Con un’umiltà disarmante, Lodo Guenzi affronta la carriera così come la vita un passo alla volta, cercando ispirazione da ciò che c’è fuori dalla finestra.
È “uno che va in scena e dice o interpreta delle cose” per la pura soddisfazione che può derivare dal parlare con persone che danno più peso alle tue parole di quanto ne abbia mai dato tu e che così ti salvano la vita. Che sia con la musica o con i film, l’arte è ciò che più assomiglia alla vita e in questo mondo che a volte sembra “tutto sbagliato”, non ce n’è mai abbastanza.
A Venezia per ricevere il premio Kinéo come miglior attore non protagonista per il film “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” di Pupi Avati, in pieno tour con la sua band, Lo Stato Sociale, che si si concluderà a Berlino il 29 settembre, a fine mese dal palco Lodo passerà sugli schermi di RaiDue alla conduzione del programma “Tutto quanto fa cultura”. Per viaggiare dall’arte, alla musica, alla televisione, alla letteratura, in una transizione che in fin dei conti gli riesce estremamente naturale.
Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica? E il primo legato al cinema?
Io mi ricordo il mio primo concerto, in un posto in Via Mascarella a Bologna, una specie di discoteca. Mi sa che io mi ero messo dentro un carrello della spesa… Mi ricordo anche che all’inizio mi piaceva fare le prove, che è una cosa che invece adesso odio fare, e con la mia prima band, che aveva un nome impronunciabile, eravamo proprio a quella festa, ed eravamo anche molto fuori luogo, perché era una festa molto fighetta e noi eravamo i “freak” in quel contesto. È stato strano.
Il mio primo ricordo legato al cinema invece sono i dinosauri di “Jurassic Park”, perché mi piacevano i dinosauri e non il cinema. Al cinema mi ci portava mia nonna e dopo aver visto quel film ho avuto gli incubi per un mese, sognavo quei dinosauri che volevano sbranarmi.
Come è nata l’idea di formare Lo Stato Sociale? Qual è stata la tua principale fonte di ispirazione?
Lo Stato Sociale è nato perché ci annoiavamo. Io mi ero appena diplomato in accademia, stavo lavorando come attore a teatro e non mi trovavo bene e mi sembrava di fare delle cose per un pubblico che non era il mio. Vedevo i miei amici che suonavano di fronte a gente viva, per cui quelle parole che cantavano avevano un peso. Quindi, insomma, io avevo finito l’accademia, gli altri due si stavano laureando, Bebo era andato a lavorare invece di finire l’università, Albi doveva farsi l’ultimo anno di università all’estero ma alla fine è rimasto per suonare con la band: in qualche maniera ci siamo inventati questa favola, che poi è stata ciò che ci ha cambiato la vita. Forse, inizialmente, l’ispirazione principale era più che altro demenziale, era l’idea di fare delle cose per ridere, ma poi abbiamo visto che le persone venivano a sentirci, che davano più peso di noi alle parole che dicevamo e così abbiamo cominciato a prenderci un po’ più sul serio.
“In qualche maniera ci siamo inventati questa favola, che poi è stata ciò che ci ha cambiato la vita”.
Com’è cambiata la vostra musica nel corso degli anni? Quali sono stati i principali fattori che hanno influenzato eventuali evoluzioni e/o cambiamenti?
Guarda, il primo passaggio è quello in cui ti rendi conto che le persone pagano un biglietto per venirti a vedere, che è una cosa senza senso, se ci pensi, e il primo passaggio bis è quando i tuoi genitori iniziano a immaginare che il tuo sia un lavoro e non una maniera per perdere tempo con i tuoi amici.
