Regista e sceneggiatrice, Jessica Swale è un vulcano di idee e progetti, e noi non possiamo che cercare di tenere il passo per non perdercene neanche uno, l’anno scorso il suo cortometraggio “Leading Lady Parts” è arrivato come un terremoto e ci ha fatto ridere dall’incredulità per quello che stavamo vedendo sullo schermo, soprattutto considerando che si trattava di una vera rappresentazione di quello che le donne dell’industria cinematografica si trovano ad affrontare molto spesso.
Abbiamo incontrato Jessica a Londra dove ci ha raccontato del suo primo film in uscita da regista, “Summerland” con Gemma Arterton, dell’adattamento cinematografico della sua pièce teatrale “Nell Gwynn” e della magia che si crea nel dare vita ai personaggi nella sua mente e attraverso la sue penna (o macchina da scrivere magari?).
Continuate a leggere per scoprire di più sul suo processo creativo nello scrivere e dirigere, sul suo punto di vista riguardo i cambiamenti per il meglio che, finalmente, il mondo del cinema sta attraversando e qualche curiosità come uno dei suoi scrittori preferiti e la sua isola felice per scappare dal mondo costantemente connesso.
Da dove iniziare, regia o scrittura, quale è arrivato prima?
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Ho fatto la regista per dieci anni prima di scrivere la mia prima pièce teatrale, ma credo di aver sempre saputo, nel profondo del cuore, di voler raccontare e scrivere storie e quando ora, col senno di poi, ripenso alla mia infanzia e quante volte mi sono messa a inventare storie per tenermi occupata, mi rendo conto che probabilmente sono sempre stata una scrittrice. Anche se, per fortuna, non ho mai condiviso quelle storie con troppe persone.
Che cosa significa il “teatro” per te?
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Penso che il teatro sia la condivisione di qualcosa in un momento preciso che non si potrà mai più ricreare. È interessante per me lavorare sia nel cinema che nel teatro, perché adoro i film per il lavoro sui dettagli che puoi fare e, nei panni di regista, per il controllo che hai sulle modalità di racconto della storia, su come esprimerla e metterla in piedi. Per me, in quanto artista, i film realizzano un qualcosa di più, ma c’è qualcosa che con i film non si può avere, ovvero quel momento dal vivo in cui tutti sono in un’unica stanza testimoni di un unico atto, e c’è qualcosa di veramente magico nella consapevolezza che quello stesso momento non si riprodurrà mai più e che la sera successiva sarà diversa. La vitalità del teatro è davvero eccitante.
Abbiamo la sensazione che l’amore per il palcoscenico a cui abbiamo assistito in Inghilterra è più profondo di quello che si può percepire in Italia, per esempio. A tuo parere, come ha fatto il Regno Unito a mantenere così stretto il legame col palcoscenico nel corso di tutti questi anni?
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Secondo me, avere Shakespeare come il più grande eroe nazionale significa crescere mettendo il teatro su un piedistallo, fin dai primi anni di scuola. Stessa cosa in Russia con la storia, e in America con i film, lì un sacco di ragazzini crescendo diventano esperti di cinematografia perché i grandi eroi della cultura americana sono i divi del cinema, mentre in Russia hanno Tolstoj e gli altri grandi scrittori che si vivono e si respirano, per così dire. Secondo me molto ti entra dentro quando sei giovane e in Inghilterra, nello specifico, andiamo a scuola elementare e conosciamo Shakespeare sin da subito, quindi molti vedono il teatro come qualcosa che è parte del nostro patrimonio nazionale. C’è da dire, però, che secondo me parte del nostro teatro migliore viene dalla tradizione italiana, perché la Commedia dell’Arte del 1600 e del 1700 ha avuto una grossa influenza in Inghilterra. Vi abbiamo rubato tutte le idee, e facciamo finta che erano nostre, scusate… [ride] Ma voi avete fatto tutto per primi e meglio.
“Penso che il teatro sia la condivisione di qualcosa in un momento preciso che non si potrà mai più ricreare”.
Come descriveresti il teatro moderno di oggi?
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Credo stia vivendo un momento di crisi, in un certo senso, perché ora è diventato così facile avere accesso a Netflix che la nostra capacità di concentrazione… come Instagram e Snapchat… a tutti piace “breve”, e il teatro è per natura una forma d’arte lunga e che richiede alle persone di prendersi l’impegno di sedere in poltrona per una serata intera. Questo è il teatro tradizionale, perlomeno. Mi emoziona il pensiero che ci siano persone in grado di accogliere la sfida, ma penso siano altrettanto degne di lode quelle persone in grado di raccontare una vera e propria storia lunga; ci stiamo sempre più affezionando a questi drammi brevi che sono molto moderni, ma secondo me il nostro cuore ci dice qualcosa che invece è molto antico: nel cuore, vorremmo che qualcuno ci raccontasse una storia davvero bella, quindi se uno scrittore dovesse riuscire a scrivere una pièce lunga e a non far andare via nessun membro del pubblico, allora sarebbe una vera conquista.
