Nell’affascinante e crudo mondo di “Qui non è Hollywood”, una serie che scava profondamente nelle pieghe più oscure della cronaca nera italiana, Giulia Perulli emerge con una performance che lascia il segno, interpretando Sabrina Misseri, un personaggio tanto complesso quanto discusso.
Con Giulia si è snodata una conversazione potenzialmente complessa, che si è rivelata vera ed emozionante, toccando vari punti cardine del mestiere dell’attore, quello che la sceneggiatura la vive. Giulia ci ha parlato della sua trasformazione fisica ed emotiva, svelando i dettagli di un viaggio totalizzante che l’ha sfidata ad immergersi completamente in una realtà dolorosa. Con sincerità, Giulia ha riconosciuto l’impatto del ruolo di Sabrina nella sua vita personale e professionale, e il delicato equilibrio tra il racconto di una verità processuale e l’esplorazione delle dinamiche psicologiche di un personaggio e di un essere umano.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Che bella domanda… Sai, in realtà non ho un ricordo nitido del momento in cui ho capito che volevo fare l’attrice. Io ho scoperto il cinema in età abbastanza giovane: solitamente quando si è piccoli si guardano i cartoni animati, ma io chiedevo a mia madre di guardare film. Sono sempre stata “saggia”, ho dimostrato più maturità di quella che probabilmente avrei dovuto avere per essere una bambina, forse un po’ per timidezza. Io sono tanto timida, ed è uno dei motivi per cui mi ritrovo a rifugiarmi nei personaggi.
Uno dei primi film che ho visto da ragazzina e che mi appassionò è “Notting Hill”. Mio padre è un grande fan di Julia Roberts, la adora, quindi è un film che dentro casa girava, e io guardavo il DVD in loop, conosco tutte le battute a memoria [ride]. Il personaggio di Julia Roberts mi piaceva tantissimo, un’attrice avvolta dal mistero, dalla fascinazione del mestiere, quindi chissà magari lei ha scavato nella mia personalità e ha lasciato un’autosuggestione.
Anche io da bambina guardavo tantissimi film e sono convinta che il posto in cui mi trovo ora, il lavoro che faccio, sia stato influenzato da questo: i miei genitori mi portavano al cinema ogni domenica, mi facevano guardare di tutto, forse anche alcuni film inadeguati per la mia età [ride]. Ma gli sarò eternamente grata per questo.
Sì! Beh il cinema è un modo per raccontare delle storie, vere o frutto dell’immaginazione che siano, ma in qualche modo si raccontano degli scenari possibili che vengono proiettati sullo schermo. Per lo spettatore è un’esperienza emotiva ed è un modo per viaggiare, sperimentare. Per esempio, a me sembra di esserci stata a Notting Hill anche se io finora a Londra non ci sono mai andata!
Credo che il cinema sia una delle forme più profonde di arte, ed è come se fosse una scuola, personalmente mi ha formata tanto: stare a casa e vedere un film per me equivaleva a seguire una lezione di letteratura.
Qual è stata la tua reazione iniziale quando hai ricevuto il copione? E cosa ti ha spinto ad accettare questo ruolo così delicato?
Come prima cosa mi sono chiesta: e adesso da dove parto?
Ero sorpresa quando ho saputo che mi avevano affidato il ruolo di Sabrina, perché sia per un fattore fisico, sia per la dinamica del personaggio, ero e sono totalmente l’opposto di chi dovevo interpretare, e in Italia si tende ad affidare i ruoli ad attori già pronti per il personaggio. Quindi, inizialmente ero tanto sorpresa dalla scelta di Pippo [Mezzapesa] di volermi affidare questo ruolo e di Disney e Groenlandia che hanno sposato l’idea di Pippo di volermi affidare questo ruolo.
