Un documentario crudo, realistico, intenso, toccante, sensibile, e una lista infinita di altri aggettivi.
Con “Life of Crime 1984-2020”, il regista Jon Alpert ha ancora una volta centrato il punto. Attraverso le vite di Rob, Freddie e Deleris, ci ha mostrato quanto può essere complicata la vita per chi vive alla porta accanto, quanto le nostre priorità in quanto società possano essere fuori posto e come ciò possa portarci fuori strada.
Non nasciamo criminali, ma possiamo diventarlo, e vivere una vita di crimini una volta abbandonati, soprattutto da un sistema che continua a voltare le spalle a chi è in difficoltà, a chi è e non dovrebbe essere senza speranza.
Ecco la nostra intervista con Jon sul viaggio incredibile che è stato il realizzare questo film.
Ho visto il documentario ieri sera. È stato impegnativo, sono ancora un po’ scossa. Sai raccontare storie in un modo straordinario, ti rimangono dentro e ti fanno pensare. Com’è nato il tutto? Dove e come hai incontrato Freddie, Rob e Deliris?
Quando abbiamo avviato questo progetto, non avremmo mai potuto immaginare che sarebbe venuto fuori così. I primi tempi, siamo stati vittime di crimini, il mio motorino è stato rubato due volte in una settimana, altra gente ha subito furti in appartamento, e così via. Chi era il responsabile? Perché noi siamo stati cresciuti con l’idea che se vai in un negozio devi pagare per quello che compri, e non rubare, quindi volevo capire cosa succedesse nella testa delle persone che erano praticamente dei criminali a tempo pieno.
Ci hanno presentato Rob, Freddie e Deliris, e io ho chiesto se potevo seguirli e, all’inizio, non avevo idea di come sarebbe potuta finire, è stato come lanciarci senza paracadute sperando di cavarcela lo stesso. Ero affascinato da quanto fossero intelligenti e, fatta eccezione per Mike, da quanto fossero affabili, e da quanto fossero diversi, come lo sono le persone che non commettono crimini, e da quanto fossero bravi a commetterli. All’inizio non sapevo che fossero tossicodipendenti, e non riuscivo a capire come la droga potesse assumere il controllo della vita delle persone e condizionare l’intera comunità. Avrebbe dovuto essere un breve estratto di cronaca, e invece sono diventati 36 anni.
Quando vi siete resi conto che ci sarebbe voluto così tanto? C’è stato un momento in cui hai detto, “Okay, forse mi ci vorrà più tempo del previsto”?
È stata una serie di cose. Prima di tutto, la natura violenta di alcune attività che non ci aspettavamo, il fatto che non pensavo che avremmo potuto raccontare in maniera adeguata una storia davvero utile in un breve periodo di tempo, quindi abbiamo iniziato a trasformare il tempo in un fattore chiave della narrazione della storia. Tuttavia, a volte, dobbiamo lasciare che il tempo ci mostri le cose, e ci insegni le cose.
È stato facile avere a che fare con loro? Erano aperti a fare tutto questo quando li hai conosciuti?
Direi di sì, sorprendentemente. Credo di avergli mostrato rispetto in quanto persone, per le loro abilità e ingenuità. L’hanno detto anche nel film, erano arrivati a rendersi conto che gran parte della loro vita era diventata distruttiva, auto-distruttiva, distruttiva per le loro famiglie, distruttiva per la loro comunità. Sapere che altra gente l’avrebbe visto, gli dava l’impressione di star facendo qualcosa di positivo. Anche io ne sono convinto, ed è per questo che abbiamo fatto il film. Lo credevano anche loro, e si vede da ciò che hanno condiviso con la telecamera, e sul pubblico ha avuto un effetto straordinario.
“…A volte, dobbiamo lasciare che il tempo ci mostri le cose, e ci insegni le cose”.
“…Gli dava l’impressione di star facendo qualcosa di positivo”.
Si nota anche l’amicizia che è nata tra voi con questo progetto. Durante le riprese, vi tenevate in contatto? Quando avete deciso di ricominciare a girare? Immagino che ci fosse molto più materiale di quello che vediamo.
Il film è di HBO, e una delle cose interessanti è che HBO ti dà tutto il tempo che ti serve per la produzione, è da sempre uno dei supporti più importanti che offrono ai filmmaker con cui lavorano. Sin dall’inizio erano interessati a raccontare la storia e ci hanno concesso di lavorare sul film per più di 40 anni, quindi HBO ha fatto parte della squadra sin dall’inizio, a differenza di “Cuba and the Cameraman”. Questo è uno dei motivi per cui quasi tutto quello che ho fatto l’ho fatto con HBO.
