Quando intervisti qualcuno di speciale, lo capisci abbastanza in fretta. Con Gianmarco Saurino, la nostra Cover di luglio, è successo proprio subito.
Lo abbiamo appena ritrovato in “Maschile Plurale”, e lo ritroveremo ancora in molti altri progetti, tra cui uno internazionale, e la serie “Per Elisa – Il caso Claps” che, dopo il successo avuto in Rai, uscirà su Netflix questo mese.
Con Gianmarco abbiamo parlato di scelte importanti, ma soprattutto di connessione, di come guardarsi con gli occhi degli altri potrebbe “cambiare il mondo” e di quanto possiamo definirci degli animali sociali.
“L’obiettivo sono le persone, sempre, non è il mestiere”: perché è importante lasciare delle tracce in questo mondo, ma per farlo abbiamo bisogno degli altri.
Com’è stato ritrovare “Luca”? Come sei cambiato tu in questi anni e com’è cambiato lui?
Io di sicuro sono cresciuto, sono maturato. Tre anni sono tanti e sono successe tantissime cose in mezzo. Mentre giravo “Maschile Singolare” giravo in contemporanea “DOC – Nelle tue mani”, uno la mattina e uno la sera. Il primo capitolo è stata una magia, perché ognuno di noi gli ha regalato tutto il tempo che aveva a disposizione, comprese le notti. Una magia anche perché non si sapeva quale potesse essere il risultato, dato che era un film non “low budget”, ma “no budget” [ride]. Però, ci tenevamo all’idea di voler raccontare questa storia, che secondo noi aveva un suo perché.
Luca secondo me è cambiato tantissimo in questo secondo capitolo. La cosa che mi piace di più è che questo buco di tre anni non lo vediamo: nell’ultima scena di “Maschile Singolare” lo lasciamo scosso, perché per la prima volta ha provato dei sentimenti nei confronti di qualcuno, lui maschio alfa che non deve chiedere mai, che ha un rapporto molto libero con il sesso. In “Maschile Plurale” si racconta di un suo crollo negli anni precedenti, in cui è diventato dipendente dalla droga, dal sesso, perché la morte di Denis e la perdita di Antonio lo fanno crollare, ma lo ritroviamo fidanzato, anzi, prossimo al matrimonio. Questo è un cambiamento gigantesco per un personaggio che nel primo film era “l’uomo che non deve chiedere mai”.
“Maschile Plurale” arriva in un momento della mia carriera molto diverso rispetto a tre anni fa: ho cercato di affrontarlo con la stessa gioia e dedizione. Da un punto di vista umano, sono un uomo di 31 anni e non un pischello di 27… Non è tanta differenza, ma mettere quel 3 come prima cifra nella tua età ha un peso, si porta dietro un carico di responsabilità, per quanto io abbia la stessa tipologia di vita di quando avevo 23 anni, probabilmente, è cambiato solo il conto in banca, perché lavoro [ride]. Però, ora sono sicuramente un uomo più maturo.
Sia io sia il mio personaggio abbiamo fatto degli step in avanti, ed è bello che sia così.
Qual è stato il tuo pensiero o la tua reazione istintiva quando hai letto la prima volta la sceneggiatura di “Maschile Plurale”?