Mi sono documentata tantissimo attraverso il materiale video: sono andata sul web e ho cercato video su Avetrana e sul personaggio che dovevo interpretare, e ho rinfrescato in qualche modo la memoria del delitto, che già conoscevo. Io all’epoca dei fatti avevo l’età di Sarah, 15 anni, e ricordavo perfettamente il delitto di Avetrana anche per un fattore geografico, perché sono nata e cresciuta a Lecce. A quei tempi, sai, nella provincia di Lecce, Brindisi e Taranto c’erano in giro autosuggestioni, e mi ricordo che mia madre non mi faceva andare da sola a scuola perché si vociferava di un camioncino bianco che girava e rapiva le ragazzine. Allora era tutto ancora in alto mare, Sarah non era stata trovata e lo zio non aveva ancora confessato.
Ho visto e rivisto per centinaia di volte i video degli appelli di Sabrina, le interviste che le hanno fatto e così ho assorbito i suoi dettagli fisici, la sua camminata, l’atteggiamento, la postura, la voce e la respirazione. Sabrina ha una micro-mimica facciale abbastanza evidente, fondamentale fra i dettagli che poi riportavo in scena mentre studiavo e facevo memoria, e ad ogni battuta cercavo di affinare questi aspetti del personaggio.
Un lavoro davvero impegnativo e affascinante, per un personaggio complesso, intrappolato in un misto di gelosie, insicurezze e pressioni sociali. Un personaggio discusso e giudicato dall’opinione pubblica. Come ha influito questa responsabilità sul tuo approccio al lavoro?
Sabrina è entrata nelle case degli italiani e anche oltre Italia, e ce la ricordiamo per questo. Io ho cercato di annullare ogni tipo di pregiudizio, perché quando interpreti un personaggio non lo devi giudicare e questo è fondamentale, altrimenti non riesci ad empatizzare. Ho cercato di non giudicarla e dimenticare che stessi interpretando il personaggio che tutti conosciamo. Ho cercato di trovare una chiave coerente con Sabrina, anche se avrei preferito chiamarla con un altro nome. Mi limito a dirti che ho interpretato un personaggio che per puro caso si chiama Sabrina Misseri. Prima di arrivare a quella Sabrina, c’è stata una preparazione in cui ho cercato di sposare il progetto con generosità attoriale: per interpretare questo ruolo io ho preso 22 kg, sono stata seguita da una nutrizionista per poter raggiungere quella fisicità, ed è stato bello sperimentare.
Questa serie è stata un’esperienza totalizzante, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista fisico, perché mi ha dato la possibilità di mettermi in discussione come attrice, essendo anche stato il mio primo ruolo da protagonista. Ho sentito addosso la responsabilità di interpretare questo personaggio controverso, ma allo stesso tempo ero entusiasta all’idea di essere tra principali membri del cast.
“…quando interpreti un personaggio non lo devi giudicare e questo è fondamentale, altrimenti non riesci ad empatizzare”
Il rapporto tra Sabrina e Sarah è al centro della narrazione. Come hai costruito sul set la dinamica con l’attrice che interpreta Sarah, considerando il passaggio dal legame familiare all’esplosione di tensioni e conflitti?
All’interno della serie ci sono tante scene di abbracci, coccole, perché Sarah era bisognosa di coccole e io, Giulia, sono tanto materna, per cui sia durante le riprese che fuori dal set, Federica [Pala] me la sono coccolata tanto, proprio come fosse una cuginetta o sorella minore. Quando la sera, finite le riprese, andavamo a cena con tutto il cast, la chiamavo sempre per chiederle se volesse venire con noi, insomma ho cercato di instaurare con lei un rapporto autentico. Nella serie, l’invidia di Sabrina nei confronti di Sarah arriva dopo, nel senso che all’inizio, soprattutto durante il primo episodio, ci sono dei pungiglioni che escono di qua e di là, ma tra le due c’è un rapporto abbastanza tranquillo.
C’è una scena in particolare che mi ha lasciato un segno indelebile, quella del concerto.
