Abbiamo incontrato Hannah Gross a Venezia, durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, dove ha presentato il suo nuovo film “The Mountain“. La sera prima eravamo andati a vederlo e ci aveva lascati completamente senza parole, tra la voglia di capirne di più a tutti i costi e la meraviglia per le immagini. Non eravamo di certo sopresi per la sua perfetta interpretazione fatta di silenzi, che abbiamo scoperto essere la sua espressione preferita.
Ma eravamo già grandi fan di Hannah, che tra “Mindhunter” e “The Sinner” ci aveva mostrato sensualità, sfacciataggine e mistero.
Conoscerla però ci ha fatto diventare dei veri fan. Una ragazza introversa, intelligente, bellissima, buffa. In una giornata di pioggia, tra una chiacchera nella sua stanza d’hotel e una a guardare la pioggia, abbiamo scoperto una delle ragazze ed attrici più talentuose di oggi, che tra un epic fail e un po’ di disordine, ci sembrava già essere diventata un’amica.
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Come ti senti ad essere qui a Venezia, a presentare il tuo film?
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È surreale, ma molto bello. Insomma, mi sembra di aver appena cominciato, non credo di avere davvero il controllo di tutto questo; sono solo molto fiera di esserne parte. È tutto molto divertente.
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Riguardo il film in concorso “La Montagna”, cosa ti ha spinto a far parte del progetto?
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Ero una grande fan di Rick [Alverson] prima e, onestamente, ho ricevuto una chiamata dal produttore, Ryan [Zacarias], che mi ha detto: “Vieni a fare questo film con Jeff Goldblum, Denis Lavant…”
Ed io ho reagito tipo: “Cosa? Scusa? Hai detto Denis Lavant?”. E lui mi ha detto: “Denis Lavant sarà il padre di lei”, ed ho avuto una sorta di blocco, ho pensato “non può essere davvero Denis Lavant”. Ero totalmente bloccata su Denis Lavant.
E questa deve essere tipo la cinquantesima volta che ripeto Denis Lavant.
“…ho pensato ‘non può essere davvero Denis Lavant’. Ero totalmente bloccata su Denis Lavant”.
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Qual è il significato della “montagna”, per te?
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Penso che ovviamente sia un simbolo di aspirazione anche troppo utilizzato e di quanto stressato e radicato sia il concetto di individualità in America.
C’è una sorta di disagio e penso che la cultura Americana, per via di questa aspirazione che ha, questa idea di libertà e dell’essere sempre la migliore, ingrandisca chiunque non riesca a farcela, vuole di più da tutti. È la più grande società capitalista del mondo.
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Quale aspetto metaforico ti è piaciuto di più e quale è stato quello più difficile da affrontare?
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Penso che uno degli aspetti più interessanti del film sia che può essere letto come allegoria, può essere una metafora, “sembra lobotomia, ma è in realtà è…” e, allo stesso tempo, può essere assolutamente letterale.
E quindi credo che l’aspetto più interessante per me sia questa sorta di concetto continuativo che la realtà sia più strana della finzione. Non devi avere delle metafore per rappresentare qualcosa, perché la nuda realtà è molto più bizzarra di qualsiasi metafora a cui potresti pensare.
“…la nuda realtà è molto più bizzarra di qualsiasi metafora a cui potresti pensare”.
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Qual è la reazione che ti aspetti dal pubblico dopo il film?
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Non lo so, non ne sono sicura.
Ho avuto una reazione interessante, che mi ha sorpresa, nonostante ovviamente tutti noi conoscessimo la fine, con la scena in cui noi arriviamo sulla montagna, sono comunque rimasta sorpresa e ho pensato “Wow, Rick ha fatto un film leggero.” [ride]
E cinque secondi dopo c’erano i credits e ho pensato “Oh mio Dio”, ero completamente eviscerata. Come se tutto quello che avevo dentro si stesse sciogliendo.
Non so, le persone potrebbero avere la stessa reazione.
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Noi dopo aver visto il film ci siamo semplicemente guardati, senza parole, e poi ne abbiamo parlato per un’ora e mezza.
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Davvero? È bellissimo.
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Sì, è un film che ti fa parlare, ti fa pensare.
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Penso che questo film abbia una natura piuttosto insidiosa. Non so, almeno per me, è assolutamente brutale ma non in maniera grafica.
È una brutalità reale, non come se cercasse di svegliare le masse con qualcosa di orribile. È così legato alla realtà e, allo stesso tempo, penso che sia sorprendente, le emozioni che vanno sviscerate dopo aver visto il film sono dovute alla forma e alla struttura del film. È fantastico.
