ti direi la prima volta che sono salito su un palco, e avevo forse 6 o 8 anni.
Poi, ogni volta che cerco di fare arte, perché senza coraggio sarebbe qualcosa di povero, se non fai qualcosa che ti spaventa enormemente, significa che non lo stai facendo nel modo giusto e, soprattutto, non è una cosa che lascerà qualcosa a qualcuno. Se fai qualcosa di banale, che non senti come un limite da superare, non avrà mai la stessa rilevanza che ha un altro atto d’arte. Ci vuole coraggio nell’arte.
“Se fai qualcosa di banale, che non senti come un limite da superare, non avrà mai la stessa rilevanza che ha un altro atto d’arte. Ci vuole coraggio nell’arte”.
Sono curiosa: tu scrivi qualcosa di tuo?
Io ho un diario, nel senso che mi scrivo determinati punti della mia carriera che sento necessari, importanti. Questo è un lavoro che faccio grazie al mio acting coach, ho un diario di bordo dal 2012 quindi so esattamente cosa pensavo in un determinato momento della mia carriera, della mia vita, sempre a livello artistico, mai personale. Questo diario è dove scrivo la mia situazione attoriale, di cosa necessito, che cosa sento in quel momento, nei momenti belli e brutti, perché in qualsiasi momento della vita io, magari, potrei avere la necessità di andare a rileggere qualcosa per capire come ho fatto a superarla, o perché potrà essere utile in qualche modo. È necessario per me, in quel momento, scriverlo per mettere non dico un punto, ma per fare una fotografia di quel momento. Potrebbe essere utile in qualsiasi momento, perché potrei perdere la gioia di fare questo lavoro, e invece così posso riandare a leggere quello che dicevo nel 2013, per esempio, o nel 2014 quando io iniziato il primo film, e capire perché ero così felice, cosa mi passava per la testa.
“…ho un diario di bordo dal 2012 quindi so esattamente cosa pensavo in un determinato momento della mia carriera, della mia vita, sempre a livello artistico, mai personale”.
Un’ultima domanda, che è importantissima, perché non potevamo non chiedertelo: qual è il segreto per l’arrosticino perfetto?
Mah… Qui è come se ti dovessi dire la mia paura, che non ti dirò mai [ride]. L’arrosticino perfetto dev’essere abruzzese DOC al cento percento: nato, cucinato e mangiato in Abruzzo, o comunque cucinato da un abruzzese.
Sostanzialmente, è una tradizione: tu cresci con il tuo papà, i tuoi nonni, che cucinano gli arrosticini per tutti nel momento di festa, o a cena, è proprio una cosa che dà convivialità, è qualcosa che unisce, che porta le persone a stare insieme, l’arrosticino. Mangiare in generale lo è, ma l’arrosticino ancora di più: si creano delle situazioni intorno a quella canalina, dove si cucinano gli arrosticini, che è intrinseca dell’abruzzese in quanto essere umano, in quanto essere abruzzese, perché è tradizione, guardi il papà e vedi come li cucina lui. La carne dev’essere fatta in Abruzzo, sicuramente, e cucinata da qualcuno che li ha già fatti almeno due o tre volte nella vita.
Sto pensando di aprire questo business in cui io vado a casa della gente e cucino gli arrosticini [ride]. Potrebbe essere una roba, dal momento che questo lavoro può essere molto problematico, ci sono momenti in cui lavori un sacco e momenti in cui lavori meno, in quei momenti potrei pensare di aprire questo business dove arrivo io, penso a tutto io, cucino gli arrosticini e via.
Photo & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Chantal Ciaffardini.
Location Manager Luisa Berio.
Location Castello di Torre in Pietra.
LOOK 1
Total Look: Valentino
LOOK 2 and 3
Total Looks: Gucci