Inoltre, mia figlia è cresciuta aiutandomi a fare questo film, conosce tutti quanti sin da quando ha iniziato a lavorare con me al progetto, ovvero da quando aveva 9 anni: è cresciuta con questo progetto, nelle famiglie che fanno parte del film, le scene inedite non sono visionabili, ma lei è presente in tutte quante, quindi è stato un insolito insieme di famiglie. Mi è capitato di perdermi alcuni compleanni dei miei familiari, ma non sono mai mancato ai compleanni di Rob, Freddie e Deliris e dei loro bambini, questo è un altro aspetto importante del progetto. Ciò che non si vede è che, per ogni crimine che ho filmato, 10 volte li ho portati in rehab e ho cercato di convincerli a fare la cosa giusta. Non li abbiamo incoraggiati a fare niente di male, hanno fatto cose brutte per necessità, a volte per disperazione, ma noi li abbiamo sempre incoraggiati a fare la cosa giusta, e ogni volta che lo volevano, dato che negli Stati Uniti è difficile entrare in rehab, soprattutto se sei povero, noi li accompagnavamo, e se quelli del rehab li allontanavano, io chiamavo il centro e li minacciavo. Naomi [Mizoguchi] è l’assistente al montaggio, quindi aveva tra le mani centinaia di registrazioni in una dozzina di formati diversi, e doveva cercare di capire come mettere tutto insieme e consultarsi con gli altri. La sfida è stata raccontare tutto questo in due ore, non so se abbiamo fatto il meglio che potevamo, ma ad un certo punto ho anche cercato di convincere HBO a farne una serie in 5-6 parti, perché avevamo così tanto materiale, ma loro volevano qualcosa di cinematografico, quindi alla fine abbiamo fatto questo film.
Montavate man mano che giravate?
Sì, sempre. HBO ha mandato in onda altri due documentari realizzati precedentemente, uno girato il primissimo anno, in cui eravamo filmmaker molto primitivi, e facevamo un cinema energico, ma non sono sicuro che fosse grandioso. È una cosa abbastanza leggendaria quella che abbiamo fatto, perché quando l’abbiamo girato, succedevano tutte quelle cose in diretta, e non credo che nessuno avesse mai fatto una cosa del genere prima di allora; ora sono passati 40 anni, quindi immagino che questo genere di cose sia stato rappresentato da altre persone, oramai, ma ai nostri tempi, siamo stati probabilmente i primi.
“Ciò che non si vede è che, per ogni crimine che ho filmato, 10 volte li ho portati in rehab e ho cercato di convincerli a fare la cosa giusta”.
Hai detto che stavi anche cercando di aiutarli, e mai di incoraggiarli, ma c’è mai stato un momento del film in cui hai pensato, “è troppo da filmare, è troppo da vedere”, da un punto di vista emotivo?
Dal punto di vista emotivo, la morte di Rob, Freddie e Deliris è stata dura, e quella di Deliris è stata quella più inaspettata. Se avessi saputo che questa sarebbe stata la fine che la vita vera ci avrebbe riservato, non so se sarei andata avanti fino alla fine. È stato devastante, non era la storia che pensavo di raccontare, perché, quando Deliris è “resuscitata” la prima volta, e si è ripresa ed è diventata un’importantissima forza nella comunità, ho interrotto le riprese e sono caduto in depressione a causa della storia e non volevo lavorarci più su. Poi, un giorno, Deliris chiama – e noi tutti pensavamo che fosse morta, e si vede nel film che l’ultima volta che ci eravamo visti in hotel, lei pesava 27 kg, e nessuno pensava che sarebbe sopravvissuta – e mi fa, “Ciao Jon, sono Deliris,” e io dico “Chi parla? Non prendermi in giro per favore, Deliris è mia amica”, e lei mi risponde, “No, Jon, sono Deliris,” e io le faccio, “Oh! Sei Deliris, e non sei morta!”. Lei dice, non solo non sono morta, ma sono anche pulita da 40 anni, 3 mesi e 7 giorni, e vorrei che tu venissi da me con la telecamera perché voglio che la gente veda tutto questo, questa è la storia che voglio raccontare, che sono riuscita a superarla”. E ci è riuscita davvero, fino alla pandemia. È stata bravissima, è andata agli incontri tutti i giorni, vedeva uno psichiatra, aveva uno psichiatra di gruppo, ma con la pandemia non ha potuto fare più niente e, in pratica, l’abbiamo abbandonata a livello di servizi pubblici. Io la sentivo una volta alla settimana, si era fidanzata, si doveva sposare. È andata in spiaggia, in piena pandemia, è tornata a casa, l’ho chiamata la domenica e non mi ha risposto, l’ho chiamata il lunedì e non ha risposto, l’ho trovata morta sul pavimento. Non è stato bello. Ma si vede il coraggio che aveva, e il coraggio di Rob e Freddie nel raccontare la loro storia.