Ci sono Sabrina e Sarah che ballano sulle note di “Who Wants To Live Forever”, ma ci sono anche Giulia e Federica che si stanno divertendo: è tutto tranquillo, è estate, la Notte Bianca del paese, e ancora non è successo nulla. In quel momento mi sarebbe piaciuto fermare il tempo: per un attimo, mi sono estraniata da quello che stavo facendo, e guardando Federica ho proprio pensato, “Oddio, mi piacerebbe fermare il tempo qui”. La magia fra gli attori secondo me si crea proprio in quei momenti lì, in cui ti dimentichi di quello che stai facendo con una certa consapevolezza, perché l’attore dev’essere consapevole quando compie le sue azioni. Però poi in qualche modo nasce la magia, ti lasci sorprendere dal momento. Oggi mentre ne parlo mi vengono ancora i brividi, e penso che tutto questo sia arrivato al pubblico.
È una delle scene più belle della serie, anche quando l’idillio viene interrotto dall’arrivo di Ivano incazzato nero.
Quello è l’inizio della fine.
A proposito, c’è una scena o un dialogo specifico che hai trovato particolarmente significativo per comprendere il tuo personaggio?
La Sabrina che ho interpretato io è un essere umano caratterizzato da una certa polarità: è come se la sua mente fosse una medaglia con due facce, un piano A e un piano B. Durante le riprese, io ho avvertito la polarità del suo essere: Sabrina è una ragazza determinata, ma allo stesso tempo piena di insicurezze che l’hanno resa fragile. C’è la Sabrina affascinata dalle telecamere, che vuole comunicare al mondo che “esiste”, che “c’è anche lei”, e c’è la Sabrina che soccombe al suo lato oscuro.
C’è una scena in cui ci sono Sabrina e Cosima, e Sabrina è sul tavolo che prova i pantaloni e sua madre che le dice, “Ma ancora devi mettere questi pantaloni? Quanto hai speso per questi pantaloni?”. Lì ho capito quanto Sabrina fosse diva, perché alla madre risponde, “Ma’, e io sempre le stesse cose mi devo mettere? Vado in televisione, e che devono dire?”. Lei voleva percepire giudizi positivi dalle persone, da tutta Italia, anzi, perché sarebbe andata in televisione. Però poi c’è la scena finale del secondo episodio, quando Sabrina scende all’altarino di Sara e la guarda le dice, “Domani ti porto al mare”: lì emerge la fragilità del personaggio. E non solo, poi Sabrina prova a chiamarla, ma Sara non c’è, Sara non risponde, parte la segreteria telefonica: lì, in quel momento, c’è una Sabrina che prova un rimorso, anche se non lo vuole ammettere a sé stessa. Questo personaggio vive di contrasti continui, ha una doppia faccia che in qualche modo è presente in tutte le sue battute, come se ci fosse sempre un sottotesto, come se le parole dette non fossero il suo obiettivo principale.
Inoltre, in questa serie è tanto importante la fisicità di Sabrina e io ho interpretato quella fisicità come se fosse la manifestazione esteriore della sua insicurezza. C’è una scena, per esempio, alla fine del primo episodio, in cui Sabrina si guarda allo specchio e si pizzica la pancia: ricordo che quel giorno quando tornai a casa avevo dei segni evidenti sulla pancia, delle ferite che mi sono rimaste, degli ematomi, a dimostrazione che quel momento della storia era stato un trauma, non solo emotivo. Quella scena era di didascalica, e quando ci sono delle scene didascaliche per un attore è una grande fortuna. Quando leggo le didascalie, mi rendo conto che è lì che il personaggio viene fuori, perché la sua emotività la disegni attraverso la didascalia. Tornando a quella scena davanti allo specchio, sul copione c’era scritto qualcosa di simile a “Sabrina si guarda allo specchio e si comprime la pancia”, e quando ho messo in atto la didascalia, il personaggio ha preso il sopravvento:
la magia di questo mestiere nasce proprio da quelle didascalie che ti fanno viaggiare.
