Nello scenario magico e mozzafiato di una mattina veneziana, a proprio agio negli adorati abiti di lino tanto quanto nel confidarci le sue passioni di cinema e di vita, Joshua Close è stata la chiacchierata migliore e più rilassante che potessimo desiderare nel mezzo della frenesia della nostra Mostra del Cinema.
La sua “semplice eppure elegante” interpretazione di Paul nel film “Monica” di Andrea Pallaoro è stata una delle chiavi del grande potere di questa storia, e un’esperienza rivoluzionaria per Joshua. Della nostra chiacchierata stimolante e divertente sull’importanza di un team visionario per portare sullo schermo un racconto autentico, una cosa mi è rimasta particolarmente impressa nella mente e nella memoria: la prova di quanto siamo sovraccaricati di parole e voci, nel cinema e nella vita.
Ma “Monica” racconta una storia di tutt’altro tipo, che lascia alle immagini, ai gesti, agli sguardi e alla musica occupare il posto di dialoghi non necessari. Come dovrebbe essere, a volte, anche nella realtà: quanto bello sarebbe se tutti ci ballassimo sopra per rimpossessarci dei nostri corpi?
“Monica” mi ha un po’ spezzato il cuore, ma mi ha anche dato speranza: ho particolarmente apprezzato il modo in cui il tema della transizione di genere, ma anche quello del cancro, sono stati sviluppati e svelati lentamente, nessuno ha mai fatto niente di simile prima. Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura?
La prima cosa che ho notato è stata quanti pochi dialoghi ci fossero.
È così raro leggere qualcosa che non abbia bisogno di spiegare quello che sta succedendo, coinvolge gli spettatori ad un livello a cui non siamo più abituati, perché adesso siamo abituati ad essere sopraffatti dalle spiegazioni, in generale. Ciò che mi ha colpito e che ho apprezzato di più è quanto semplice eppure elegante fosse la sceneggiatura. Conoscevo già il lavoro di Andrea [Pallaoro], quindi, quando ho letto questo copione, avevo già in mente la sua visione e la sua estetica, e quelle due cose messe insieme mi hanno molto emozionato.
Quando ho letto di Paul, il mio personaggio, ciò che mi ha colpito di lui è stata la sua reazione al ritorno di sua sorella dopo così tanti anni, e ho subito pensato che fosse una reazione molto matura. Sono stufo della transfobia e della mania di giudicare che abbiamo tutti quanti, quindi la reazione di Paul mi ha ispirato e mi ci sono ritrovato molto – era empatia, curiosità e protezione, e mi sono immedesimato in quelle tre emozioni e ho pensato che fosse una reazione davvero intelligente la sua. Andrea ci teneva moltissimo, voleva che fosse un conflitto davvero sentito, senza giudizi, e per me era qualcosa di emozionante con cui avrei potuto confrontarmi e giocare. Quindi, ho chiamato subito il mio agente e gli ho detto: “Ti prego, fammi ottenere una parte in questo film!” [ride] Questo è ciò che cerco, è il tipo di film in cui credo, così ho iniziato la mia piccola campagna per cercare di farne parte.
Ricordi qualcosa che ti sei domandato prima di iniziare le riprese o una domanda che hai rivolto ad Andrea sul film?
Ottima domanda.
Credo di aver semplicemente ricoperto Andrea di complimenti per “Hannah” e “Medea”, due suoi film precedenti, ma di domande gliene ho fatte poche, tra noi erano più discussioni, io volevo sapere lui cosa provasse e pensasse, da dove avesse tirato fuori Paul, se fosse qualcuno che conosceva o qualcuno a cui teneva, e volevo sapere cosa impedisse a Paul di dire a sua madre chi fosse la sorella per tutta la durata del film, e da dove provenisse il suo desiderio di proteggerla dalla verità e di dare a Monica, il personaggio di Trace [Lysette] la possibilità di farlo lei stessa.
Il tuo personaggio, Paul, è un uomo piuttosto timido che vuole chiaramente riallacciare i rapporti con la sorella e includerla di nuovo nella loro famiglia ormai spezzata: hai lavorato al tuo personaggio adottando un approccio più razionale o emotivo?
Di solito, procedo rileggendo la sceneggiatura 200 volte e cercando di visualizzare cosa il personaggio stia attraversando e da dove derivino i suoi sentimenti, e come le scene siano intrecciate le une alle altre, e poi mi faccio domande del tipo: “Perché questa scena è nel film? Come potrà essere utile all’intera storia?”. In questo modo, inizio a pesare il tutto.