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Penso che il film sia delicato e allo stesso tempo brutale. Qual è stata la difficoltà nell’affrontare un personaggio che, per la maggior parte, si esprime attraverso il silenzio?
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Mi sento una completa idiota, ma non saprei. Sono piuttosto introversa e lo so che è fastidioso sentirlo dire da un’attrice, ma per me è molto più semplice stare in silenzio piuttosto che parlare. Insomma, fare rumore. Non è stato difficile, per me.
Stavo proprio pensando a lei l’altro giorno: il tempo sul set per me è stato molto breve, una settimana e qualche giorno, e il personaggio in generale appare per un terzo del film. Ero profondamente legata a lei, e volevo che esistesse per più tempo perché è difficile trovare un personaggio il cui motore dell’azione non è basato sul conflitto.
E la loro presenza è su un piano temporale e spaziale completamente diverso, in un certo senso, in qualsiasi contesto quotidiano.
Questa possibilità mi è sembrata un dono.
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Come hai fatto ricerca sul personaggio, sulla lobotomia e sul periodo storico?
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La conoscevo solo in maniera superficiale, credo. Non sapevo nulla di chi ne era stato il pioniere, quindi è stato bello scoprirlo. Ma il personaggio di Jeff è basato sul personaggio storico del Dottor Freeman, che era davvero maniacale e attento nella documentazione dei pazienti. Si possono ancora vedere le foto online: faceva foto ai pazienti prima e dopo l’intervento. Era davvero folle. E ho avuto questo momento terribile durante le riprese, in cui hanno appeso una foto di Perry Como, che è questo cantautore degli anni ’50, il classico tipo americano, che ha quest’espressione fissa negli occhi: è vacua, come se fosse speranzoso. La speranzosa pubertà Americana.
E io ero lì seduta e ho pensato “Oddio”, perché tutte le foto del post-intervento hanno quella stessa espressione. Questa dolcezza ciclica, speranzosa, che è davvero inquietante.
E poi c’era la costumista, Elizabeth Warn, che è un vero genio: mi sono divertita tantissimo a parlarle del personaggio, semplicemente scambiandoci idee. Lei è anche stata la prima a vedere Carson McCullers, una scrittrice del sud. Ho anche ricominciato a leggere Sylvia Plath: dopo dieci anni, sì, ma mi sembrava appropriato. É stato come regredire alla mia fase adolescenziale, mi sentivo intrappolata nella tristezza.
È stato molto divertente ricongiungermi con due autrici che leggevo quando avevo circa sedici anni.
“Ero profondamente legata a lei, e volevo che esistesse per più tempo perché è difficile trovare un personaggio il cui motore dell’azione non è basato sul conflitto”.
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Abbiamo pensato ad un parallelismo con Mindhunter, che ci piace moltissimo. Hai un debole per i drammi psicologici o è solo un caso che tu faccia parte di due progetti di questo genere?
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Sì, è divertente perché sono in entrambi e non avevo vai trovato un parallelismo, ma grazie. [ride] Sembra sempre che il mio personaggio debba essere marginale, essendo una donna.
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Riguardo l’empowerment femminile, di cui si parla tanto adesso: cosa rappresenta, per te?
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Mi sento una sciocca, ma non lo so.
Il pericolo della ripetizione: quando ripeti qualcosa ancora e ancora perde il proprio significato molto rapidamente. Che cosa significa empowerment? Ancora non lo so, ma è questa la mia prima preoccupazione. Devo davvero capire come esprimere questo pensiero.
Ovviamente, come tutti, sono molto felice del cambiamento che sta avvenendo. Sembra che sia reale, e non qualche strano tipo di trend o di patinatura, lo spero.
Penso che il fatto che possa essere di moda sia preoccupante. E questo, ovviamente, non copre tutte le circostanze, viene soprattutto da donne bianche che ne parlano e che alzano la voce a riguardo. È anche preoccupante, ma penso che ovviamente ci sia tanta strada da fare e che ci siano molte azioni da prendere, che sia combattere in prima fila o rimanere dietro le quinte.
Non so, è difficile capire come cambierà la mentalità collettiva, se ci sono dei fattori o se è qualcosa di adesso e basta.
Ma credo e spero che le persone metteranno qualcosa di proprio in prima linea e spero che gradualmente, con il tempo, diventerà parte di qualcosa condiviso da tutti.
“Il pericolo della ripetizione: quando ripeti qualcosa ancora e ancora perde il proprio significato molto rapidamente. Che cosa significa empowerment? Ancora non lo so, ma è questa la mia prima preoccupazione”.
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Qual è stata la difficoltà, se ne hai avuta una, dell’iniziare come attrice e come l’hai superata?