È strano perché c’è stato un avvicinamento molto lento. Ci hanno dovuto convincere, soprattutto me, Giancarlo [Commare], Michela [Giraud], che eravamo spaventati dall’idea di fare un sequel. Vuoi o non vuoi, è un po’ come andarsi a giocare la Coppa del Mondo di nuovo dopo che l’hai vinta: “Maschile Singolare” ha avuto un successo straordinario per il tipo di prodotto che era, per il tipo di apporto che gli abbiamo dato. È stato veramente innovativo, da un certo punto di vista: è una commedia romantica, genere che abbiamo visto e rivisto in mille salse, ma racconta in maniera molto leggera dei trentenni, fascia d’età che al cinema, in questo Paese soprattutto, non viene mai affrontata, perché o si fanno i teen movie o si raccontano storie di adulti. Questo mondo, che è il nostro, che ha a che fare con l’idea di famiglia, con il lavoro, con l’idea di perdere il lavoro, di comprare una casa, di poter perdere una relazione di dieci anni e non sapere più qual è il tuo posto nel mondo, è raramente raccontato nel cinema italiano. “Maschile” non utilizza mai l’etichetta LGBTQIA+, perché non ce n’è bisogno, ma racconta una storia d’amore tra trentenni, diventando innovativo da questo punto di vista. Ecco, mi faceva molta paura tornarci dentro, ed è stato un avvicinamento molto lento, che ci ha convinti a poco a poco. Tra l’altro, la sceneggiatura è stata cambiata e migliorata più volte, e siamo arrivati alla versione definitiva di “Maschile Plurale” che ormai eravamo abituati all’idea che l’avremmo fatto. Senza dubbio, ci faceva piacere tornare nei panni dei nostri personaggi, prima di tutto per il pubblico che li ha amati e si è divertito tanto, e poi anche perché era divertente, un po’ come quando fai le serie tv.
Tornare ad interpretare un personaggio dopo tre anni, comunque, è quasi come un lavoro nuovo, è un tipo di crescita diversa.
In questo secondo capitolo, Luca si ritrova a fare da educatore in una casa-famiglia per ragazzi della comunità LGBTQ+. Hai avuto modo di entrare a contatto con realtà simili per avvicinarti al personaggio? Com’è stata la tua esperienza?
Non ho avuto modo di entrarci in contatto perché avevo finito poco prima di girare la seconda stagione di “Lidia Poët”, quindi il mio stacco temporale tra i due progetti è stato troppo breve per lavorare su una serie di azioni collaterali come entrare in una casa-famiglia. Mi sono molto affidato ad Alessandro Guida, il regista e uno degli autori, che già conosceva realtà di case famiglia a Roma. La cosa figa, comunque, non è stata la preparazione, quanto quello che ci è arrivato dopo il film, ovvero i commenti che ci sono arrivati dopo di gente contenta che avessimo trattato il tema delle case-famiglia, che ci raccontava la propria esperienza. Insomma, è stato molto bello conoscere questa realtà a posteriori, non avendo avuto il tempo di farlo prima.
Per noi in generale è molto importante parlare di salute mentale, di luoghi in cui ci si può esprimere e il film mi ha ricordato anche questo. Quanto è importante per te, nella vita come nel lavoro, creare della consapevolezza?
Credo tantissimo. Uno dei più grandi lavori che sto facendo su me stesso passa proprio attraverso la consapevolezza della mia persona, di chi sono. Sembra un discorso molto hippie e retorico, ma in realtà è abbastanza fattuale. Non so quanto tramite il mio lavoro io possa esprimere il concetto di consapevolezza. Di sicuro, posso dirti che nella mia vita in questo momento ci sono due grandi temi che si muovono insieme: la consapevolezza e la connessione, e tramite il mio lavoro e tramite la persona che sono, forse il tema della connessione è il più forte per me.
E quanto sono collegati questi due temi, quanto connetterti con gli altri ti aiuta ad essere consapevole di chi sei, e quanto non possiamo esistere senza gli altri!
È giusto che io sia consapevole di chi sono nel mio mondo, ma è assolutamente sensato che entrando in connessione con gli occhi degli altri possa rendermi conto di come mi rifletto negli occhi degli altri. Nessuno dei due elementi può esistere senza l’altro. Il grande problema di questi tempi è che probabilmente esistiamo soltanto negli occhi degli altri, perché siamo iper connessi, ma invece è grazie al lavoro di consapevolezza su noi stessi che possiamo godere della connessione con gli altri.