“È stato devastante, non era la storia che pensavo di raccontare…”
La morte di Freddie e quella di Rob sono devastanti, ma poi vedi che Deliris c’è ancora, e provi un senso di speranza. Non siamo fatti per stare soli, in quanto esseri umani, abbiamo sistemi di supporto, le nostre famiglie, i nostri amici, e anche il paese in cui viviamo dovrebbe far parte di questo sistema di supporto, e pensavo che sarebbe stato un bel finale per il film, ma poi si vede l’arrivo del Covid, e tutto che viene chiuso, e la fine che fa Deliris è un pugno allo stomaco, non me l’aspettavo. Immagino che ti abbia spezzato il cuore. Quando la vediamo ricevere tutti i premi per le belle cose che ha fatto per la comunità, pensavo che quella sarebbe stata la fine del film…
In realtà, avrebbe dovuto avere un finale ancora più grandioso. Il sindaco aveva organizzato un “Deliris day”, in cui avrebbe dovuto darle le chiavi della città e fare una sfilata nel quartiere; quella avrebbe dovuto essere la fine del film, ma non ci siamo mai arrivati, ed è triste perché il sindaco aveva capito che era un vero eroe, e noi tutti volevamo essere di ispirazione per l’intera comunità. Direi che siamo riusciti a rappresentare cos’è la vita vera, ma non siamo riusciti a dare alla vita vera un lieto fine.
“Direi che siamo riusciti a rappresentare cos’è la vita vera, ma non siamo riusciti a dare alla vita vera un lieto fine.“
Hai realizzato questo documentario in un arco di tempo di più di 40 anni. Hai notato cambiamenti nel sistema di supporto, anche a livello governativo, negli Stati Uniti?
No, è peggiorato. Ci sono stati ulteriori tagli. Negli Stati Uniti, investiamo in cose strane, sempre più strane, e molte generazioni fa, l’obiettivo era quello di “investire in infrastrutture e costruire il Paese; investire nelle scuole e costruire le persone”, ma non lo stiamo facendo, in questo momento ci stiamo solo facendo la guerra. E se ci preoccupiamo di questi scontri e di queste assurde divisioni nel nostro Paese, non riusciremo mai a concentrarci sulle energie e risorse di cui abbiamo bisogno per risolvere la situazione; e ci porteremo dietro tutto questo per un altro paio di generazioni, perché il Paese, nel complesso, è molto ricco, quindi abbiamo questa ricchezza residua, abbiamo sfruttato tutti nel mondo per centinaia di anni e risucchiato tutto negli Stati Uniti, mentre quelle cose le stanno risucchiando dall’esterno, le risorse sono concentrate in pochissime mani e le prospettive non sono grandiose.
Cosa vorresti che cambiasse nei prossimi 10-20 anni?
C’è un gran numero di brave persone negli Stati Uniti che stanno cercando di fare la cosa giusta; dovremmo davvero investire il denaro nelle scuole e non nelle carceri, dovremmo investire il denaro in vari tipi di terapie farmacologiche e, soprattutto, aiutare la gente a trovare qualsiasi lavoro che doni loro orgoglio e struttura nella vita. Quando Rob, Freddie e Deliris avevano un lavoro, stavano bene, mentre il giorno in cui hanno perso il lavoro… rischiavano di fare una brutta fine.
Capisco che il Paese non può investire in tutto quello di cui abbiamo bisogno, non è realistico, ma se rivediamo un po’ le nostre priorità, sarebbe un bene. Rob, Freddie e Deliris erano persone molto interessanti, con un potenziale incredibile, e se avessero avuto la possibilità di investire la loro creatività in qualcosa che fosse un po’ più positivo e meno distruttivo, sarebbe stato fantastico per loro e per noi.