Ma, allo stesso tempo, chi si occupa di teatro e di scrittura per il teatro deve tenere a mente che non è più l’unica forma di arte drammatica, quindi se vuoi che la gente si presenti, dev’essere di qualità e dev’essere interessante. Penso che una delle difficoltà con cui un qualunque tipo di artista deve fare i conti sia che la gente è convinta che lui o lei sia in grado di fare qualunque cosa; la nostra è una cultura secondo cui chiunque può diventare una popstar, basta crederci, perché è quello che fanno vedere in tv, chiunque può diventare un’attrice, basta un colpo di fortuna… Ma la verità è che serve il talento e serve lavorare sodo. Trovo che le persone, quando si parla di scrittura, spesso pensano “oh sì, scrivo e poi diffondo quello che ho scritto”, quando, in realtà, per scrivere qualcosa di buono devi lavorare e lavorare e lavorare su una bozza e scriverai cento bozze, perché ad ogni rilettura cambi una parola e modifichi un pezzettino qua e là e dovresti metterci moltissimo tempo se vuoi che la gente si sieda e guardi. Non biasimo la gente che trova la maggior parte del teatro noiosa, perché a volte non è buono abbastanza.
“Chi si occupa di teatro e di scrittura per il teatro deve tenere a mente che non è più l’unica forma di arte drammatica”.
In che modo un personaggio prende forma nella tua mente?
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Oh, bella domanda! Dipende molto dai casi. Credo che l’unico modo in cui riesco a conoscere davvero a fondo un personaggio è scriverlo in qualcosa. Mi immagino una persona, ma finché non inizia a parlare non la si conosce davvero, perché non si sa cosa dirà, e anche quando penso di conoscerla, quando scrivo spesso e regolarmente, la vedo andare in una direzione che non mi aspettavo, ed è allora che capisco che c’è della magia, sotto; per quanto mi riguarda, io non voglio poter pianificare quello che succede alla fine, prima di aver iniziato, perché come potrei saperlo? E se io posso prevederlo, allora possono anche gli spettatori. Adoro quando sono nel bel mezzo della scrittura di una scena e penso di sapere quello che sta succedendo e poi uno dei personaggi fa qualcosa di davvero sorprendente e fuori dal personaggio, ed è divertente perché molti, quando ti insegnano a scrivere, ti inculcano ragionamenti del tipo “che genere di persona è?” o “quel personaggio non direbbe questa cosa”, ma la verità è che le persone sono imprevedibili. Tutti i miei amici, nella vita reale, fanno cose che sono fuori dal personaggio ed è questo che le rende interessanti e vere. Quindi secondo me è da qui che dipende la validità di una produzione scritta.
“Credo che l’unico modo in cui riesco a conoscere davvero a fondo un personaggio è scriverlo in qualcosa”.
Cosa ci puoi raccontare a proposito di “Summerland”?
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“Summerland” è il mio preferito tra i lavori che ho realizzato, perché sono stata molto fortunata a livello di come si è sviluppato. Ho ricevuto un premio, una borsa di studio, dalla BAFTA, per scrivere una sceneggiatura originale, ma non mi era concesso di lavorare su qualcosa che avevo già per le mani, avrei dovuto cominciare da zero, da un foglio di carta vuoto. Ci avevano chiesto quali temi volevamo esplorare, che tipo di cinema volevamo fare, e così il tutto è arrivato molto, molto lentamente e adesso è un film.
Parla di magia e immaginazione e dei meno fortunati e della speranza, e dell’importanza di essere mentalmente aperti. La protagonista è una donna che vive da sola ed è molto arrabbiata con il mondo, siamo negli anni Quaranta, e tutti pensano che sia una strega o una specie di artista, perché c’è la guerra e lei desta sospetti per il fatto che vive da sola e le donne che vivono da sole e che non hanno un marito sono considerate strane. Poi, si ritrova in casa uno sfollato, consegnatole perché lei se ne prenda cura, ma non vuole prendersi cura di questo bambino; lui, però, le fa mettere in discussione le sue convinzioni, perché lei è una studiosa del folklore, quindi il suo mestiere è quello di analizzare miti e leggende e poi sfatarli, quindi dice cose del tipo “in questo mito i giganti esistono” o “in questo mito molti marinai si sono schiantati contro le rocce perché vedevano di continuo isole galleggianti nel cielo” e si tratta di un mito o di una leggenda particolare e lei capirà qual è la scienza in grado di spiegarlo, chiedendosi se si tratta della rifrazione, per esempio, o se è un miraggio come quelli che capitano nel deserto. Dunque, lei non crede nella magia e ha passato la vita a cercare di confutare la magia e poi questo ragazzino la porta a chiedersi se invece si è sempre sbagliata. È stato davvero bello lavorarci su.