Ricordo di quando eravamo a Roma, alla Locanda Atlantide, che è un locale che non esiste più, ed era il 2012 e avevamo venduto 300 biglietti… Poi, ne puoi vendere anche 30 mila, ma la differenza è da 0 a 300. Insomma, il locale si stava riempendo, e Checco, di fianco a me, mi disse: “Ragazzi, siamo una band avviata”. Io mi ricordo quello come il primo momento in cui aveva senso crederci, non era una fantasia egotica crederci. Poi, mi ricordo il momento in cui i miei genitori hanno cominciato a pensare che stessi facendo quella cosa veramente nella vita, cioè quando i loro colleghi e conoscenti hanno iniziato a fermarli per strada parlando di me. Il momento definitivo è stato con mio padre, che è un super appassionato della Settimana Enigmistica, un giorno ha comprato una Settimana Enigmistica che in copertina aveva un cruciverba con la mia faccia e il mio nome da indovinare.
I testi delle vostre canzoni spesso affrontano temi sociali e politici. Quali sono i messaggi principali che puntate a trasmettere attraverso la vostra musica?
Una frase che va molto di moda è: il personale è politico.
Si tratta di una frase che ha tanti principi di verità, anche se la trovo a volte abusata nelle sue estreme conseguenze, nel senso che la parabola personale, se non è all’interno di uno schema sistemico, può anche valere come eccezione. Però, è anche vero che il politico deve essere personale. E di cosa dovremmo parlare? Davvero, di cosa dovremmo parlare? Se non del mercato che ci schiaccia, se non dei nostri coetanei che girano schiavi di un algoritmo, se non delle persone che muoiono in mare o che vengono sistematicamente ricattate dal nostro sistema di lavoro e di schiavismo, se non dei diritti che non abbiamo, se non della costante pressione che la società ci fa sentire involontariamente, perché è dentro un sistema di mercato e non perché ci sono delle categorie di cattivi e di buoni, la costante pressione che la società impone su di noi nel farci produrre all’infinito beni di nessuna rilevanza che bruciano il pianeta e abbassano costantemente il diritto di lavoro, nel farci apparire tutti più o meno uguali, nel farci fare le stesse considerazioni, nel relegarci a sterili, costanti polemiche in un mondo come quello di Internet che non è la strada, che ti isola, che ti priva del confronto con l’altro essere umano, nel farci andare giù di testa, nel regalarci un mondo in cui si può solo diventare matti e poi fare tante battaglie contro il tabù della psicanalisi, nel farci vedere tutti i giorni belli, accettarci nel nostro corpo, qualunque esso sia, purché sia bellissimo, purché siamo considerati bellissimi da tutti quando il nostro non vederci belli è un buon segnale, perché racconta un nostro rapporto malsano non con la nostra esteriorità, ma col nostro stringere un patto che vuole il mondo in condizioni sempre peggiori, la sperequazione di ricchezza tra pochi ricchi e tanti poveri sempre maggiore, la sensibilità nei confronti delle istanze e delle minoranze sempre veicolata verso la parte ricca di ogni singola minoranza… Insomma, un mondo tutto sbagliato.
E se non guardi fuori dalla finestra, di che cosa devi scrivere?
Vi chiamate Lo Stato Sociale per un motivo… In che modo credi che la vostra musica abbia influenzato il pensiero sociale o politico del vostro pubblico? E il vostro?
Io non so se ho influenzato qualcuno, quest’idea mi fa sentire molto responsabile e secondo me si entra in una zona molto strana. Perché io devo avere la libertà di dire quello che penso e non devo avere la responsabilità di un popolo di accoliti indottrinati, perché non sono un guru e non ho fondato una religione. Si entra un po’ anche in quel campo strano di autoassoluzione da parte della politica, per cui i ragazzi in America fanno le stragi nelle scuole per colpa di Marilyn Manson, non per colpa del fatto che chiunque può procurarsi una pistola, e andare giù di testa è abbastanza facile.
A me piace di più l’idea di raccontare, non mi piace l’idea di indottrinare. Io non sono un modello, né personalmente, né dal punto di vista del pensiero, e non voglio essere trattato come un modello. Sono una persona, sono un ragazzo pieno di difetti, che ha commesso molti errori, che ha un suo sguardo sul mondo, che prova a dirlo, e il cui unico grande lusso è quello di essere ascoltato da qualcuno.