Una delle ragioni per cui so che investire nelle prime fasi della vita è utile, è il fatto che lo facciamo nei nostri centri di riabilitazione, infatti dal 1978 abbiamo un programma che insegna ai giovani a fare film, e anche durante la pandemia abbiamo trovato un modo per organizzare il tutto da remoto, e 5 dei nostri studenti hanno realizzato dei film sulle loro vite durante il Covid. Questi ragazzi vengono da famiglie povere, fanno anche lavori pericolosi, e le loro madri e i loro padri si sono presi il Covid, ed erano nella stanza a fianco a tossire. Loro ci hanno fatto dei film. Sono stati molto coraggiosi. Ed HBO li ha trasmessi, è stata la prima volta che dei liceali vedessero qualcosa realizzato da loro trasmesso su una delle reti principali.
Il 100% dei nostri ragazzi va al college, e provengono tutti da famiglie simili a quelle di Rob, Doloris e Freddie. E se hai le opportunità, possono capitarti belle cose. Quindi, so che così funziona.
“Dovremmo investire il denaro in vari tipi di terapie farmacologiche e, soprattutto, aiutare la gente a trovare qualsiasi lavoro che doni loro orgoglio e struttura nella vita”.
“Il 100% dei nostri ragazzi va al college, e provengono tutti da famiglie simili a quelle di Rob, Doloris e Freddie. E se hai le opportunità, possono capitarti belle cose. Quindi, so che così funziona”.
Posso farti una domanda? Cosa ne pensi della colonna sonora?
La prima volta in cui ho sentito l’allegro, ho avuto l’impressione che tutto fosse più vero, non serve la musica per enfatizzare la tristezza di quello che stai guardando, le immagini parlano da sé, e inoltre, come hai detto tu, Rob, Freddie e Deliris sono persone intelligenti, sono umani, e la musica aggiunge un altro spessore a tutto ciò.
Sai, sei la prima persona con cui parlo del film al di fuori della mia cerchia, è per questo che te lo chiedo. In post-produzione, usavamo musiche già edite, e se la scena era triste, la musica era triste. Avevo un gran rispetto per il compositore [Residente], e l’ho contattato per capire se potesse lavorare al film, non aveva mai lavorato in nessun film prima d’allora, ma aveva fatto due film lui stesso. Nel mondo della musica, è una superstar, ha vinto 4 Grammy e 27 Latin Grammy —più di qualunque altro artista latino, così ha dato uno sguardo al film e ha detto, “sì, mi piacerebbe farlo” ed io ero così felice. Poi, ci è arrivata la sua musica, non ce l’aspettavamo così, e quando c’era una scena triste, la musica non era necessariamente triste, e lui mi disse, “Jon, tu metti il sale sui cetriolini? Metti lo zucchero sul gelato? Non è a quello che serve la musica, la musica deve aggiungere qualcosa in più alla scena”. Così ha iniziato a inviarmi tracce e aggiungere questa dimensione extra, e a me piaceva molto. Quindi, sono curioso di conoscere la reazione della gente. Non è la solita colonna sonora da documentario.
Ultima domanda: cosa puoi svelarci sul tuo prossimo progetto?
In questi ultimi 4 anni, ho lavorato ad un film molto insolito sul cambiamento climatico: io sono un grande appassionato di hockey, ma non un gran giocatore, sono cresciuto giocando a hockey all’aperto, cosa che ora non si può fare dove sono cresciuto io, perché fa troppo caldo, e lo stesso vale per il resto del mondo; ho un amico che è il più premiato giocatore di hockey del mondo, è russo, ha vinto tre Stanley Cup, 5 medaglie d’oro alle Olimpiadi, eccetera, e mi dice sempre questa cosa, che è cresciuto pattinando sui laghi. Quindi, stiamo facendo questo film chiamato “The Last Game”: filmiamo partite di hockey in cima all’Himalaya, dove non ti aspetti che si giochi a hockey, ma in realtà si fa, filmiamo partite in Kenya, sempre dove non ti aspetti che giochino a hockey. Poi, i giocatori ci portano in giro per le loro comunità e, per esempio, in Kenya tutti gli animali stanno morendo a causa del cambiamento climatico, è molto triste. Tutte le comunità nelle campagne la cui vita dipende da questo ecosistema stanno collassando, e tutti quanti si stanno spostando negli slum, il che ha cambiato totalmente l’aspetto del Paese. In Finlandia, che è un posto in cui l’hockey è molto diffuso, il 50% delle renne sono morte nel giro di un anno a causa del cambiamento climatico. Quindi, le renne di Babbo Natale sono morte a causa del cambiamento climatico.
Siamo quasi a metà di questo film. Il papa è il capitano onorario della nostra squadra.
Photos by Luca Ortolani.