Hai adattato la tua pièce teatrale, “Nell Gwynn”, in un film. Ha mai temuto, durante il processo, di perdere l’essenza della pièce?
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C’è sempre quel timore, secondo me, con ogni progetto, soprattutto se basato su qualcosa di cui sei soddisfatto; io ero molto soddisfatta della pièce e ho pensato “potrei fare le cose per bene e migliorare il tutto, ma se invece faccio peggio, o se in forma di film non funziona?”. Credo che adattare una storia sia più complicato che inventarne una da zero, e la difficoltà sta nel tentativo di far combaciare due mezzi di comunicazione diversi, ma, in verità, il fatto che io abbia lavorato con persone fantastiche, con professionisti esperti del fare film, ha reso il processo molto interessante con tanto di ritagli e rimodellamenti. Ho iniziato con l’intenzione di attenermi il più possibile alla pièce e invece, col passare del tempo, ciò che mi è piaciuto di più è stato gettare via la pièce e rimpiazzarla con altro durante i meeting e adesso, arrivati a questo punto, vorrei poter tornare indietro e riscrivere la pièce perché ho scoperto cose sulla storia che ora preferisco nella loro versione cinematografica. Inoltre, dal punto di vista culturale le cose sono cambiate, soprattutto con la diffusione dei movimenti Time’s Up e MeToo: io sono membro attivo di Time’s Up, quindi ho passato buona parte dello scorso anno a parlare con attori e attrici delle loro esperienze e di cosa si prova ad essere una donna in un mondo dominato dagli uomini, e ciò ha influenzato profondamente la mia scrittura per la versione cinematografica, e la storia adesso è più incentrata sull’emancipazione della protagonista come attrice e il film è un po’ più femminista e penso che sia una svolta geniale e mi piacerebbe poter tornare indietro e modificare la pièce in modo da incentrarla più su quell’aspetto e meno sulla storia d’amore.
“Adattare una storia sia più complicato che inventarne una da zero, e la difficoltà sta nel tentativo di far combaciare due mezzi di comunicazione diversi”.
A proposito di “Leading Lady Parts”, è vero che l’hai scritto in una sola notte?
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Sì, è vero, ma diciamo che è parzialmente dipeso dalle attrici con cui abbiamo collaborato, perché la quantità di persone che ha detto di voler partecipare è stata sconvolgente, persone fantastiche, e quindi ci siamo ridotti a impacchettare tutto e scegliere un giorno e abbiamo usato solo le persone disponibili in quel giorno e poi io ho riscritto alcuni pezzi a seconda di chi era disponibile.
Era un progetto sul punto di venir fuori e che aveva solo bisogno di un’ultima spinta?
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No, non ci avevo mai pensato prima, ma le esperienze delle donne che hanno partecipato a quel film sono qualcosa con cui ho molta familiarità, perché la maggior parte delle mie amiche sono attrici e sono state tutte vittime di quel tipo di comportamento. Sono esperienze che ho vissuto anche io nei panni di scrittrice: persone che mi hanno chiesto di riscrivere qualcosa per renderla più convenzionalmente gradevole; oppure capita che quando invece vuoi che il personaggio femminile sia una ribelle, la gente si preoccupi che possa non essere credibile, per esempio, e tu ti chiedi “ma perché me lo chiedi? Non mi porresti questo tipo di dubbi se stessi scrivendo una parte maschile”.
Un uomo, in un film, può essere sia l’eroe che il cattivo, mentre è molto difficile che una donna reciti la parte della cattiva e piaccia alle persone. Non dovrebbe essere così, e non penso che lo sia, ma quando le persone investono tanti soldi nella realizzazione di un film, è un dato di cui si preoccupano.
“Un uomo, in un film, può essere sia l’eroe che il cattivo, mentre è molto difficile che una donna reciti la parte della cattiva e piaccia alle persone”.
Ti è capitato di vedere, recentemente, serie tv o film con personaggi femminili che secondo te rappresentano quel tipo di donna che è al contempo la ribelle, l’eroe e il cattivo, per riprendere le tue parole?
