In una calda giornata d’estate, nonostante la pessima connessione Wi-Fi di Londra, una chiacchierata con Jenna Coleman per la nostra Cover Story di agosto è stata la miglior compagnia e distrazione da una serie di minacce di svenimento dovute alla mia pressione bassa e alle temperature bollenti di Milano. Quando ci siamo chiamate su Zoom, mi ha chiesto come stavano i miei colleghi, era curiosa di sapere di me e di noi. In quel momento, quando Jenna ha mostrato un interesse sincero verso il muro bianco scorticato e le foglie verdi che mi facevano da sfondo, rivelando uno scorcio del salotto di casa sua, la sua isola felice, ho realizzato che al di là del mio schermo del pc c’era uno dei talenti più genuini dell’industria dell’intrattenimento con cui avessi mai parlato fino a quel momento. Forse, addirittura, una delle persone più genuine con cui abbia mai parlato, in generale.
Una delle mie parti preferite della nostra chiacchierata è stata quando abbiamo parlato di perfezione, del bisogno di essere perfetti a tutti i costi e di corrispondere agli standard imposti dalla società che ci rendono deboli nella nostra inabilità di essere “orgogliosamente noi stessi”. Come il suo personaggio nell’ultimo progetto in cui ha recitato, la serie tv “Wilderness”, in cui interpreta una moglie maniaca del controllo e vendicativa che vive in una realtà costantemente esasperata, dove sente di dover essere la perfetta controparte femminile del suo partner maschile che domina la coppia. O quantomeno suppone che quello debba essere il suo ruolo.
Quando Jenna si è chiesta ad alta voce, “Cos’è alla fine la perfezione?” e io mi sono resa conto che quella era una domanda a cui non avrei saputo rispondere e della quale, allo stesso tempo, non mi importava conoscere la risposta, ho capito che forse le cose stanno davvero cambiando, come dice lei, specialmente per le donne e per le donne nel cinema. A partire da me, a partire da lei e dalla nuova generazione di attori e attrici e giovani in generale che entrambe guardiamo con ammirazione.
Perché la verità è che l’unico momento in cui siamo davvero coraggiosi e audaci è quando ci mostriamo per quello che siamo, con tutte le nostre complessità, e oggi è un dato di fatto.
*Intervista e shooting sono stati fatti prima dello sciopero SAG-AFTRA.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Il mio primo ricordo legato al cinema è “My Girl” con Macaulay Culkin: è stato il primo film che mi ha fatto provare un’emozione travolgente mentre lo guardavo, aveva quel tipo di potere. Altri ricordi sono legati a ciò che guardavamo a casa mia, come “West Side Story”, “Oliver”, “Black Beauty“; ricordo che con mia sorella guardavamo molti musical. Inoltre, “Ritorno al futuro” e “La storia infinita“, penso di aver visto quel film 50 volte o giù di lì! [ride]
“Doctor Who”, “Victoria”, “The Sandman”, “The Serpent” e ora “Wilderness”, per citare solo alcuni dei progetti in cui hai recitato finora. Senza dubbio, hai interpretato una vasta gamma di personaggi, sia nel cinema che in tv, tutti molto diversi tra loro: qual è stato il ruolo più impegnativo che hai affrontato finora e in che termini lo è stato per te?
Quello che ho notato è che ogni ruolo presenta le proprie sfide. In “Wilderness”, ad esempio, il mio personaggio si trova in uno stato di grande ansia e pressione, quindi mantenere quella tensione durante i tre/quattro mesi di riprese, mantenere quell’energia è stato una sfida. In “Wilderness” era tutto incredibilmente intenso anche perché l’intera serie si basa su un meccanismo in cui qualcosa di brutto accade e la situazione peggiora di volta in volta. Mantenere Liv, il mio personaggio, in quello stato di tensione per così tanto tempo è stato molto impegnativo. Quindi, ruoli diversi presentano sfide diverse per motivi diversi, ma in un modo divertente.