“come se ci fosse sempre un sottotesto, come se le parole dette non fossero il suo obiettivo principale”
La frase “Qui non è Hollywood” sembra essere un manifesto del tono della serie. Secondo te, in che modo questa produzione si distingue da altre serie che affrontano storie di cronaca nera? Secondo te, cosa può insegnarci questa serie sul rapporto tra cronaca nera e spettacolarizzazione mediatica?
Allora, partiamo dal presupposto che io sento parlare spesso di target, come se questa serie in qualche modo avesse colpito un target preciso, come se avesse affascinato gli spettatori che già conoscevano il delitto di Avetrana.
Mi sta sorprendendo quanto questa serie abbia catturato un pubblico abbastanza vasto: gli ascolti parlano, è una delle serie più viste in Italia, e di questo sono tanto grata. Di base, penso che abbia catturato un pubblico interessato, che si è interessato e che in qualche modo è stato sorpreso da quanto questa serie racconti l’aspetto psicologico dei personaggi, a prescindere dal caso in sé, perché si attiene alla verità processuale. Ma credo anche che il pubblico sia stato catturato dall’aspetto psicologico dei personaggi che viene raccontato attraverso la fisicità, l’atteggiamento. Tutto il cast ha fatto un lavoro importante sui personaggi ed è gratificante quanto il pubblico abbia riconosciuto e apprezzato il nostro impegno nel cimentarci così a fondo nella rappresentazione del loro essere.
Quello che lascia questa serie, spettacolarizzazione a parte, è il ricordo della vittima prima di ogni altra cosa, considerando che purtroppo nei casi di cronaca le vittime tendono a passare sempre in secondo piano. Invece, in questa serie noi diamo un ricordo, diamo tridimensionalità alla figura di Sara. In qualche modo e senza appunto giudicare la famiglia Misseri, abbiamo raccontato l’aspetto psicologico anche degli altri personaggi che, vuoi o non vuoi, sono la “seconda vittima”: si sono rovinati la vita e sono, quindi, vittime del loro lato scuro.
C’è, poi, una terza vittima: Avetrana, un paese segnato da un caso di cronaca mondiale che tutti conoscono e che purtroppo viene ricordato per questa faccenda.
Quali emozioni speri che il pubblico provi verso la “tua” Sabrina guardando la serie? Compassione, rabbia, dubbio?
Mi stanno arrivando dei feedback molto positivi dal punto di vista attoriale. Il pubblico sta riconoscendo un’attrice che si è impegnata totalmente, ha messo tutta sé stessa a disposizione del personaggio. Dal punto di vista del personaggio, credo che il pubblico veda una Sabrina che a volte infastidisce, fa tanta rabbia e risulta anche antipatica. Sabrina è sfacciata in questa serie, può risultare molto fastidiosa, ma dall’altra parte, Sabrina è una ragazza piena di insicurezze, fragile, come abbiamo già detto. Sai, a volte quando guardiamo un film ci capita di empatizzare con il cattivo, no? Anche per un istante, il cattivo a volte ti fa un po’ pena. È quello che ho provato io per il mio personaggio, tantissima pena perché è una ragazza vittima delle sue emozioni, ma anche fastidio, perché questa sua gelosia estrema mi dava davvero sui nervi.
Sabrina è vittima di sé stessa e noi in questa serie abbiamo raccontato proprio questo.
C’è qualcosa che hai scoperto su te stessa come attrice interpretando questo ruolo?
Io penso che nella mia vita ci sia un pre-Sabrina e un dopo-Sabrina.