Questa volta, credo di aver adottato un approccio emotivo, perché nonostante mi fossi preparato una serie di situazioni che volevo ricreare, poi, una volta sul set, ho capito che Andrea era più interessato a come i personaggi vivessero i singoli momenti che alle azioni che compivano, una delle sue intenzioni principali era quella di evocare una sensazione di catarsi. Quindi, tutte le mie scelte sono andate in fumo, sostituite da un pensiero molto più semplice: “Devo essere presente per lei, ascoltarla, sapere perché sono qui e cosa voglio, e dare priorità ai suoi bisogni e quelli di mia madre”. Mi sono ritrovato molto in questa linea di pensiero, perché anche io sono un fratello maggiore e sono cresciuto solo con mia madre: per cercare di non far agitare mia madre, spesso ho dovuto sacrificare la mia salute mentale, quindi ho pensato che anche la salute mentale di Paul fosse stata un po’ danneggiata dalla sua tendenza a tenersi tutto dentro, cosa che secondo me fanno molti uomini, perché sentono questa grossa responsabilità di proteggere la loro madre a tutti i costi. La paura più grande di Paul era qualunque fonte di stress che potesse gravare sulla sua malattia e ucciderla, ma credo che, in fondo, lui nutrisse la speranza che la madre potesse guarire, ma crede che lo stress del ritorno di Monica potrebbe essere deleterio per la sua salute e accelerare l’intero processo. Questo mi ha tenuto con le antenne alzate, dovevo stare attento a come gestire questo incrocio tra vita passata e presente.
È costantemente una lotta tra razionalità ed emotività, in cui a volte le emozioni diventano troppo grandi e tu non puoi fare altro se non lasciarti andare. Per esempio, la scena in cui riprendo mia madre che racconta una storia mi è sembrata molto razionale, perché è una cosa che faccio per i posteri. Secondo me, i nonni vivono nei ricordi di ognuno di noi perché muoiono quando siamo piccoli o giovani, quindi regalare quel ricordo ai figli di Paul è stata un’operazione razionale, strategica.
“Ho pensato che anche la salute mentale di Paul fosse stata un po’ danneggiata dalla sua tendenza a tenersi tutto dentro, cosa che secondo me fanno molti uomini…”
Hai imparato qualcosa di nuovo su te stesso, studiando Paul?
Per me, i principali insegnamenti provenivano da quello che faceva Andrea, lo adoro, è uno dei filmmaker più intelligenti che abbiamo secondo me, ne sono sinceramente convinto: credo che rinforzi l’idea di quanto intelligenti siano gli spettatori e quanto siano in grado di cogliere da scene molto acute ma anche molto semplici.
Sai, anche un piccolo gesto può avere un grande valore, uno sguardo può fare molto, e per me, interpretare Paul ed essere coinvolto in questo film ha consolidato la stima e adorazione per questo genere di approccio da parte di narratori e registi come Andrea.
Paul mi ha reso molto empatico e mi ha fatto riconsiderare come ho gestito io la morte di mia suocera, l’immagine di lei che si abbandona e alla fine emigra in un’altra dimensione o nel nulla, a seconda di cosa crediamo. Un acting coach una volta mi ha dato un bellissimo consiglio: “Pensa ai tuoi personaggi in questa maniera: immagina che cosa credano succeda dopo la morte”, perché alcuni personaggi crederanno che non succede niente, altri crederanno che si diventa piante o animali, o che si va in paradiso o cose così.
Paul in che cosa crede?
Secondo me, lui non crede nel paradiso o nel cielo. Ci ho pensato molto su, e secondo me lui crede in cose come trasferimenti di energia, crede che ce ne andiamo in posti non ben identificati – magari che diventiamo coyote che corrono in mezzo ai secchi della spazzatura, forse è quella la fine che farà Paul, diventerà un mangia-spazzatura! [ride]
In realtà, penso sia migliore di così, quindi magari il karma ha in serbo qualcosa di meglio per lui, chissà?
Nei momenti più difficili, parte la musica, di solito dalla radio della macchina di Monica, e alleggerisce l’atmosfera, oppure a volte la enfatizza. Secondo te, la musica, può essere terapeutica? Cosa ti aiuta ad affrontare i momenti più difficili della tua vita?
Trovo che la musica sia uno degli elementi più terapeutici al mondo e anche il più efficace ponte tra culture.