“The Serpent” è stato incredibilmente impegnativo perché tre settimane prima di iniziare le riprese non parlavo affatto francese, e avrei dovuto lavorare con un attore francese in una lingua che non conoscevo, quindi è stato difficile cercare di raggiungere un livello tale per cui non dovevi dolo parlare la lingua, ma dovevi anche riprodurne l’accento, un dettaglio estremamente impegnativo. La difficoltà di “Victoria” stava nel cercare di approfondire la storia, ma il punto è che la storia ha varie versoni ed esistono diverse opinioni su di lei: ad esempio, la gente pensa che la regina Vittoria avesse una certa personalità perché sembra burbera nel suo ritratto e così via; quindi, la sfida consisteva nel cercare di trovare la verità nell’umanità che nascondeva dietro la sua immagine pubblica, immergendosi nella storia parziale, per così dire. “Doctor Who” è stato complesso a causa delle riprese col green screen, probabilmente; “The Cry” perché non è stato facile connettermi col mio istinto, rappresentando una madre che perde un bambino senza che io abbia figli, ho sentito quel tipo di pressione. Comunque, studiare il francese è stata probabilmente la cosa più difficile.
Cosa ti fa dire di sì a un progetto? Cosa ti ha spinto a dire di sì a “Wilderness”?
Solitamente è una reazione istintiva a uno script, ma la verità è che io cerco ogni volta di fare qualcosa di diverso perché voglio esplorare diverse psicologie e personaggi. Il mio approccio parte sicuramente da un punto di vista molto psicoanalitico [ride]. Per personaggi come Marie-Andrée in “The Serpent”, ero entusiasta dall’inizio, per esempio. Inoltre, interpretare personaggi realmente esistiti mi spaventa, ma è qualcosa che amo molto.
Suppongo che lo studio e l’analisi psicologica siano ciò che mi coinvolge, e che deriva dalla sceneggiatura; poi, ovviamente, conta molto anche il regista. “Wilderness”, ad esempio, mi ha interessato subito perché è una storia molto sensazionalista, esasperata, pop, per così dire: non avevo mai fatto una serie del genere, in stile “Big Little Lies”. È una sorta di “Gone Girl” che si incrocia con “Promising Young Woman”, perché quel che è interessante di “Gone Girl”, ad esempio, è che la storia è così esasperata e folle, ma se la si considera da un punto di vista concreto, si percorre il viaggio dei personaggi insieme a loro e non lo si mette in discussione, anche se ci si trova in una realtà tesa ed irrealistica. Ho visto molti film di So Yong Kim, la regista, tutto il suo lavoro è davvero crudo, terreno e intimo, e penso che sia stato interessante vedere la storia e lo script mitici di “Wilderness” mescolati al mondo di So e metterli insieme. Inoltre, le location della serie sono Arizona, New York, Galles, Las Vegas, quindi la geografia è così varia, e questa cosa mi intrigava, e poi studiare la storia in uno stato di tensione mi sembrava una prospettiva davvero interessante.
Effettivamente, come hai detto prima, “Wilderness” parla di cose spiacevoli che accadono una dopo l’altra e della lotta per sopravvivere in situazioni estreme. Inoltre, ad un certo punto, una serie di eventi porta il tuo personaggio, Olivia, a liberarsi dal destino di essere come sua madre e a vendicarsi della sua relazione “sbagliata” e tossica con suo marito. Come sei riuscita a connetterti con lei? Sei riuscita a sviluppare un certo grado di empatia?
Sì, ho provato empatia per lei, l’ho capita e ho pensato che suonava tanto come una storia “coming-of-woman”, di crescita, in un certo senso. Olivia è una donna che non si conosce veramente o che non si sta ascoltando, ed è co-dipendente, incerta, si piega a ciò che la società si aspetta da lei, alla vita che pensa di dover vivere. Secondo me, nel corso dei sei episodi, la serie diventa un racconto primitivo della riaffermazione della propria voce, e di sé stessi e dei propri confini, e penso che, specialmente per la mia generazione, questi temi siano ora molto comuni, formativi e basilari. È come se ad un certo punto del suo percorso lei si liberasse e urlasse, “Sentite come ruggisco”, ma deve andare alle profondità più oscure del suo essere per poter uscire dall’altra parte. Tutto questo era davvero ben scritto nella sceneggiatura, ma ovviamente la sfida, che è la parte più folle della serie, è indurre il pubblico a provare empatia e simpatia per un personaggio che fa cose moralmente molto sbagliate. È interessante cercare di far fare al pubblico quel percorso, ed è stata una delle sfide più grandi per me e una delle cose più difficili del making of della serie.