“È giusto che io sia consapevole di chi sono nel mio mondo, ma è assolutamente sensato che entrando in connessione con gli occhi degli altri possa rendermi conto di come mi rifletto negli occhi degli altri”.
A proposito di connessione, mi viene in mente che quando io e Johnny abbiamo fondato The Italian Rêve, ciò che mi interessava di più era creare connessioni, e lo dicevo sempre a tutti. Alla fine, io volevo fondare il magazine non perché avessi voglia di scrivere qualcosa di sensazionalistico, il gossip da far leggere a tutti, ma volevo creare connessioni tra le persone, commuovermi ed emozionarmi io stessa parlando con attori o registi che sorprendentemente avessero qualcosa in comune con me, che condividessero quello che pensavo o, al contrario, che mi aprissero la mente.
Per me è un argomento fondamentale: ho realizzato da poco, nel grande percorso che sto facendo su me stesso, che per me questo mestiere non è l’obiettivo. Quello che io amo davvero nella mia vita, e non nel mio lavoro, sono le persone, le storie, quindi per me questo mestiere è solo il mezzo per poter raccontare queste cose. Questa consapevolezza mi leva un carico di responsabilità enorme: la verità è che la cosa più importante è diventare grande, il più grande possibile, ma soltanto perché si alza l’asticella delle storie che puoi raccontare. L’obiettivo sono le persone, sempre, non è il mestiere.
Al contrario, a volte quando si parla di questi argomenti e di accettazione si parla anche di luoghi chiusi, che rinchiudono, che non capiscono. Ti sei mai sentito tu rinchiuso in qualcosa?
Sì. Credo che la lunga serialità a un certo punto per me sia diventata una prigione dalla quale volevo scappare, ma non per il prodotto, considerato che ho iniziato con “Che Dio ci aiuti” e sono arrivato a fare “DOC” che è una serie di enorme successo, ma perché era una roba che non mi faceva più respirare, che mi faceva stare fisicamente male, non ero felice.
Non era possibile che io a 30 anni percepissi il mio lavoro come qualcosa che mi stava opprimendo, non era possibile pensare che il lavoro più bello dell’universo per me si fosse trasformato in una prigione.
Quindi, di qui la scelta drastica di uscire da “DOC”; molti mi dicono che è stata una scelta coraggiosa, ma non si tratta di coraggio: il coraggio è quando hai paura ma ti butti comunque, io invece non avevo paura dell’ignoto, di uscire da una serie così di successo, io dovevo farlo, era una richiesta vitale da parte mia.
Se potessi dare, da amico, un consiglio a Luca, cosa gli diresti?
Lo abbraccerei. Quella è la cosa che farei più di tutte. Luca mi è sempre piaciuto perché è uno che sbaglia molto, anche se dice di avere la risposta pronta. Io non ho mai creduto che Luca non fosse innamorato di Antonio, e mi piace interpretare dei personaggi controversi, che non hanno le risposte, perché sono quello che viviamo tutti i giorni noi. Mi diverte l’idea del personaggio combattuto, che non sa cos’è giusto e cosa è sbagliato nell’amore, come tutti noi.
Luca lo abbraccerei e gli direi che tutti sbagliamo nella vita e che l’importante è essere onesti.
“Mi diverte l’idea del personaggio combattuto, che non sa cos’è giusto e cosa è sbagliato nell’amore, come tutti noi”.
Tancredi mi ha fatto pensare quanto a volte diamo troppa importanza ai social. Nel mondo in cui viviamo, in cui i social hanno il loro peso e in cui sembra andare tutto veloce e che non ci sia più la capacità di attendere, tu ti senti capace di attendere?
Io rivendico la possibilità di attendere.
