“È un periodaccio. A maggior ragione, vale la pena cercare di sorridere il più possibile”, dice Guglielmo Poggi.
Attore e cultore della Settima Arte, il cinema è il suo “big bang di felicità”: cosa non farebbe in nome della sua vocazione. Stupendamente auto-ironico, con una buona parola anche per il peggior resoconto di massacranti preparazioni fisiche, Guglielmo ci ha raccontato la sua esperienza sul set di “(Im)perfetti criminali”, il nuovo film Sky Original di Alessio Maria Federici. In una riflessione sull’ingiustizia della condizione umana, in linea con il cuore del film, Guglielmo ha analizzato per noi il suo personaggio con una cura e perizia tali da renderlo quasi tangibile, da materializzarlo davanti ai nostri occhi, rivelando una profondità d’animo, uno spirito d’osservazione, e una voglia di impegnarsi e dare il meglio sempre in ogni aspetto della vita, decisamente rari. Trovando aspetti uguali ma diversi tra sé stesso e il suo personaggio, ha reso alla grande il senso del suo lavoro, palesando il bello del poter vivere la vita degli altri di tanto in tanto.
Tra racconti di scene pirotecniche e allusioni a progetti top secret, celebrazioni di eroi di vita e antidoti alle difficoltà, come una band, la sua, L’Orchestraccia, Guglielmo sta imparando a “combattere la battaglia dello stare al mondo”, inseguendo sempre quell’adrenalina che ci guida tra le strade del mondo.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Divano, seduto in mezzo ai miei genitori. Anni, pochi. Il film è “Delicatessen”, grottesca opera prima di Jeunet, nel quale una macelleria di una Parigi post-apocalittica vende carne umana. Eccolo, il mio primo ricordo. E sì, i miei genitori sono evidentemente scampati al processo di Norimberga, ma gliene sono grato, perché grazie a loro ho conosciuto subito gli autori, i generi, il Cinema. E anche un po’ di sano baracconismo circense: ricordo “Godzilla”, visto in sala da bambino. Volevo andarmene dopo i primi cinque minuti; mi hanno costretto a rimanere seduto sulla poltrona, e ancora oggi lo ricordo come un big bang di felicità che volevo non finisse mai.
Sei tra i personaggi principali di “(Im)perfetti criminali”, il nuovo film Sky Original di Francesco Maria Federici. Quale è stata la tua prima reazione dopo aver letto la sceneggiatura e la prima domanda che hai rivolto al regista?
“Questo film o viene una cagata, o un gioiellino. Cavoli suoi (riferito a Federici)”.
E la domanda non ho fatto in tempo a farla, perché io sono entrato nel film che mancava un mese, quindi ho direttamente ascoltato la risposta. Ha parlato Alessio, tanto, tantissimo, davanti a un pranzo di pesce dove mi ha spiegato pure di quanti centimetri sarebbe stata la sfumatura dei miei capelli. Al dolce gli ho chiesto se mi volesse fisicamente più grosso. Mi ha detto sì, e io sono andato a ingozzarmi di bistecche per mettere massa muscolare e a spaccarmi di massimali in palestra. È stato massacrante, ma era il minimo che potessi fare per ripagare la sua fiducia.
“(Im)perfetti criminali” è un film incrocio di generi, un cross-over tra comico e poliziesco, con un tocco sentimentale. In che modo ti sei approcciato a questo tipo di impostazione? Quali difficoltà hai incontrato e come le hai superate?
Calarmi dal settimo piano di un palazzo appeso a un filo verde che potesse essere rimosso in post-produzione, e che in quanto tale aveva lo spessore di un filo interdentale. Che altre difficoltà vuoi incontrare? Dire una battuta piangendo? Siamo seri. Il filo interdentale, quella è una difficoltà.