“Indurre il pubblico a provare empatia e simpatia per un personaggio che fa cose moralmente molto sbagliate”.
Oltre al suo lato oscuro, ho notato che Olivia è ossessionata dal bisogno di essere perfetta, specialmente nel suo matrimonio: la perfetta governante di casa, la cuoca perfetta, la compagna di viaggio perfetta, l’amica perfetta, l’amante perfetta. Pensi che i movimenti femminili e sociali attuali stiano cambiando la rappresentazione delle donne nei film?
Sì, penso proprio di sì. Penso che le persone siano disinteressate alla perfezione ora, penso che sia noioso.
Anche guardando la generazione di attori più giovane di me, loro sono una boccata d’aria fresca, se penso a talenti come Florence Pugh, ad esempio, e questo mi riempie davvero di tanta fiducia, da un lato. Il problema è che ti dicono sempre come devi essere, che aspetto devi avere, quindi essere orgogliosamente te stesso sta diventando la cosa più audace e coraggiosa che puoi fare, così come mostrarti per quello che sei, con le tue vulnerabilità, le debolezze, i tuoi punti di forza, tutte quelle complessità. Alle persone adesso interessa questo, non vogliamo più vedere gente perfettamente truccato sullo schermo, per esempio. Vedi “Euphoria”, vedi la pelle e le imperfezioni dei personaggi che non vengono nascoste, e io sono convinta che alla gente non interessi più questa vecchia allure hollywoodiana. Penso che le cose stiano davvero cambiando.
Qual è il tuo punto di vista personale sul bisogno di perfezione delle donne?
Oddio, cos’è la perfezione, e chi ha scritto le regole?
Io ho studiato danza per anni, e quando ero più giovane, specialmente intorno ai vent’anni, provavo un forte bisogno di perfezione che derivava da quella disciplina. Ma la verità è che le persone vogliono solo vedere la realtà.
“Cos’è la perfezione, e chi ha scritto le regole?”
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto su te stessa grazie al tuo lavoro? E cosa hai scoperto di te stessa mentre interpretavi Olivia?
Direi che negli ultimi due anni ho fatto un percorso simile, esclusa la parte del cercare di uccidere mio marito, ovviamente, quello non è il mio caso [ride].
Direi sicuramente che adesso sento che i miei contorni sono meno sfocati, sono diventata molto più me stessa, non so se mi spiego, e quasi mi imbarazza dirlo all’età che ho, ma mi ci è voluto molto tempo per arrivare dove sono. Ripeto, vedo persone che sono molto più giovani di me, in questo settore in particolare, e sono così piena di ammirazione per loro e di stupore. Sai, dopo “The Serpent”, ho fatto una pausa e ho iniziato a interpretare questi ruoli di donne arrabbiate [ride], il che è interessante, col senno di poi. Ho fatto un film chiamato “Klokkenluider” che è stato una deviazione dalla via che stavo percorrendo, in cui interpreto una giornalista sboccata che ha delle battute fantastiche, ed è stato davvero divertente interpretarla, così come “Sandman”.
Con Liv è stato fantastico perché era tutto così intenso anche sul set: quando passi tanto tempo nel personaggio, gli istinti prendono il sopravvento, in un certo senso, e non sei così consapevole, il tuo flusso creativo prende il sopravvento, e ti ritrovi in contemplazione lasciando che le cose accadano ed esplorando la vita nelle vesti di attore. Con So e tutti gli altri registi con cui ho lavorato è stato stupendo, grazie a loro ho capito che posso entrare e uscire dal personaggio, purché mi prepari bene. È stato un ruolo emotivamente stancante, ma adesso penso di conoscermi abbastanza da poter entrare ed uscire dai ruoli che interpreto, sento di sapere che, purché mi prepari bene, la mia gamma emotiva è irremovibile e so come accedervi molto meglio ora.