Vengo da due mesi e mezzo folli, e ora sono a casa e voglio stare un po’ a casa. I miei amici col tempo hanno imparato a capire che ci sono dei momenti in cui ho bisogno di stare da solo e ho bisogno di annoiarmi, perché credo che la noia sia la cosa più creativa che ci sia. Ci sono momenti in cui ho bisogno di fare ordine e spazio, non solo dentro casa, ma dentro la mia testa, perché secondo me a forza di correre e di essere iperconnessi, non c’è più spazio per entrare in connessione, appunto, con noi stessi. Ecco perché lo spazio bisogna ritagliarselo, il che paradossalmente è diventato un lavoro.
L’altro giorno Sorrentino presentava un film a Roma e diceva: i bambini ora dopo la scuola devono andare poi a fare karate, a giocare a basket, calcetto, pallavolo e quando la scuola finisce si sono inventati il campo scuola, ma allora quando si annoia un bambino?
Mi ricordo che io quando ero piccolo mi annoiavo, c’erano dei momenti in cui non sapevo cosa fare, soprattutto se gli amici non c’erano… E se piove, come ti inventi il pomeriggio? Quello è il momento in cui scopri che magari ti piace fare i puzzle o dipingere o leggere: io diventai un lettore ossessionato. Queste cose si scoprono quando non sai che cosa fare e il cervello si mette in moto. Invece oggi c’è l’idea della necessità di un eccesso di dopamina, che è lo scroll, una roba che ti dà l’illusione di informarti ma in realtà alla fine non sei informato su niente se non i titoli delle cose. È come la frase di Brunori Sas, quando dice “Vuoi scalare la montagna e poi ti fermi al primo ristorante”: quella roba mi manda al manicomio. Una cosa a cui oggi penso spesso è l’attivismo social, il fatto che anche temi che non possono essere racchiusi in una storia su Instagram siano diventati social mi tocca profondamente e non so come gestirla.
Perché se anche i bambini di Rafah possono diventare qualcosa da ricondividere, per quanto possa essere utile parlarne, c’è modo e modo di raccontare le cose e di sicuro una storia su Instagram non è abbastanza, non lo è per la scala di valori di cui stiamo parlando. Condividere magari mette a posto la tua coscienza, ma non mette a posto il mondo più di quanto possa metterlo a posto discuterne una sera a cena con gli amici e prenderti la responsabilità di affermare una tua idea, un tuo concetto, una tua ideologia.
Ricordo quei giorni in cui tutti pubblicavano la stessa identica storia su Rafah: io, sia dal punto di vista personale che professionale, ho deciso di astenermi. Come dici tu: come fai a racchiudere quello che pensi, o una cosa talmente grande che sta succedendo, in un contenuto così piccolo, poi magari seguito da una foto di un piatto di gnocchi al pomodoro?
Esatto! È questo che mi fa uscire fuori di testa. Ho visto colleghi condividere la storia del giorno prima con i bambini di Rafah in mezzo alla pubblicazione del nuovo libro, del nuovo film… Un altro paio di maniche è se fai una scelta radicale, decidendo che, se i social sono un metodo di diffusione di informazione, tu attore parli solo di questo genere di cose. Nonostante io rivendichi il diritto di essere un artista che parla di valori politici, penso che sia più sensato stare zitto, anche su un tema come questo che per me è caldo da sempre, perché non è iniziato il 7 ottobre come per tanti altri, oppure utilizzare il mio mestiere per poterlo fare. Domenica sera, per esempio, abbiamo organizzato un evento a Roma per parlare di Gaza, oppure è uscito un podcast che faccio con Amnesty International da due anni in cui parliamo di diritti.
Forse se invece di ricondividere ci fermassimo a scrivere su un taccuino come col mestiere che faccio posso essere più utile alla società, potrebbe essere davvero più utile.
Luca e Antonio stanno provando ad aprire una loro attività. In quel momento si vede che ci sono tanti sentimenti: il loro rapporto che si sta riaprendo, le gelosie, ma anche una sana paura di non riuscire a farcela, forse anche di fallire, sia nella propria vita sentimentale che nel proprio sogno. Tu che rapporto hai con il fallimento?
