“Figlia Mia” di Laura Bispuri segue da vicino tre donne: la selvaggia Angelica (Alba Rohrwacher), la piccola Vittoria (Sara Casu) e sua madre, Tina (Valeria Golino), tre realtà che si incontrano e stridono l’una contro l’altra nel meraviglioso paesaggio della Sardegna rurale, seguite da vicino dall’occhio artistico e penetrante della telecamera di Laura.
In un certo senso, questa è la storia di una bambina che si trasforma in un supereroe, uno di quegli eroi nascosti e veri, senza manetello o superpoteri, che da sola prende per mano gli adulti che la circondano. Vedere “Figlia Mia” non può che far riflettere sulla profondità delle connessioni umane e parlarne direttamente con la regista è stata un’esperienza senza dubbio intensa.
Dopo aver avuto l’occasione di parlare con Valeria e Alba, rispettivamente interpreti di Tina e Angelica nel film, abbiamo avuto la possibilità di chiacchierare anche con Laura, discutendo su come il suo lavoro si fosse evoluto dopo “Vergine giurata” e facendo luce sul significato di questa nuova, toccante storia di donne.
Abbiamo chiacchierato con Laura Bispuri a Londra e le abbiamo chiesto qualcosa in più su “Figlia Mia”, sulle ben tre protagoniste e sull’ispirazione dietro la trama.
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Come ti è venuta l’idea per questa storia di maternità un po’ primitiva e quasi istintiva?
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La primissima volta che ho pensato ad un nucleo di trama che ha dato l’idea per il film risale a tanti anni fa, ancora prima di “Vergine giurata” che è il mio primo film. É nato tutto dal racconto di questa ragazza, una mia amica di vent’anni più o meno, che stava a casa con mamma e papà: era una situazione abbastanza standard, diciamo. Però poi lei si sfogava con me e mi raccontava di questo suo desiderio di essere adottata da un’altra madre e mi colpì molto, così iniziai a pensare a questo racconto. Ricordo che con la mia sceneggiatrice abbiamo letto un libro di A.M. Homes che si intitola “La figlia dell’altra” e avevamo appunto iniziato a indagare il tema della maternità. Poi è arrivato “Vergine giurata” quindi mi sono distaccata da quest’idea e nel frattempo invece mia figlia era cresciuta, e quando ho dovuto scegliere una storia per il secondo film mi è tornata in mente quella che avevo lasciato indietro e abbiamo iniziato a immaginarci i tre personaggi, il loro triangolo sentimentale e ad addentrarci proprio con le mani e i piedi in questo racconto sulla maternità, cercando di costruire due madri complesse e imperfette ma piene d’amore, con mille sfaccettature come siamo noi esseri umani.
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Sono molto curiosa riguardo il personaggio di Angelica, perché è molto grigio, negativo, infantile in un certo senso, ma è pieno d’amore comunque, lo vedi ad esempio nella scena dei cavalli in cui li difende perché sono di Vittoria: come hai lavorato su questo personaggio, sulle sue sfumature?
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Abbiamo lavorato su tutti e due i personaggi con l’idea che all’inizio sembrino il bianco e il nero per poi scoprire invece che hanno tutte e due qualcosa di bianco e qualcosa di nero, che stessero facendo un percorso speculare. Volevo provare a raccontare questa mamma eccentrica, violenta, imprevedibile, sbandata, ma appunto piena dai sentimento. Abbiamo usato dei riferimenti personali di racconto e avevamo voglia di provare a creare questo rapporto tra lei e la bambina sempre più importante, in cui la bambina inizia quasi a imitare questa donna strana che all’inizio non sa quasi essere la sua madre naturale: è un percorso durante il quale piano piano Angelica capisce che può amare questa bambina e che la bambina può amare lei. Poi con Alba [Rochwacher] abbiamo ovviamente arricchito il personaggio di tante sfumature, ci siamo divertite tanto.
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Hai dato anche la possibilità di improvvisare?
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Qualcosa sì.
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Lo scenario è quello di una Sardegna molto dura, la Sardegna costiera, molto rocciosa: come hai lavorato con il paesaggio?
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Sono stata per circa un paio di anni in Sardegna facendo su e giù da Roma: mi sono persa in quest’isola in lungo e in largo, andando ovunque, cercando di capire quale fosse il luogo giusto. Però alla fine tornavo sempre in questo piccolo villaggio che si chiama Cabras e quindi mi sono detta: “Ma perché torno sempre qui?”(ride). C’era proprio un discorso di luce che mi interessava molto, perché il posto è legato alla laguna, al mare, alle saline, quindi c’è stata una riflessione di luce particolare e mi sembrava un posto non da “Sardegna da cartolina” ma da Sardegna che fosse arcaica con un pizzico di contemporaneità. Per esempio, il rodeo dei cavalli che si vede all’inizio è una tradizione antica ma c’è della musica pop/dance in sottofondo, quindi mi sono divertita a giocare in questo senso.