Parlando di sfide e ruoli impegnativi, qual è stato il momento più impegnativo della tua carriera?
Per fare un esempio, Liv è presente in ogni scena della serie, quindi durante le riprese, l’unica volta in cui ho avuto una pausa è stata quando sono andata al Comic-Con per pochi giorni. In pratica, ho avuto solo tre giorni di riposo per tutto il periodo delle riprese. Ricordo che stavamo girando una scena in cui il personaggio va a Las Vegas e affronta un’esperienza psichedelica e traumatica. È come se venisse svuotata dall’interno, completamente distrutta, arrivando quasi al punto della follia. Dopo questa scena siamo andati al Comic-Con, nel bel mezzo delle riprese di quel momento lì, e io mi sono sentita davvero immersa nel personaggio [ride]. Questo aspetto della serie è molto primordiale e visceralmente potente. C’è qualcosa di primitivo nel percorso che Olivia affronta; sembra emergere come una fenice dalle ceneri. Viene spinta fino ai limiti della follia e questo suona così shakespeariano e allo stesso tempo animalesco. Non si tratta solo della dinamica convenzionale tra marito e moglie in cui uno è il predatore e l’altro è la preda, né si limita alle dinamiche psicologiche. Quando qualcuno viene spinto a un tale livello di angoscia emotiva, emerge l’aspetto più animalesco di lui o lei. Penso che mantenere questa condizione emotiva per i tre o quattro mesi delle riprese, durante l’intero percorso emotivo del personaggio, sia stata un’esperienza davvero pazzesca per me. È stato divertente, insomma.
Qual è un ruolo che non hai ancora interpretato ma che ti piacerebbe interpretare prima o poi?
Al momento, nella mia carriera c’è questo fil rouge delle donne assassine, non so perché, quindi direi che adesso vorrei prendere una pausa dalle storie omicide [ride]. Mi è stato offerto un altro ruolo simile dopo questo e ho dovuto dire di no perché ho pensato, “Un attimo, ma che succede?”. Quello che ho realizzato è che i miei personaggi in “The Cry”, “The Serpent” e “Wilderness” sono accomunati da uno stato di tensione emotiva, da un qualcosa che tengono nascosto, in un certo senso. Ho visto di recente “To Leslie” con Andrea Riseborough, che ho trovato fenomenale, e mi ha fatto riflettere su questo tema, come anche pensare a Victoria, questi personaggi sono liberi emotivamente, quindi mi piacerebbe sicuramente interpretare qualcosa di emotivamente più volatile prossimamente! [ride]
“Quando qualcuno viene spinto a un tale livello di angoscia emotiva, emerge l’aspetto più animalesco di lui o lei”.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Probabilmente riuscire a dire di no.
La tua più grande paura?
Non sono una fan dei ragni [ride]. Ma la mia più grande paura è il tempo.
Cosa significa per te sentirti a tuo agio nella tua pelle?
Significa non essere timidi, non nascondersi, non avere paura di essere visti.
Il libro sul tuo comodino.
Sto leggendo “Hot Milk” di Deborah Levy e poi sul mio comodino ho anche “I giorni dell’abbandono” di Elena Ferrante, la amo tanto. Adoro la serie “L’amica geniale”, non ho ancora visto l’ultima stagione, ma mi piace da morire, e amo anche i libri. Durante il lockdown, sono stata a Ischia e mentre ero lì, mi sembrava di essere in uno di quei romanzi.
La tua isola felice?
La mia isola felice è casa mia, con il mio compagno, e con un libro, tranquilla, davanti al camino.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup by Gabriella Floyd using Fenty Beauty.
Hair by Maarit Niemela.
Styling by Leith Clark.
Assistant styling Alison Flora Carmichael.