Ho un rapporto meraviglioso col fallimento, mi interrogo tutti i giorni sul fallimento! [ride]
Credo che faccia tanta paura, un altro dei motivi per cui ti dicevo che questo film ha il pregio di parlare dei trentenni, perché noi siamo nel bel mezzo dell’idea del fallimento, abbiamo tutto e troppo in ballo continuamente. Per quanto siano affascinanti le serie e i film teen, hanno un raggio d’azione e di pensiero che è troppo circoscritto, loro hanno altri tipi di problemi da cui magari tempo fa siamo passati anche noi ma non ci ricordiamo più. L’idea del fallimento lavorativo e relazionale è una cosa tipica dei trentenni e io ci sto completamente dentro e ho paura tutti i giorni: del fallimento personale nei confronti degli altri, di non essere abbastanza presente per le persone che amo, di non riuscire a tenere tutti i pezzi insieme.
Il modo in cui sto gestendo la paura del fallimento è prendermi la responsabilità di fare delle scelte fino in fondo e non fare più le cose che non mi va di fare. Se tra 10 anni mi dirò che ho fallito, sarà stato nel modo in cui dico io. Non si può smettere di avere paura del futuro, di fallire: l’unica cosa che si può fare è andare avanti. Io mi sveglio ogni giorno con la sindrome dell’impostore, però sono anche molto consapevole di cosa voglio fare, cosa voglio avere, cosa amo davvero e dove voglio andare. Questo è fondamentale: non ho paura di fallire se so dove voglio andare.
Ho fatto una serie sul caso Claps e ho vinto un Nastro D’Argento: per me la cosa più importante è stata sapere che potevo prendere il telefono e chiamare Gildo Claps perché siamo diventati amici, sapere che a settembre io e lui andiamo una settimana in Congo per visitare un ambulatorio che lui ha aperto in nome di Elisa. È questo genere di conquiste che mi fa muovere il sangue, il lavoro è solo il mezzo.
“Il modo in cui sto gestendo la paura del fallimento è prendermi la responsabilità di fare delle scelte fino in fondo e non fare più le cose che non mi va di fare”.
A proposito: il 25 luglio esce su Netflix la serie di cui parlavi, “Per Elisa – Il caso Claps”. Immagino sia stato un progetto molto intenso, che ti ha anche portato a grandi soddisfazioni personali e professionali, come la premiazione ai Nastri D’argento con il premio speciale. Come è stato immergenti in quel progetto e in che modo è stato diverso da tutti gli altri per te?
Nella mia vita c’è un prima e un dopo “caso Claps”, e non solo come attore, ma anche come persona, perché le due cose non si possono scindere.
Sono diventato una persona diversa: raccontare quella storia non solo è stato il più grande progetto professionale che abbia mai fatto, che ha ricevuto critiche stupende da parte di chiunque, e che è stato un modo per raccontarmi come attore in maniera diversa. D’altra parte, è perfettamente in linea con la mia idea di mestiere che ti dicevo prima, e con la mia idea di essere umano: avere il privilegio di raccontare la storia di un uomo incredibile come Gildo e di diventarne amico credo non succeda spesso nella carriera di un attore e non so se mi ricapiterà. Sono onorato e sono molto felice.
Un’altra cosa stupenda è che per la prima volta in vita mia ho visto quanto questo lavoro possa avere un ruolo attivo sulla realtà: la valenza politica di questo lavoro è rara, ma è tangibile, e l’idea di vedere in piazza a Potenza tremila persone che chiedevano la chiusura della Chiesa della Santissima Trinità poco dopo l’uscita della serie è stata commuovente. L’idea che fosse anche merito nostro, l’idea di aver fatto entrare in casa Claps tramite il nostro racconto migliaia di persone in Italia, che grazie a questo sforzo empatico la gente abbia capito il dolore, la rabbia la frustrazione di una famiglia che è “normale”, per quanto straordinari possano essere stati gli atti che ha compiuto, mi restituisce il valore di questo mestiere nella sua più grande e meravigliosa accezione.