Quanto all’impostazione che richiede il genere, io cerco di aiutarmi non facendo distinzioni. Quelle le fa il regista (il quale, quando racconto cos’è per me questo film, mi ricorda che lui l’ha montato come una commedia e non come il dramma sturm und drangiano che racconto io). È più forte di me, io ragiono così: quando feci “Il Tuttofare” lo recitai come fosse una tragedia Shakespeariana in salsa generazionale; “(Im)perfetti Criminali” per me è un racconto di rivalsa sull’ingiustizia della condizione umana. Che poi questi film facciano ridere, e non piangere, per me non è che un valore aggiunto. Quando mi si regalano protagonisti tridimensionali non rinuncio a mettere in gola ai personaggi un bel groppo, quello che sento io nella vita vera. Per Massimo i muscoli stessi sono una difesa, idem la sua aggressività e il bisogno di non essere da meno; non sono pensati come meccanismi di un personaggio che “sta bene”: sono le armi di uno che farebbe di tutto per non soffrire più.
“…non rinuncio a mettere in gola ai personaggi un bel groppo, quello che sento io nella vita vera”.
Il tuo personaggio, Massimo, si presenta, all’inizio, come l’ingenuo della banda, la guardia giurata un po’ imbranata e fuori posto che nasconde traumi e delusioni passate, tra cui complessi di inferiorità e timore del giudizio paterno. Come l’hai costruito e quanto c’è di te in lui?
Appunto, vedi? Sono quei “fuori posto” che sembrano non trovare un verso alla propria vita, anche se ci provano. Che vuoi, forse perché l’esistenza lo ha preso a destri in faccia infliggendogli un lutto troppo più grande di lui; o forse, ed è soprattutto lì il punto, perché viene sminuito continuamente da suo padre, il riferimento che dovrebbe aiutarlo a fare il proprio percorso nelle strade impervie del mondo. Massimo è stordito dalla propria incapacità di trovare un proprio spazio-tempo. Ecco perché cerca in tutti i modi di piacere ai suoi amici, di non sentirsi inferiore a loro. E questa inadeguatezza, tenera, innocente, ma chiassosa e imbranata, crea la sua devastante simpatia.
Non credo serva spiegare – come dice Federici, “Sturm und Drang” – che quell’inadeguatezza, sebbene in forma diversa, io la viva costantemente.
Perché, se no, fare un lavoro dove si vive la vita di un altro?
Massimo muta e si sviluppa nel corso della storia, o meglio, alla fine si rivela diverso da chi aveva dato l’impressione di essere all’inizio del racconto. C’è qualcosa di nuovo che hai scoperto su te stesso dando voce a questo personaggio e forma alle sue sfaccettature?
Che dietro agli sconfitti, agli ultimi, a quelli che la società vuole emarginati e impossibilitati al riscatto, c’è una potenza fenomenale.
Che non solo in senso Marxista, ma pure su un piano più sottilmente esistenziale, nel riscatto della propria condizione l’uomo acquisisce caratteristiche sorprendenti che non potrebbe acquistare né con il denaro, né con il potere, nemmeno appropriarsene con gli strumenti culturali.
Io sono nato fortunato, la vita e la mia famiglia mi hanno messo in mano le armi per andare a combattere la battaglia dello stare al mondo; eppure, i personaggi come Massimo mi stimolano a spingermi un po’ più in là, consapevole che nel riscatto di me stesso o degli altri posso trovare uno stimolo adrenalinico migliore di molte cattive droghe che mi sono calato.
Tu, Filippo Scicchitano e Fabio Balsamo, alias il gruppo di guardie giurate alla ricerca del riscatto sociale, perseguite una “missione impossibile” con tutti gli strumenti che avete a disposizione, tra cui travestimenti, arrampicate, strumenti di manomissione di allarmi e impalcature: qual è stata la scena più divertente e quella più complicata che hai girato?
Come dicevo, non credo di aver mai avuto tanta paura come quando mi sono gettato nel vuoto per venticinque metri. La scena più complicata della mia vita, senza dubbio. Quanto al divertimento, non ricordo una giornata che non fosse divertente, io mi sono divertito sempre in questo film. Poi certo, ci sono le scene pirotecniche: buttare giù un muro con un martinetto a pompa, scavalcare i tetti dell’Excelsior, sfondare un acquario con un piede di porco diamantato, saltare tra i laser a infrarossi e, ovviamente, girare con Roberta Bruzzone. Che mi ha anche detto che secondo lei sono il Ted Bundy italiano. Quando ti ricapita?
Come descriveresti “(Im)perfetti criminali” con una sola parola?
Delizioso.
Solitamente, cosa ti fa dire di sì ad un progetto e cosa, invece, ti fa dire di no?