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Parlando della Sardegna, è già il secondo film che vediamo ambientato qui dopo “Fiore gemello”, quindi c’è un po’ questa riscoperta dell’isola: ti piacerebbe girare ancora li?
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Ma perché no? É un posto incredibile, è un’isola che mi ha dato tanto, nella quale mi sono persa: credo di aver lavorato proprio fondendo i personaggi e la storia con i luoghi, che si sono contaminati in qualche modo. I personaggi sono cresciuti anche grazie al rapporto con l’isola.
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Anche Vittoria è un personaggio abbastanza selvatico, quasi come questo sfondo…
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Sì nonostante abbia i colori da bimba irlandese è una bambina che invece viene proprio dalla Sardegna, quindi è legata al territorio.
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Parlando del rapporto con i personaggi, come hai sviluppato il carattere di Vittoria?
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Vittoria è una bambina che all’inizio del film si guarda allo specchio, come se avesse una sensazione di cui non ha nessuna consapevolezza: è una bambina diversa da sue amichette, che suona l’organo in chiesa, che quando le sue amiche ridono lei non riesce a stare al loro livello. È una bambina un po’ diversa che piano piano fa questo grande viaggio, e io volevo che alla fine del film lei fosse un supereroe, che fosse una bambina che prende in mano la sua storia, la sua verità all’interno di una breve estate dove scopre di avere due madri e in cui attraversa proprio fisicamente questa sua rinascita per diventare una bambina forte come non ti aspetteresti forse all’inizio del film.
“E io volevo che alla fine del film lei fosse un supereroe.”
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Spesso la si vede camminare per una strada vuota, senza nessuno a parte l’occasionale motociclista: è una metafora per il fatto che stia prendendo le distanze dalla madre?
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Nella sinossi ricordo che mettevamo spesso questa frase: “La figliolanza errante”, che descrive la sensazione dei figli un po’ lasciati a questa nostra epoca, al capire spesso da soli tante cose. In particolare, quando ho fatto il sopralluogo ho scoperto che casa di Angelica era vicina a questa specie di deserto e ho deciso di ambientare parte della storia lì. Mi piaceva l’idea che una bambina debba in qualche modo attraversare un deserto per andare a scoprire sua madre.
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C’è stato invece un momento di difficoltà?
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Prima di girare il film, quando abbiamo fatto le prove con Alba e Valeria c’è stato un momento di conoscenza, di rapporto a tre, di crisi, di rimessa in discussione. È stato un momento molto particolare e molto difficile che però abbiamo superato e dopo il quale è partito il lavoro.
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Il tema di tutto il film è molto intenso, si percepisce questo rapporto di semi-rivalità tra Tina e Angelica per questo amore che Vittoria dimostra verso entrambe le madri: cosa vorresti che il pubblico percepisse?
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Intanto che non esistono le madri perfette come spesso poi si vuole far credere, che è proprio nell’imperfezione di queste due donne che c’è una verità e quindi una bellezza, e che non esiste una famiglia standard. Il senso del film è l’accettazione e il superamento di questa complessità umana.
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La madre perfetta non esiste ma il padre, il compagno di Tina, d’altro canto sembra quasi evanescente…
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Il padre secondo me è un personaggio super positivo, è un uomo buono, un uomo dolce, un uomo che ha fatto il percorso di Tina all’inizio del film, e che Tina farà solo verso la fine, non ha bisogno della forza, è una tipologia maschile non sempre capita e raccontata che però alla fine mi piace molto.
“ Il senso del film è l’accettazione e il superamento di questa complessità umana.“
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Qual è la difficoltà di essere una regista donna in Italia, in questo periodo di grandi cambiamenti comunque per le donne all’interno del cinema?
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Siamo pochissime. Io uso sempre questa frase per far capire un po’ quello che sta succedendo: se una regista è a parità di livello di riconoscimenti con un uomo, il regista uomo viene definito un genio mentre la regista donna viene definita una brava regista (ride). Comunque, è un sistema maschilista a 360 gradi ma non solo nel cinema, in generale, in tutti i tipi di lavoro, non solo in Italia, è un discorso enorme di cui il cinema è una piccola parte. Io sono andata avanti come un treno, senza rendermi conto che poteva essere un problema essere una donna regista, poi a un certo punto mi sono girata e mi sono accorta di non avere nessuna compagna di viaggio. E comunque questo maschilismo lo sento in tante sfumature del mio lavoro quotidianamente. Penso che fatichiamo sempre tanto: nei miei film vengono raccontati sempre dei personaggi femminili molto faticosi, cioè donne che fanno dei viaggi faticosi per arrivare a capire chi sono e i loro punti di forza; racconto sempre questo, e credo che la fatica che abbiamo nell’affermarci faccia parte della nostra storia, perché viviamo in un sistema che ci mette in difficoltà.
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Invece cosa ci sarebbe nel tuo futuro?
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Non ne parlo ancora (ride).