Rispetto a questo progetto hai detto che “provare a riconoscere l’umanità negli occhi di chi ci sta accanto ci renderebbe molto più pronti a capire e a trovare la disumanità nelle cose che ci succedono tutti i giorni”. E mi è piaciuto moltissimo. Pensi che se ci fosse più empatia, ci sarebbe “un mondo migliore”?
Sicuramente. Noi siamo animali sociali, quindi tutto si basa sugli altri.
Torniamo al discorso che facevamo prima sulle connessioni, è sempre tutto basato sugli altri. Ci muoviamo per gli altri e con gli altri, ha tutto senso grazie agli altri, il mio mestiere ha senso grazie agli altri. Quello che ho detto nel discorso di ringraziamento ai Nastri voleva dire che nella vita ci capita di essere molto fortunati, ma se invece di dare tutto per assodato imparassimo ogni tanto a riconoscere l’umanità e la bellezza negli occhi degli altri, sarebbe uno sforzo empatico che renderebbe molto più facile riconoscere la disumanità nelle storie che sentiamo tutti i giorni. Quando guardi il Tg e senti l’ennesimo caso di femminicidio, probabilmente cambierebbe il tuo approccio nei confronti del più grande dramma di questo Paese; se riconoscessi la bellezza negli occhi dei tuoi genitori, sarebbe probabilmente più facile riconoscere il dramma delle carceri di questo Paese; se provassi a riconoscere lo sforzo che un tuo amico fa per venirti a vedere una sera a teatro, mettendo da parte i suoi impegni perché ti ama e vuole stare con te, sarebbe più facile capire che 40 persone sono annegate nel mare dove facciamo il bagno.
Non pretendo che da un giorno all’altro il Tg, che è un bollettino di guerra, possa farti venire la voglia di cambiare il mondo, piuttosto sforziamoci di riconoscere quanto siamo fortunati, quanta bellezza abbiamo intorno, quanta umanità abbiamo intorno. Magari già facendo questo possiamo imparare a riconoscere che cosa vuol dire essere disumani, che cosa vuol dire Rafah, che cosa vuol dire un’invasione, la guerra in Ucraina, senza sforzo di essere geopolitici in nessuna maniera o lontanamente vicini a cosa siano la Nato, Israele, 80 anni di invasione… Non c’è bisogno di quello per essere umani, c’è bisogno soltanto di guardare negli occhi degli altri.
Insomma, io sono convinto che l’empatia salvi il mondo, e che il teatro andrebbe insegnato nelle scuole, perché se impari a metterti nei panni degli altri, capisci cosa vuol dire essere bullo e cosa vuol dire essere bullizzato.
“c’è bisogno soltanto di guardare negli occhi degli altri”
Parlando di empatia, sei anche ambasciatore di Amnesty International. In particolare con il progetto del podcast “Ellissi” che parla di diritti umani e di cose che succedono molto, molto lontane da noi e hai detto: “Dico ma a me, a me che cazzo me ne frega? Ecco, proviamo a capire insieme perché dovrebbe fregarcene”. E a te quanto te ne è fregato di far parte di questo progetto? In che modo, se è successo, sei riuscito a vedere le cose in maniera diversa dopo che hai letto e raccontato quelle storie?
A me, me ne frega tanto, perché si tratta sempre di storie di persone: io non possono non essere affezionato anche a queste storie di violazione. In più, nella mia maniera di raccontare queste storie ci vedo l’enfasi perfetta del mio lavoro: mi sembra il modo migliore di essere artista, piuttosto che essere soltanto un esecutore.