Sei attualmente in tour con la tua band. Raccontaci della vostra esperienza in giro per l’Italia e dei vostri spettacoli dal vivo. Qual è il vostro rapporto con il pubblico durante le performance?
Il nostro pubblico è una delle poche cose per cui vale la pena vivere. In questo momento della mia vita, la quantità di amore che riversa verso di noi, oltre a sembrarmi ogni volta immeritata, è qualcosa che mi tiene a galla, questa è la verità.
“A me piace di più l’idea di raccontare, non mi piace l’idea di indottrinare”.
E ora hai vinto il premio Kinéo come miglior attore non protagonista per il film “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” di Pupi Avati. Il tuo percorso nel cinema da dove è iniziato? Cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada?
Io più o meno fino a 30 anni non avevo mai immaginato di fare cinema, non ne sono neanche appassionato. Poi è successa una cosa strana: un regista ha insistito molto per avermi protagonista in un suo film, ed era talmente gentile, talmente garbato e intelligente che ho pensato ma sì, perché no? Prima di girare questo film, il regista, che si chiamava Max Croce, è venuto a mancare. Ero in tour col teatro, con “Il giardino dei ciliegi”, e ho detto all’agenzia stampa, “Perché non convochiamo un paio di agenti del cinema e vediamo che ci dicono?”, e loro ci hanno detto che mi volevano in agenzia e da lì è cominciato il viaggio.
Cosa ti ha attratto di questo progetto di Avati? Hai scoperto qualcosa di nuovo su te stesso da questa esperienza?
Mi trovavo in un Festival, quando mi è arrivata una telefonata di Antonio Avati che mi proponeva questo film. Ovviamente, di primo acchito la prendi per quello che tra l’altro è, ovvero un’occasione di carriera straordinaria con un grande maestro del cinema italiano. Soprattutto, perché mi mandano questa sceneggiatura che mi spacca a metà, perché arriva in un momento della mia vita in cui non capisco più che cosa voglio fare da grande, in cui la musica, che mi ha salvato la vita, che me l’ha cambiata, che mi ha fatto provare delle cose inimmaginabili, mi stava facendo soffrire, in cui qualcosa si stava rompendo. Il film è la storia di uno spaccato dentro, di uno spaccato a metà, di uno che suona perché non è mica uno che sta bene, come gran parte di quelli che suonano e come gran parte degli amici che ho avuto durante questo percorso strano, alcuni di grande successo, alcuni di nessun successo, alcuni che non fanno più musica, alcuni che non ci sono più. Questa era la storia mia e di tutti loro. Era la mia possibilità, dentro una storia bellissima, di raccontare la mia storia dentro il mondo della musica, e per me è stato uno dei viaggi più belli di sempre.
C’è un tipo di ruolo che preferisci interpretare o che trovi particolarmente stimolante?
Mi piacerebbe fare cose che posso immaginare mi vengano molto difficili. Dopo tanti anni in cui si sta in scena, uno qualcosa la affina, impara a conoscersi, e sicuramente i disperati, gli ubriachi, i marginali, quelli a cui tutto è andato male nella vita, sono gli sfigati, sono personaggi che hanno a che fare con me. Però, c’è un personaggio che dovrò fare, che quando l’ho letto ho pensato potesse essere difficilissimo, e io sono costantemente in cerca di cose che mi facciano pensare: “Non ce la farò”. Quando ho letto questa nuova sceneggiatura, ho pensato “non ce la farò” e quindi è la cosa che voglio provare a fare.
Come gestisci il passaggio tra la musica, la scrittura e la recitazione? Quali sfide hai incontrato nel bilanciare queste diverse passioni?
Io vivo questo passaggio in maniera molto naturale, perché mi sembra onestamente di fare sempre la stessa cosa. Non sono mai stato un cantante, non sono mai stato un grande musicista, non sono mai stato uno scrittore, sono uno che va in scena e dice o interpreta delle cose. Che poi ci sia sotto una base musicale, o che lo stia facendo interagendo con un foglio o con uno schermo non mi cambia la vita.