Non ci serve comunicare a parole se ci mettiamo ad ascoltare musica internazionale, e credo che siamo tutti quanti in grado di soffermarci su una sensazione e un’emozione e muoverci al suo suono, connetterci ad esso. Ho trovato straordinario l’uso che Andrea ha fatto della musica. In particolare, la scena in cui Trace si mette a ballare è fantastica, la sua collocazione nella storia è perfetta, lei è bravissima, rende alla perfezione il suo bisogno di liberarsi e rimpadronirsi del suo corpo.
Mi ritrovo spesso a pensare a quanto tempo passiamo nella nostra testa e a quali sono le cose che facciamo per ritornare nel nostro corpo. Per Andrea, è semplicemente stoppare la storia e prendersi del tempo da passare con il personaggio, cercando di farlo tornare nel suo corpo perché in testa ha un gran casino, il mondo sta crollando addosso a lei e a sua madre – ha pochissimo tempo per ottenere perdono e redenzione. Inserire una sequenza musicale in quel momento l’ha reso molto profondo e reale, e alla première il pubblico si è commosso. Andrea ha usato la musica in una maniera così reale e autentica, senza cercare in alcun modo di farci provare emozioni pilotate attraverso la colonna sonora, manipolando i nostri sentimenti, sebbene non ci trovi nulla di male in un’operazione del genere, apprezzo le belle colonne sonore, ma sento che il suo modo di ottenere autenticità sia davvero impareggiabile. Ricordo che, sul set, ho detto ad Andrea: “Credo che la cosa più importante da fare sia riprodurre quello che percepiamo come reale, qualunque aspetto abbia e sensazione evochi”. Lui mi ha risposto: “Joshua, certamente, perché mai dovrei voler riprodurre qualcosa che non è reale?”
La musica io la utilizzo anche per lavorare ai miei personaggi, cerco di scegliere le canzoni e i generi musicali da ascoltare in base al loro mondo. Per me, odori e suoni sono una delle vie più efficaci per evocare un’emozione: la musica è il più efficace collante e collegamento che abbiamo, secondo me.
“Mi ritrovo spesso a pensare a quanto tempo passiamo nella nostra testa e a quali sono le cose che facciamo per ritornare nel nostro corpo“.
Cosa ti fa dire di sì ad un progetto, in generale?
Faccio questo mestiere da 20 anni, ho conosciuto vari registi con dei limiti che compromettono i film che fanno, creando qualcosa che sembra o forzata o non compiuta o non pensata in maniera intelligente e con pazienza, pieni di parole e voci spiaccicate sullo schermo. Io sono ancora in fase di costruzione nella mia carriera, ma sto avendo sempre più opportunità, e ho avuto già la fortuna di collaborare con alcuni grandi registi e di osservarli al lavoro, sono stato viziato. Quando scelgo un progetto, la visione che c’è alla base è una delle cose che ritengo più importanti, perché ho bisogno di potermi fidare e sentirmi libero di essere vulnerabile.
Poi, ovviamente, il personaggio – a meno che non abbia davvero bisogno di pagare il mutuo, non vorrei rendere mai un disservizio al progetto, quindi se sento di non poter dar valore al personaggio, e che non rappresenterebbe alcuna sfida per me, non lo accetto, perché quello che rende un progetto emozionante come lo è stato per questo film, è la sfida di essere semplice, autentico e presente e di uscire dagli schemi, e impedire al mio ego e alle mie scelte personali di intralciarmi il percorso. Essere presenti sullo schermo è sufficiente, e il pubblico capirà, interpreterà e si identificherà nella situazione, in ogni caso.
Poi, è importante anche la qualità del dialogo per me.
Come e dove trovi ispirazione nel lavoro e nella vita?
Di recente, ho iniziato a dipingere. Una volta, qualcuno mi ha chiesto quali fossero i miei hobby, e io mi sono rattristato perché mi sono reso conto di non averne [ride]. Raccontavo storie, ma quello era il mio mestiere, così ho pensato che dovevo trovare qualcosa di creativo da fare che non fosse il mio lavoro. La pittura è diventata un passatempo davvero liberatorio e stimolante, grazie al quale ho iniziato ad interessarmi a varie forme d’arte, strumenti, e pittori, e a come si esprimono, e ha anche aiutato la mia recitazione, mi ha aiutato a rallentare i ritmi. Sai, io vivo a Los Angeles, che può essere davvero una discarica culturale in termini del culto della celebrità e della valutazione delle persone, a volte ti senti un cavallo da corsa, e trovo quella roba lì molto poco stimolante, quindi, per compensare, cerco di essere il più creativo possibile ogni giorno.