Sai, io ho studiato recitazione e per un certo periodo ho frequentato anche il Centro Sperimentale e conosco la tecnica di questo lavoro. Poi, certo, l’attore è come un atleta, si deve allenare tutti i giorni, ma conoscendo la tecnica, sai come lasciare sul set il personaggio. Magari per un ruolo indossi una parrucca e a fine riprese te la togli, la lasci sul set, torni a casa e sei di nuovo te stesso. Con questa serie, per ovvi motivi non era possibile per me, a partire dalla questione della fisicità del personaggio. Non ne parlo come di una fisicità negativa in assoluto e a prescindere, nel senso che non credo che una ragazza con quel tipo di fisicità debba provare disagio: il disagio arriva dal semplice dover convivere in un corpo che non è il tuo. Questo disagio l’ho portato dentro per tanti mesi, e poi, una volta finite le riprese, è successo che sono tornata a casa ma ero ancora “quella cosa lì”, ero ancora il personaggio. Quindi io ho portato avanti quella fisicità, quelle insicurezze, quella sfacciataggine per vari mesi anche dopo la fine della serie. Quando ho fatto ricrescere i capelli, ho iniziato la dieta dimagrante e ho tirato un freno a mano con l’aiuto della mia nutrizionista, ho iniziato a rivedere Giulia allo specchio, dopo aver fatto un viaggio, però.
E quando fai un viaggio, quell’esperienza ti rimane dentro. Ti rimane dentro la cicatrice emotiva di quello che hai vissuto, l’entusiasmo dell’esperienza che hai fatto, della responsabilità che hai avuto.
Ora, nel post-Sabrina, mi sento più matura sotto alcuni aspetti, mi sento cresciuta. Guardo il mio viso e lo vedo segnato dall’esperienza. Questo per un attore è fondamentale, perché noi viaggiamo con questa valigia carica di emozioni, ce la portiamo addosso e questa si fonde con la vita, non c’è niente da fare, ed è bellissimo. È una delle gioie di questo lavoro studiare l’essere umano.
“Viaggiamo con questa valigia carica di emozioni, ce la portiamo addosso e questa si fonde con la vita, non c’è niente da fare, ed è bellissimo”
Certo, impari a conoscerlo meglio e di conseguenza a conoscere meglio te stesso.
Invece, un epic fail sul set?
La scena di nudo di Sabrina, la camminata nel paese.
Non è un vero e proprio un epic fail, in realtà, anzi credo che sia una delle scene principali della serie; infatti ringrazio Pippo Mezzapesa e il suo essere visionario che ha proiettato l’immagine di Sabrina con la sua fragilità. Quella scena è l’apice della fragilità di Sabrina.
Però, mi ricordo che quel giorno, la troupe non mi guardava in faccia [ride]. Quando arrivai sul set per girare quella scena, avevo l’accappatoio e sotto non avevo niente, ovviamente: io camminavo in accappatoio e le persone non mi guardavano. Il set era comunque dimezzato, perché chiaramente è una scena molto delicata per un’attrice e io in quel momento ero concentrata su quello che dovevo fare, però come sempre salutavo tutti, ero conviviale come sempre, amichevole come sempre con tutti, perché mi piace stare in compagnia, vivere il set. A un certo punto quel giorno guardai l’operatore della macchina da presa, che solitamente mi dava delle indicazioni, mi diceva come guardare dove, ma lui non mi disse neanche una parola. Alla fine, chiesi esplicitamente: “Ragazzi, ma ho fatto qualcosa, è successo qualcosa?”. Penso fossero imbarazzati perché ero nuda [ride]. Ma erano più imbarazzati loro di me, alla fine, perché io ero tranquilla nella convinzione che non mostravo il mio corpo per davvero, quello non era il mio corpo, era come se avessi una tuta.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Quando frequentavo il secondo anno di un istituto tecnico commerciale, decisi che volevo cambiare scuola e andare in un istituto tecnico audiovisivo che era più coerente con quello che iniziava a piacermi in quel periodo, con i miei hobby. Quando lo dissi a mia madre, lei mi rispose: “No, finché non ti bocciano tu non cambi scuola”. Che cosa fa Giulia? Si fa bocciare [ride]. Poi ho comunque recuperato l’ultimo anno quando dovevo fare il quarto, ho fatto due anni in uno perché l’obiettivo era andare via di casa, trasferirmi a Roma e fare la corte al cinema.