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Oh, bella domanda! Credo ci siano molte più donne con una gran confusione nella testa al centro delle storie di adesso, quindi, per esempio, il personaggio di Saoirse Ronan in “Brooklyn” è sopraffatto dai dilemmi, ma noi facciamo comunque il tifo per lei. Penso sia molto più complicato simpatizzare con qualcuno quando lo classifichi come antipatico, quindi, per esempio, Frances McDormand in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” interpreta un personaggio fantastico, ma anche così insolito, perché in alcuni momenti del film è davvero crudele e dice cose davvero cattive, ma è una tale forza della natura che riesce a farla franca; però, secondo me, se quella parte fosse stata scritta per una ragazza di 25 anni, non avrebbe funzionato, perché c’è quel qualcosa di quando sei più matura… siamo abituati all’idea della donna matura come una più o meno sempre arrabbiata o acida o strega; se hai dai 50 anni in su, sei protagonista di un sacco di storie sulle difficoltà di attenersi a degli alti principi morali, film come “Saving Mr. Banks”, che parla di P. L. Travers che ha creato Mary Poppins, e ci sono un sacco di esempi di donne dai 50 anni in su che sono divertenti perché sono cattive.
Ma, in “Summerland”, per esempio, il personaggio di Gemma Arterton ha solo 30 anni ed è tutt’altro che gentile con il bambino, e abbiamo davvero dovuto sforzarci con molta gente per far capire che va bene non essere sempre simpatici e carini, perché quel personaggio non dovrebbe esserlo, perché è interessante e, secondo me, se fosse un personaggio maschile, la gente non si farebbe quel tipo di problemi, e invece noi ci aspettiamo sempre che una giovane donna, in un film, sia bella e buona, o provata e vulnerabile, o arrabbiata e sexy; però, non puoi essere arrabbiata e vulnerabile senza essere sexy e fare la protagonista, almeno così è stato fino ad ora.
“Ma, in ‘Summerland’, per esempio, il personaggio di Gemma Arterton ha solo 30 anni ed è tutt’altro che gentile con il bambino, e abbiamo davvero dovuto sforzarci con molta gente per far capire che va bene non essere sempre simpatici e carini…”
Tra quelli che hanno collaborato al cortometraggio “Leading Lady Parts”, tutti quanti sono saliti a bordo immediatamente e c’è stato un momento in cui avete condiviso tra voi esperienze personali?
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Tutti sono saliti a bordo immediatamente. È stato straordinario, abbiamo inviato il copione a tantissime attrici e hanno tutte detto di sì, perché tutti quanti credono nell’importanza di questo messaggio, e abbiamo atteso a lungo per poterlo divulgare. Ma la parte interessante è stata il weekend in cui abbiamo girato nella green room, quando tutti quanti ci siamo seduti a parlare delle nostre esperienze reali e le esperienze di tutti erano vicinissime a quelle raccontate nel film, e niente è stato ingigantito.
La cosa effettivamente interessante del processo è che, in origine, io avevo offerto a Wunmi Mosaku, che interpreta il personaggio che viene scambiato per la ragazza del caffè, la parte in cui Catherine Tate dice “potresti essere un po’ più bianca?”; Wunmi mi ha detto “adoro davvero questo film, voglio davvero farne parte, ma sarò sincera con te, non riuscirei nemmeno ad entrare nella stanza, perché il colore della mia pelle suggerisce che non potrei mai essere considerata per recitare il ruolo della protagonista in un film convenzionale”. Ho trovato le sue parole così sconvolgenti e così tristi e le ho chiesto “quale sarebbe la tua esperienza?” e lei ha detto “l’unico caso in cui potrei riuscire ad ottenere una parte principale sarebbe se si trattasse di un ‘black movie’ davvero specifico, per come stanno le cose ora” e io le ho detto “tu intanto fai il film, io potrei scriverti una parte che ti dia la possibilità di comunicare questo messaggio”. È un messaggio che dovremmo diffondere, perché io per esempio sono stata così ingenua da non rendermi conto, fino a non molto tempo fa, tra il razzismo nei film e le questioni e il problema della diversità, che c’è un’enorme differenza a livello di percezione tra chi ha la pelle più chiara ed è mulatto, per esempio, e chi ha la pelle molto più scura; si è parlato molto sul web, di recente, del fatto che Rihanna abbia creato una linea di trucchi per tutti i tipi di pelle, mentre qualcuno con una pelle più scura potrebbe non essere considerato nella posizione di fare una cosa del genere; tra l’altro, molte donne famose, come le donne di colore dell’industria pop, hanno la pelle leggermente più chiara della media, quindi è una questione davvero complessa e io sono contenta che Wunmi abbia tirato fuori l’argomento, perché avremmo potuto farvi riferimento nel film, e il bello di Time’s Up è che ci infonde la speranza di poter fare molti più film che esplorino tutti quei temi.