Quel progetto mi ha permesso innanzitutto di conoscere queste storie, perché tante storie io non le conosco, e poi mi ha cambiato tanto entrarci dentro. Quella domanda che faccio secondo me è molto importante perché il pensiero che tendiamo a fare è: “io c’ho i cazzi miei, che mi frega di quello che succede in Brasile o chissà dove, ma soprattutto io che posso fare”. Il punto è che innanzitutto conoscere fa bene e poi, ancora una volta, lo sforzo empatico continuo di cui parlavamo è una pratica che secondo me può renderci degli esseri umani migliori. In più, l’attivismo ha un risultato molto pratico. L’ultimo episodio del podcast di quest’anno era su Julian Assange, e la puntata l’abbiamo anticipata poi facendo delle integrazioni perché Julian adesso è stato liberato: questo è successo anche grazie alla “mediaticità” che la sua storia ha preso nel corso di questi anni.
“Kabul” invece è la nuova serie internazionale che hai girato ad Atene, che racconta il momento in cui le ambasciate lasciano l’Afghanistan per consegnarla in mano ai talebani, e tu interpreti Tommaso Claudi. So che non puoi parlare molto del progetto, ma che sfida hai dovuto affrontare nell’interpretarlo?
La serie racconta diverse storie che accadono nell’arco di quei cinque giorni del 2021 a Kabul, e il mio personaggio è più che altro ispirato alla storia di questo ragazzo italiano che diventa console per quei giorni. È stata la sfida più grande che abbia affrontato in vita mia, il progetto più faticoso che abbia mai vissuto, dal punto di vista fisico, forse, soprattutto. Innanzitutto era un progetto in inglese e già quello era un ostacolo perché non è la mia prima lingua, però è stata una sfida che aspettavo da tanto e ci tenevo ad affrontare. In più, l’ambientazione era una sfida: è stato un set stupendo, ma una continua messa alla prova, perché l’intensità delle scene che stavamo vivendo era sempre alta, non c’era mai una scena di passaggio, erano tutte scene difficili. È il bello delle serie belle, credo, che siano complesse per gli attori: mettere in scena l’intensità porta il pubblico proprio dentro la storia.
In una scena, per esempio, io mi lancio dentro una folla di 500 comparse per andare a cercare un gruppo di persone da portare in salvo e quello probabilmente è stato il giorno più duro della mia vita sul set. Anche in questo caso, la bellezza passa attraverso il senso di responsabilità del racconto: raccontare questa storia ti investe di responsabilità, perché alcune delle comparse che erano lì con noi c’erano state. La Grecia è uno dei Paesi in Europa che ha più migranti in assoluto essendo una delle prime frontiere alle quali si arriva tramite il mare, quindi sul set c’era gente che quella storia l’ha vissuta due volte, una volta per davvero, una volta ripercorrendolo per finta insieme a noi.
C’è un senso di responsabilità nel raccontare la vita delle persone: un conto è la fiction, un conto è la finzione, è diverso se qualcuno la storia l’ha vissuta per davvero.
Quanto è importante il teatro per te?
Tantissimo. Negli ultimi anni ci sono stato tanto fuori, però.
Ho portato avanti un progetto sui migranti con Amnesty, una lettura, “Rotte”, che porto in giro da tanto tempo, e in quest’ultimo anno, nel percorso che sto facendo su me stesso, è venuto fuori che io non posso smettere di fare teatro perché è una cosa che mi fa bene. Quindi, con la compagnia che ho creato anni fa, ci stiamo ritagliando del tempo per lavorare e gli anni che ci aspettano sono pieni di teatro. Diciamo che questi anni sono serviti per farci spazio nel mondo e trovare la nostra identità cinematografica, perché quella teatrale l’avevamo già creata in qualche modo, e la voglia di raccontare le storie in una maniera molto precisa. Abbiamo appena finito di scrivere un nuovo testo che debutterà l’anno prossimo, quest’anno, il 30 ottobre, debutto al Romaeuropa Festival in uno spettacolo con Lino Guanciale, con la regia di Lino, facciamo uno studio di presentazione al Romaeuropa, un testo molto bello scritto da un ragazzo che conosco da tanti anni che ha vinto il Premio Riccione due anni fa, si chiama “Flusso”, uno spettacolo molto bello; l’anno prossimo sono in tournée con un nuovo spettacolo di Ivan Cotroneo, che si è appena affacciato al teatro. Il testo nuovo che abbiamo appena finito di scrivere con la compagnia è un testo a due attori, un uomo e una donna, e parla di trentenni, relazioni, ricordi e nostalgia.