Il cachet. Vorrei dirvi che non scherzo, ma invece sì, scherzo, perché la maggior parte delle volte mi sottopagano e accetto comunque. Io sono workaholic, e da un certo punto in avanti mi sono capitati solo protagonisti meravigliosi o personaggi minori che uno sognerebbe di fare in un’intera carriera: difficile rifiutare. Non dico spesso no a progetti o a ruoli, quanto piuttosto a un certo “modo di lavorare”. Se sento che prendendo me o un altro sarebbe la stessa cosa; se percepisco quel sottile ricatto del “c’è un tuo collega che pagherebbe lui per fare il film”; se sento che non posso proporre scelte e direzioni uniche, personali – le quali sono ciò che ritengo davvero il valore aggiunto che posso dare a un lavoro – allora mi invento che devo partire per un lungo viaggio per trovare me stesso, o che sono in scena sette ore consecutive in un monologo in italiano arcaico. E conoscendomi, ci credono.
“Non dico spesso no a progetti o a ruoli, quanto piuttosto a un certo ‘modo di lavorare'”.
Il tuo ultimo binge-watch?
“Better Call Saul”. Se non la smettono di torturarmi a farmi aspettare una settimana per una nuova puntata, li denuncio.
Un personaggio realmente esistito che ti piacerebbe interpretare?
L’ho appena fatto: un assassino orribile. Top secret per ora. Lo sognavo, e me lo sono andato a prendere, e pensa che all’inizio non volevano nemmeno farmi il provino, perché fisicamente non ci azzecco niente. Ho dovuto fare un dimagrimento importante, indossare la parrucca, impadronirmi di alcuni tic e cambiare il modo di parlare. Ah, che goduria. Se mi chiedi il prossimo, mi accollerei volentieri un’altra trasformazione fisica. Che ne so, un Mario Bosisio, per esempio, il pugile amato da Mussolini che venne sconfitto da Leone Jacovacci, boxeur di colore che il fascismo ha deciso di cancellare dalla memoria storica. Ecco, Bosisio mi piacerebbe. Sempre, e comunque, un antagonista. Li amo.
“Sempre, e comunque, un antagonista”
Sei anche un musicista: che ruolo ha la musica nella tua vita?
È l’antidoto alla depressione, alle difficoltà dell’esistenza. Con l’Orchestraccia, la mia band, o da solo. Farla, ascoltarla, ballarla. La musica è l’ossigeno, quello vero, non quello volgare e pieno di smog che manda avanti i nostri organismi.
Quale canzone descrive questo momento della tua vita?
“La Vita”, di Shirley Bassey, uno dei gioielli di questo bellissimo film.
Qual è stato l’incontro professionale più significativo della tua carriera, finora?
Uno? Forse l’unica cosa che ho in più dei miei colleghi, è proprio il culo degli incontri che ho fatto. A trent’anni posso vantare di avere lavorato da pari grado con alcuni dei più grandi attori italiani, penso a Castellitto ed Elena Sofia Ricci, a Nino Frassica; alcuni di questi, come Claudio Bisio, sono diventati anche miei cari amici. Ma ho anche incontrato nella mia strada Giallini, Gassman, Gerini, Leo, Fresi, Haber, Bevilacqua, Calabresi, Sermonti, Cabra, Lombardi. Ho lavorato con registi vincitori di premi internazionali, grandissimi professionisti e giovani talenti che stanno avendo successo folgorante nel nostro cinema; ho collaborato con premi oscar come Danny Boyle, e ho potuto essere diretto dal mio mito di sempre, quello che per me resterà il più grande di tutti i tempi, Gigi Proietti, incontrandolo proprio su Shakespeare.
Come faccio a sceglierne uno? I miei incontri sono forse la più grande soddisfazione della mia vita.
Chi o cosa ti ispira sul lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni?
Ho rubato la dedizione a mia madre, e l’ossessione per il dettaglio a mio padre; ai maestri della mia vita – Gabriele Linari, Annabella Cerliani, e poi Vito Mancusi, Popova, Benedetti Michelangeli, Dezi, Perelli, e gli altri insegnanti del Centro Sperimentale – le conoscenze che mi permettono di agire liberamente in scena. E a Ludovica Bargellini, grande amore della mia vita da poco venuta a mancare, l’attitudine gioiosa, curiosa ed esplosiva, che la spingeva a cercare sempre qualcosa di più da sé stessa e dalla vita.