Cosa ti piace di più dell’interpretazione e della recitazione? C’è un aspetto in particolare che trovi gratificante?
La cosa che amo di più della recitazione è che per un paranoico, ossessivo, pieno di pensieri, pieno di paure, pieno di ansie come me, è una cosa che mi mette in condizione di stare nel luogo e nel momento in cui lo faccio e non altrove. Solo lì, soltanto lì, e questa è la cosa che più assomiglia a vivere, se ci pensi, e io che non sono bravo a vivere, a volte ho bisogno di recitare per sentirmi così.
Hai mai pensato di dirigere o scrivere per il cinema? Se sì, quali sarebbero i tuoi obiettivi in questo campo?
Ho pensato di scrivere. Mi piace scrivere storie, mi piace raccontare storie che conosco. Però non ho mai pensato di dirigere, mi sembra il mestiere più difficile legato al cinema, quello del regista, e mi sembra un mestiere da padri illuminati. Riuscire ad avere in testa la parabola di una storia e girarla fuori dal suo ordine cronologico mi sembra un mezzo miracolo. Tutti i registi che ho visto lavorare, a loro modo, mi hanno lasciato questa impressione. Come si fa? Questa cosa è difficilissima e io non saprei mai farla.
“Sono uno che va in scena e dice o interpreta delle cose”
Qual è una canzone o un album che descrive questo momento preciso della tua vita?
È un’estate dura, è un’estate triste, e la canzone giusta è di Jannacci, si chiama “Lettera da lontano”.
Qual è la tua più grande paura?
Qualche anno fa ti avrei detto la paura di non essere ascoltato, di rimanere solo. Adesso la declinerei in maniera diversa, ma comunque resta la paura della solitudine. Sai, quando arrivi a tante persone, arrivi anche a persone che ti sanno ferire, che ti sanno fare male, che ti sanno rendere fragile, e io ho paura di rinunciare a fare delle cose per nascondermi dalla possibilità di essere visto da tante persone, comprese, quindi, quelle che mi possono ferire, per quanto queste siano una minoranza. Ho paura di ritrovarmi a nascondermi per paura. Ho paura che la paura vinca.
Il tuo più grande atto di ribellione?
Per me il più grande atto di ribellione è darsi la possibilità di dire quello che si pensa fuori da qualsiasi ragionamento di opportunità. Non è un atto di ribellione che frequento spesso, e quando mi è successo ha avuto un costo e lo rifarei.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Non lo so, non ne ho idea, non mi sono mai sentito a mio agio nella mia pelle un solo giorno della mia vita.
L’ultima persona o cosa che ti ha fatto sorridere?
Fortunatamente, mi capita di sorridere, ho attorno persone che sanno farmi ridere. Però, ti direi insospettabilmente Vasco Brondi, che è un amico, ma non abbiamo un legame incredibile, e io non gliel’ho mai confessata questa cosa. Per una ragione del tutto casuale, lui con la sua serietà mi ha detto una cosa seria e sentita nel momento più brutto della mia vita, che è quello che ho attraversato dopo il 14 giugno, ma per coincidenza magica, nell’anteprima della chat, è venuta fuori in una maniera molto comica. Quindi lui è stata la prima persona che mi ha fatto ridere nel momento più brutto della mia vita.
Qual è la tua isola felice?
Ah questa è semplice: stare in scena. L’unico posto in cui mi sento a mio agio nella vita, l’unico posto in cui mi sento libero, l’unico posto in cui mi sento non attaccabile, l’unico posto in cui mi sento sereno, l’unico posto in cui non ho schifo ad essere io, l’unico posto in cui mi sento a casa. Sono più me stesso di fronte a 10 mila persone che nella vita normale a parlare con chi mi conosce meglio nell’universo. E questo è anche un problema.
Photos by Luca Ortolani.