Amo il teatro come amo il cinema, ma con il teatro in più io posso avere un “potere” più grande di quello che ho quando faccio cinema o televisione: posso scegliere che tipo di spettacolo mettere in scena, posso scriverlo, volendo, e questo mi permette di raccontare storie come voglio.
“io non posso smettere di fare teatro perché è una cosa che mi fa bene”.
Quanto ti piace scrivere? Quanto è importante per te? È qualcosa che fai tutti i giorni anche per te o è più un qualcosa di lavorativo?
Sì, devo dire di sì. Non è una cosa che ho iniziato a fare da tanto, forse dall’inizio di quest’anno, però mi fa molto bene e mi piace molto scrivere come sto oggi, dove sto oggi, darmi degli obiettivi. Prima scrivevo soltanto per lavoro o per analizzare i progetti che facevo scena per scena, ora invece ho la casa piena di taccuini in cui scrivo di me. Una bellissima scoperta. Quando ti parlo del lavoro che sto facendo su me stesso, ecco, passa anche da questo.
Qual è stato il miglior vaffanculo della tua vita finora?
Sai che io non sono avvezzo ai vaffanculo? Credo sia perché sto imparando a dire di no.
Che libro stai leggendo adesso?
Sto leggendo due libri (perché io sono uno di quelli che legge più cose insieme): “Daisy Jones and The Six” e “Traditori di tutti” di Giorgio Scerbanenco, un autore degli anni Sessanta che ha portato il noir in Italia e ha creato un personaggio che si chiama Duca Lamberti, una sorta di commissario con una storia stupenda.
L’ultimo film che hai visto che ti rimasto con te?
“All of Us Strangers”, “Estranei” in italiano. Mi è piaciuto tantissimo, ma mi ha anche distrutto: la mia compagna vive a Londra e l’abbiamo visto insieme lì, e io credo di aver pianto per 10 minuti dopo la proiezione. Erano tanti anni che non mi succedeva di piangere così tanto per un film, e lei ha pianto ancora di più, perché quel film è un film su Londra che però racconta non tanto la città quanto la solitudine, quanto ti puoi sentire solo in mezzo a un sacco di gente. Ho incontrato Paul Mescal a Milano poco tempo fa e gliel’ho detto che il film mi ha ucciso, spaccato in due. Poi io sono anche un grande fan di Andrew Scott, trovo che sia un attore gigantesco, che con gli occhi sa dire tutto.
Cos’è “casa” per te? Qual è l’elemento/quella cosa che la rende tale?
Le persone che ami. Non è il luogo, sono le persone con le quali stai. Io che sono spesso in giro mi rendo conto che per me casa diventa dove sto con la mia compagna. Oppure, per esempio sono stato due mesi ad Atene per girare, come ti dicevo, è per me è diventata casa, prima di tutto perché i Greci sono stupendi, un popolo molto accogliente, poi anche perché la troupe con la quale ho lavorato era fantastica, amavo uscirci la sera e passarci il tempo insieme.
Quindi casa sono gli altri, stare con gli altri è un modo per sentirmi protetto, stare bene e, ovviamente, più aumenta l’amore per le persone che mi circondano e più mi sento a casa.
Photos & Video by Johnny Carrano.
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