La vera sfida, però, è cambiare continuamente i riferimenti e le ispirazioni. In questo modo ti costringi a spingerti in luoghi sconosciuti, a non accontentarti mai, a battere sempre strade nuove.
Nella creazione di un personaggio (ma anche nella vita di tutti giorni) sei più razionale od emotivo?
È solo una questione di fasi: il mio approccio è assolutamente razionale, e più riesco ad esplorare con il cervello più mi sento libero poi di spegnerlo e lasciarmi andare all’emotività. È come la macchina: all’inizio volevo sapere esattamente a che giri del motore fosse più giusto cambiare marcia, ora se mi distraggo non mi ricordo come sono arrivato a casa.
La tua citazione cinematografica preferita?
“Scusi, noi siamo in quattro, come se fosse antani anche per lei soltanto in due oppure in quattro anche scribai con cofandina, come antifurto, per esempio.”
Un epic fail sul set?
Non ne ricordo. E se ce ne sono, li ho voluti rimuovere. Per me fallire sul set è come scordare mio figlio all’asilo e andarlo a riprendere il giorno dopo. Sì, mi sembra una metafora adeguata. Me la vivo bene, insomma.
Il tuo must have sul set?
Il mio beauty case. Ci sono spazzolino, dentifricio, deodorante, profumo (è fondamentale aiutare i colleghi a non subire il tuo alito e le tue secrezioni da after party), i miei appunti sul testo, le cuffiette, i preservativi (perché non si è mai sufficientemente ottimisti, ma la scatola è la stessa, sigillata, da anni, probabilmente sono scaduti), il caricabatterie, qualche monile portafortuna, e qualche bustina di Oki, Sustenium Plus e simili medicamenti. In pratica il mio beauty case pesa 30 kg.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
“Svegliarmi stamattina”, cit. da “La Strada” di Cormac McCarthy, da cui ho tratto un monologo. Non è vero, ma è sempre un po’ vero.
E il tuo più grande atto di ribellione?
Dire dei no.
Chiedete al mio psicoterapeuta, per me è come la Presa della Bastiglia, o la Rivoluzione d’Ottobre. Ecco. Io, quando dico di no, sono come Danton o Lenin.
“Dire dei no”
Cosa significa per te “sentirsi a proprio agio nella propria pelle”?
Non ne ho la più pallida idea.
Di cosa hai paura?
Dell’essere un attore cane. Di domani. Di oggi. Di ieri. Dei topi. Delle persone. Del futuro, della morte, del dolore, dell’essere un attore cane, del non essere all’altezza, dell’insuccesso, del successo, di Equitalia, dei cani cattivi, sia animali che attori, delle due ruote, della pasta scotta, del burro d’arachidi (ne ho mangiato troppo da bambino), delle malattie, dell’essere un attore cane, della salute del pianeta, del capitalismo, della musica trap, della musica trap in discoteca, della discoteca, del denaro, dei film brutti, del tempo che se ne va, di non ricordare il bello della vita ma solo gli orrori che ci riserva, dell’essere un attore cane.
Qual è l’ultima cosa/persona che ti ha fatto sorridere, oggi?
I miei colleghi di “(Im)perfetti Criminali”, i miei amici, chi amo. Sedermi a rispondere a delle domande, guardare le clip del film – ho sorriso tanto. Perché una cosa/persona sola? È un periodaccio. A maggior ragione, vale la pena sorridere più possibile.
La tua isola felice?
Gli strumenti musicali. I film. Il mio amore. Il cibo, il whisky, il vino rosso. Le chiacchiere con gli amici fino alle 6 del mattino. La cucina. L’amaca dello yoga, quella per stare a testa in giù. I miei genitori, vissuti da persone e non da genitori. Le cuffie e la musica a tutto volume. Il teatro, il set.
Sono fortunato. Io non ho un’isola. Ho un arcipelago.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup by Carmen Simeone.
Thanks to Andreas Mercante PR Talent Agency.
LOOK 1
Total Look: Giorgio Armani & Emporio Armani
LOOK 2
Shirt: Etro
Shoes: Premiata
LOOK 3
Total Look: Paul Smith