“…la parte interessante è stata il weekend in cui abbiamo girato nella green room, quando tutti quanti ci siamo seduti a parlare delle nostre esperienze reali e le esperienze di tutti erano vicinissime a quelle raccontate nel film, e niente è stato ingigantito“.
Adesso che hai girato il tuo primo lungometraggio, hai vissuto le solite vecchie difficoltà legate al genere, o hai percepito un cambiamento?
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Credo che le cose stiano cambiando. Nel corso della mia carriera, sono stata testimone sistematica di forme di discriminazione o di convinzioni riguardo cosa sarei stata in grado di fare o che tipo di lavoro la gente pensava che volessi fare, e credo si tratti in parte di gente più in là con gli anni. Uno dei problemi con cui dobbiamo fare i conti è che alle donne viene insegnato sin dall’infanzia che non va bene comportarsi in modo audace e celebrare o raccontare ad altre persone i propri successi e le proprie capacità, quindi, in un colloquio è facile che un uomo dica “sì, certo che posso fare questo lavoro” e una donna sia molto più esitante e abbia l’impressione di mettersi troppo in mostra anche quando non è così, perché essere capaci ed essere piacenti sono inversamente associati per le donne, ma non per gli uomini.
Diversi studi hanno dimostrato questa cosa, e io stessa ho imparato che devo trovare il coraggio di dire “questo è il film che voglio fare e so di essere in grado di farlo e ho bisogno della vostra fiducia e lo realizzerò” e credo che qualche hanno fa avrei avuto difficoltà a dire una cosa del genere senza una qualche forma di scusa allegata.
Una curiosità: qual è il libro sul suo comodino?
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Ho appena finito di leggere “L’educazione” di Tara Westover, che parla della crescita di una donna e di come l’istruzione l’ha salvata, il che è incredibilmente affascinante. Sto leggendo un altro libro, adesso, che è stato sulla mia libreria per anni, “Bambini nel tempo” di Ian McEwan, uno dei miei scrittori preferiti. Sto anche per incominciarne un altro intitolato “The Happiness Hypothesis”, un libro interessante sul tema della positività.
Qual è il suo font preferito?
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Font? Mi piacerebbe molto scrivere con una macchina da scrivere.
Una bella pièce teatrale che tutti dovrebbero vedere, secondo te?
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La mia pièce dell’anno si chiama “The Jungle” e parla dei rifugiati a Calais. È una conquista incredibile ed una chiamata alle armi rivolta a tutti, affinché si faccia qualcosa per aiutare e si entri a conoscenza di ciò che sta succedendo; affronta anche il tema dell’ideale dell’uomo bianco o dell’uomo britannico che va ad aiutare i poveri rifugiati e ne viene fuori come il loro salvatore, che ha fatto dono di sé stesso ed è un essere superiore. Ho lavorato spesso con un’ONG e abbiamo organizzato del teatro sociale in Bosnia, in Erzegovina e in altri paesi devastati dalla guerra e una delle questioni più complicate per noi riguardava sempre la complessità politica del fatto che un mucchio di occidentali privilegiati spuntano all’improvviso e cercano di aiutare, qualunque cosa significhi, ma era complicato anche assicurarsi di aiutare le persone in una maniera sostenibile che desse loro la possibilità di sviluppare nuove arti piuttosto che fare affidamento sull’esterno o credere che fossimo esseri straordinari mandati dal Paradiso per fare qualcosa di grandioso per beneficienza, non è così che stanno le cose. Quindi, “The Jungle” esplora questo tema in modo davvero articolato, il che ritengo sia geniale, e gli attori sono fantastici.
Qual è la sua isola felice?
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Ne ho tre: una è il tappetino per lo yoga, in qualunque posto si trovi; la seconda è Brockwell Park, dove passo molto tempo con il mio fidanzato, a prescindere da come sia il tempo, ci piace osservare come cambia il parco col passare dei mesi; la terza è casa di una mia amica vicino Firenze, perché c’è tanta pace e bellezza ed è il mio posto preferito e il telefono non prende, quindi puoi davvero fuggire da tutto e tutti. Amo l’Italia, ho avuto la fortuna di lavorarci per un po’ e farei qualunque cosa pur di poterci ritornare in maniera regolare, è tra i posti del mondo con il patrimonio culturale più ricco e con le persone più gentili ed interessanti e col cibo migliore.