Il tuo più grande atto di coraggio, invece?
Il coraggio credo che in qualche modo io l’abbia avuto nel momento stesso in cui ho deciso di correre il rischio di vivere i miei sogni. Dobbiamo essere sinceri, questo non è un mestiere facile, nel senso che è difficile affermarsi. Vivere questo sogno non lo fanno in tanti, perché spesso la gente molla, a un certo punto si perde per strada. Io, però, anche davanti ad un bivio ho sempre scelto la strada del cinema. Per me il cinema è una sorta di richiamo, mi risucchia, mi fa sentire a mio agio.
Ti dico una cosa abbastanza intima: io non mi sento mai giusta, non mi sento mai all’altezza di quello che faccio o di quello che devo fare, un po’ perché sono timida ma anche un po’ per insicurezza. Però, sul set di “Qui non è Hollywood”, io mi sono sentita giusta, ho sentito che stavo facendo una cosa giusta non solo per me, ma per gli altri. Stavo raccontando una storia, entrandoci in punta di piedi e poi alla fine ci sono caduta dentro con tutte le scarpe.
Di cosa hai paura?
Ho paura della solitudine e di estraniarmi spesso.
Sai, così come per l’attore sono importanti le pause e i silenzi, questi sono fondamentali anche nella mia vita. Adoro i silenzi perché riesco proprio a rifugiarmi in quelle pause e a elaborare. Io sogno tanto ad occhi aperti, ma quando ho quei momenti di pausa e tu magari mi stai parlando, mi stai dicendo una cosa, io, certo, ti ascolto, però a un certo punto vado per la mia tangente. Spesso mi chiedono, “A che stavi pensando?”. Non lo so, non so a cosa stavo pensando, però chissà, ci sono dei pensieri che si intrecciano, si mischiano.
Volo tanto con la mia immaginazione, è il posto in cui mi rifugio, perché lì riesco a sentirmi vera, in questo mondo ormai artificiale. Quindi cerco di rifugiarmi proprio in quelle pause, in quei silenzi.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
La mia pelle è quello che mi circonda. Cerco di sentirmi a mio agio con la sedia che ho a casa piuttosto che con il piatto di pasta che cucino (perché amo cucinare). Cerco di sentirmi a mio agio con quello che mi circonda, quindi facendo diventare gli oggetti esterni quello che vivo e quello che sono.
A questo punto direi che la mia pelle passa quasi in secondo piano, è meno importante rispetto all’esterno, perché sono una che sta tanto fuori da sé. Cerco di essere in ascolto, di ascoltare, di accogliere, forse perché sono tanto materna. Cerco sempre di esserci, di essere presente non solo a me stessa ma alle persone che mi stanno accanto. Quindi quella è la mia la mia pelle diciamo.
Progetti per il futuro di cui hai voglia di parlarci?
È tutto un work in progress.
“Qui non è Hollywood” mi ha dato la possibilità di mettermi in discussione con questo ruolo difficilissimo e quindi adesso, più persone hanno capito che “c’è una che forse potrebbe fare questo lavoro” [ride] ed è cambiata la percezione che gli altri hanno nei miei confronti. Riesco ad accedere a provini per ruoli da protagonista che prima per me erano solo un sogno. Non dico altro per scaramanzia, ma adesso è il momento di andare avanti, trottare, correre. Il mondo corre veloce e bisogna stargli al passo se si vuole lasciare un piccolo segno.
Ti faccio un’ultima domanda: qual è la tua isola felice?
La mia isola felice sono le persone che amo, i miei amici, la mia Lecce, il mio Salento, il mare del mio Salento dove mi rifugio molto spesso. È giù dalla mia famiglia e dai miei amici con un bicchiere di vino.
Io mi accontento di cose semplici, che secondo me sono quelle più belle.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup & Hair by Maddalena Pasquini.
Styling by Sara Castelli Gattinara.
Thanks to Other Srl.
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