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Non lo so; sono stata molto fortunata. È come essere figlia di dottori: non mi è stato imposto, assolutamente, ma ha sicuramente innescato la possibilità che fosse possibile avere una carriera in questo capo, e che sarebbe potuto essere facile. Ma essere introdotti in un film è stata una cosa assolutamente casuale, fortuita. Sono andata a vedere il film di Matthew Porterfield “Putty Hill”, ero con la mia migliore amica, che conosco da quando avevo tre anni, e l’abbiamo incontrato: qualche mese dopo ho iniziato a girare “I used to be darker”. Quindi è stata una strana sensazione, molto genuina. A volte mi viene l’ansia, penso che dovrei avere più agenzie e provare di più.
Ma sì, sono stata molto fortunata.
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Qual è il tuo film preferito?
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“Matrix.”
Ci sono sicuramente altri film e anche migliori, ma “Matrix”. Non so come classificare un film preferito, ma quando avevo nove anni mi hanno regalato il VHS di “Matrix” e l’ho visto ogni giorno per tre mesi. E posso ancora vederlo e vivere le stesse emozioni di un tempo.
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L’ultimo Binge-Watch?
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“Broadchurch,” con Olivia Colman. È stato un po’ di tempo fa. È molto bello, un crime drama inglese fatto molto bene.
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Un epic fail sul lavoro?
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Non lo so, ne faccio ogni giorno! Ieri sono stata ripresa perché ho portato la borsa al photocall, quindi è successo almeno una volta in questi giorni. Poi ci sono vari gradi di non essere preparata per qualcosa. Ieri stavo ridendo, e non era nemmeno uno scherzo divertente quindi credo di aver deciso, per qualche ragione, di dover strafare, e ho colpito il mio bicchiere di Aperol con la testa, ed è schizzato ovunque. Sì, è stato un vero spreco.
“Non so come classificare un film preferito, ma quando avevo nove anni mi hanno regalato il VHS di ‘Matrix’ e l’ho visto ogni giorno per tre mesi”.
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Se potessi avere ad una cena tre persone, vive o morte, chi inviteresti?
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Mi piace tantissimo leggere le risposte a questa domanda; mi piace un sacco quando le persone rispondono Gesù. [ride]
Credo…John Cage, la Regina Elisabetta oppure Cleopatra e Anne Carrison.
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Qual è stata la cosa più bella del girare “The Mountain”?
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Non ero mai stata nello Stato di Washington, prima, ed è stato abbastanza gratificante perché a New York c’è questa strana sensazione che la natura sia stata tremendamente soppressa. Che sia morta. Nello stato di New York, anche se esci dalla città è piuttosto strano, la natura sembra completamente morta.
Per questo lì era davvero bello; spero di poterci vivere, un giorno: ci sono tantissimi alberi, che ondeggiano al vento e si parlano.
E anche il fatto di aver potuto lavorare con tutti, è una cosa che ho molto apprezzato; è stato un lavoro molto sincero. Un giorno, in macchina, ho pensato per un attimo “ecco, potrei morire ed essere felice,” con Jeff che sedeva sul sedile anteriore. [ride]
Lui è un grande. È l’uomo più sensuale che abbia mai incontrato.
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Sì, è vero. Lo noti anche da come cammina.
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È affascinante. Tutto quello che fa brilla di pura elettricità, è strano. Stava suonando la colonna sonora di “The Elephant Man”, e, con Denis, si inginocchiava accanto a me e suonava. Ha sempre con sé qualcosa come sei strumenti musicali, aveva il fluato da naso e il guscio di una lumaca, e suonava il flauto. Era molto bello.
“Un giorno, in macchina, ho pensato per un attimo ‘ecco, potrei morire ed essere felice’, con Jeff che sedeva sul sedile anteriore”.
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Una curiosità: qual è stata la domanda più strana che hai mai sentito sui Canadesi?
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C’è questa domanda continua, tipo “Oh, deve fare molto freddo dove vivi tu.”
Vivo letteralmente a poche ore di volo da New York, a Toronto, e fa molto freddo. Quindi non saprei, sono tornata a Toronto per la prima volta dopo un po’ di tempo e mi sentivo come se mi fossi rammollita, mi sentivo una sfigata perché i miei amici volevano uscire per una passeggiata, o per andare al supermercato, e io urlavo: “Non posso! Fa troppo freddo!”.
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Qual è il tuo prossimo progetto?
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Devo girare un cortometraggio, quando torno a New York, insieme ad un’amica. E poi dovrò girare un film a Toronto, si chiama “The Education of Fredrick Fitzell.”