Scrivo anche ogni tanto, ho scritto alcuni film e serie tv, alcuni in fase di sviluppo, altri già pronti ma che non mostrerò mai a nessuno [ride].
Ovviamente, anche gli altri artisti sono una grande fonte di ispirazione per me, persone che ammiro molto, visionari come Paul Thomas Anderson, o Andrea Pallaoro; adoro i film classici, quindi cerco ispirazione anche da loro, tipo quelli di Melville e Godard.
“Cerco di essere il più creativo possibile ogni giorno”.
Qual è il tuo genere preferito da interpretare e da guardare?
Sono un patito di film drammatici!
Soprattutto ora, che siamo nell’era del trionfo dei film d’azione, degli horror, delle commedie, ne ho sempre più sete. Adoro i film che parlano delle persone, credo non ci sia niente di più interessante dei conflitti dell’anima, e mi interessano di più quelli che vedere qualcuno che scappa da un edificio prima che esploda. A mio parere, lo storytelling è diventato un po’ troppo incentrato sulla situazione, sul raccontare di qualcuno che cerca di evadere o superare una situazione. Ammiro i filmmaker che sanno come raccontare una bella storia che parla di un essere umano che lotta per qualcosa, come Monica, secondo me una storia così unisce le persone.
Il film di Andrea ha toccato tutti nel profondo e un film non può sperare di meglio se non che succeda una cosa del genere, ed è quello che succede a me quando guardo i film drammatici.
La collaborazione dei tuoi sogni?
Andrea, ancora una volta, e poi i grandissimi come Jacques Audiard, Alejandro González Iñárritu, Sarah Polley. Mi piacerebbe lavorare di nuovo anche con Kathryn Bigelow e Paul Thomas Anderson, ho interpretato delle piccole parti nei loro film, ma mi hanno lasciato un segno profondo come esperienza.
Il tuo ultimo binge-watch?
Una serie che si chiama “The Bear”. È una serie drammatica e tutti gli attori secondo me sono eccezionali, veramente bravissimi, e così vulnerabili, danno chiaramente tutto quello che hanno, e si vede benissimo sullo schermo. Mi ha ricordato tantissimo John Cassavetes e le sue storie incasinate e fuori di testa (lui è uno dei miei registi preferiti di tutti i tempi).
Il tuo più grande atto di ribellione?
Non sono stato un bravo ragazzo, ho commesso atti di vandalismo in passato, ma niente di grave, nessuno si è mai fatto male, però ricordo di non aver mai accettato il divorzio dei miei genitori. Poi, durante l’adolescenza, sono diventato un grande fan degli Anti-Society, Rage Against the Machine, e dei Nirvana… Quello è stato il mio picco di ribellione.
Inoltre, considerato il mio paese d’origine, fare l’attore è stato un grande atto di ribellione: mio padre ha pianto quando gli ho detto che volevo farlo, perché l‘idea gli era così estranea, ma io volevo essere spontaneo, un po’ selvaggio, e allegro, lasciarmi stimolare ed ispirare, e la recitazione è il mio modo per realizzare questi desideri, radicati in me.
La tua più grande paura?
Avere tanti rimpianti alla fine della mia vita e non fare le cose che vorrei avere il coraggio di fare.
“Volevo essere spontaneo, un po’ selvaggio, e allegro…”
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Credo significhi accettare ciò che è buono, cattivo, e spiacevole. A lungo ho cercato di inseguire la felicità e la sensazione di agio quando mi sentivo nervoso, ho sofferto di ansia sociale, e l’atto di ribellione di cui parlavo prima, quello di fare l’attore, è stato parte del processo. È una ribellione contro la società in cui sono cresciuto, cercando di essere diverso e onesto e fedele a me stesso, ma anche di lottare contro le mie ansie ed affrontare le persone per cercare di combatterle.
Qual è la tua isola felice?
Le persone.
Con la mia famiglia, la mia bellissima moglie, è lei la mia isola felice. Gli amici, anche. L’Italia, che mi ha dato così tanta gioia. Nel 2003 ero qui a Venezia con un film, era la mia prima volta in Italia, e i miei genitori sono stati tanto generosi da pagarmi il biglietto per venire qui alla première perché la produzione non aveva abbastanza soldi per coprirmi le spese, ma ho potuto vivere la Mostra del Cinema nelle vesti di attore protagonista. Questo posto è straordinario, mi incanta ogni volta che ci vengo.
“Le persone”
Photos by Luca Ortolani.
Grooming by Armani Beauty.