Ama i libri tristi, sono proprio i suoi preferiti.
Gli piacciono i gialli, i grandi classici, ma non ne ha mai voluto scriverne uno. O almeno così pensava.
Luca Bianchini, maestro dell’osservazione dell’essere umano e del timbro comico, ha stupito tutti con il suo nuovo romanzo “Le mogli hanno sempre ragione”, edito da Mondadori, che è un giallo dal sapore comico e che mi sono divorata in un pomeriggio.
Un nuovo esperimento per lui, ma per noi una conferma del suo genio brillante e che speriamo sia solo il primo di una lunga lista.
Tra consigli di lettura e bolle di al di fuori dalla realtà, qui la nostra chiacchierata con Luca.
Ho letto che tu, se inizi a scrivere un libro, è perché hai una cotta, come se ti innamorassi di qualcosa, di un pensiero, di un’idea. Cos’è successo con “Le mogli hanno sempre ragione”?
Qua la cotta è stata più per la voglia di affrontare una sfida, di sfidare me stesso, anche come seduttore. È un obiettivo, una preda che ti sembra irraggiungibile, ma ti dici: no, ce la posso fare. Io non avrei mai pensato di potermi azzardare a scrivere un giallo, però ero in una situazione di costrizione, in cui non potevo viaggiare, non potevo indagare, non potevo documentarmi, non avevo particolari idee belle di commedia, e io se non sono convinto non inizio. Non scrivo solo perché ho un contratto, in questo sono un autore autentico.
Come genere, il giallo era un qualcosa di completamente nuovo, come quando uno ha sempre fatto vacanze al mare, e un giorno gli propongono di fare qualcosa su un ghiacciaio: non è il tuo genere, ma magari vai in Islanda e poi chissà…
Mi sono divertito tantissimo e non pensavo sarebbe andata così. Credevo che sarebbe stato più semplice e anche meno bello, ma invece è stato molto bello; è diverso rispetto ai romanzi, è come se ci fosse una componente di enigmistica nella soluzione di un giallo, mentre in un romanzo, anche se magari non hai uno scenario bellissimo, sai che con le parole puoi raccontare la storia molto bene, ti puoi rifare con la scrittura, invece se sbagli la soluzione di un giallo, hai toppato tutto il romanzo!
Se alla fine non convinci il lettore, fallisci, quindi scrivere gialli è anche molto rischioso. Però se ti viene bene, ne esci soddisfatto.
Ti piacerebbe continuare a scrivere gialli o hai voglia di provare tutt’altro genere?
Mi piacerebbe scrivere un altro giallo con la stessa coppia di indagatori, ma una diversa ambientazione, magari in un paese vicino, quindi non con gli stessi familiari. Solo come prova del nove, per vedere se sono in grado. E poi, se va bene, magari ogni tanto potrei tirarne fuori uno. Comunque, non l’ho ancora programmato.
Il personaggio di Agata immagino tu l’abbia chiamata così per Agatha Christie, e poi c’è Clemente, un personaggio che mi è piaciuto tantissimo, con le sue mille sfaccettature e l’amore per il karaoke. Anche tu ce l’hai, questa passione?
Per il karaoke non ho un vero e proprio amore, ma una fascinazione, perché adoro queste cose un po’ kitsch. Il karaoke è una roba un po’ strana, perché fa un po’ schifo a tutti, però quando poi lo vedi o lo provi, poi non vuoi più mollare il microfono e non vedi l’ora che arrivi il tuo turno. Quindi il karaoke è un po’ la metafora della vita.
E secondo te qual è la canzone preferita di Clemente da cantare?
Beh, lui è un po’ un sorcino mancato, secondo me, quindi un amico di Renato Zero, un po’ come l’inizio del libro: “Il sole muore già”.
Verso l’inizio del libro, dici che per capire chi abita in una casa basta guardare la sua cucina. Questa cosa mi ha fatto riflettere, trovo sia molto vera, per noi italiani soprattutto. Per noi la cucina è una cosa importante, quando la guardi, un po’ si capisce la personalità del proprietario. Com’è la tua di cucina?
La mia cucina, purtroppo, è disordinata, ma anche bella, luminosa, ha un grande tavolo di legno che è quello su cui scrivo e su cui cucino, che tengo così, senza tovaglia. È una cucina molto affettuosa, calda, piena di tazze… E non mancano mai il vino e il parmigiano.
Bisogna sempre avere i fondamentali per un aperitivo.
C’è un punto in cui dici che a Bari sono nati tutti, ma tu non sei nato a Bari, sei nato a Torino! Però, hai un grande affetto per la Puglia in generale, e so che è nato da alcuni matrimoni a cui sei andato…
Sì, in Puglia mi hanno un po’ adottato, ma non ho capito bene come e perché. La verità è che ci sono tante Puglie, e i pugliesi sono difficili da generalizzare, anche perché molti tendono a riassumerli, ma sono molto diversi tra loro. Per esempio, nel barese, a me la gente piace perché tutti sono tendenzialmente un po’ megalomani, un po’ bambini, molto divertenti, amano godersi la vita, e mi hanno adottato, per cui mi sembra sempre di fare vacanza quando vado da loro per presentare libri o cercare storie. Lì mi sento molto a casa. Io amo l’Italia in generale, però devo dirti che, per tante ragioni, la Puglia mi piace particolarmente, forse perché ho più confidenza, tanti amici.
È con l’ironia che in questo libro hai affrontato temi come l’omosessualità, il razzismo, il ruolo dei social media, quasi come fosse una sorta di arma. Quant’è importante per te l’ironia?
L’ironia è una dote non comune, purtroppo viviamo in un paese che si prende molto sul serio, che non ha senso dell’umorismo, per cui a volte l’ironia viene anche fraintesa, presa per strafottenza, ma io me ne frego altamente. L’ironia è una cosa che va coltivata, in modo che la gente piano piano impari a coglierla e magari la riutilizzi. L’ironia ti permette di stemperare tutto, le sconfitte: l’autoironia, ad esempio, io la pratico molto e la trovo molto utile, perché ti permette di risolvere un sacco di situazioni. Se, invece, tu prendi tutto sul serio, una situazione di fallimento diventa un fallimento vero e proprio; invece, prenderla con ironia aiuta e risolve la situazione, ti impedisce di vivere la frustrazione.
L’ironia però non la praticano in molti e non la si sa neanche apprezzare, anzi, è un’arma che dà un po’ fastidio, perché è potente. Io sono fortunato ad averla e spero di usarla bene.
Parli anche parecchio dei social, sia per la figlia di Ninella, che è la prima influencer di Polignano, sia quando dici che aprire le finestre è come avere un “Facebook” davanti agli occhi. Tu che rapporto hai con i social?
Io sono uno molto social, quindi li considero un’arma a doppio taglio. Però, per me, sono più i vantaggi che gli svantaggi. Ad ogni modo, tra gli svantaggi (ahimè per noi) rientra il fatto che ci fanno costruire un’immagine di noi che non sempre corrisponde alla realtà, per cui spesso veniamo fraintesi. Io, che non amo condividere le cose tristi, sui social sembro una persona sempre felice, ma anche io ho le mie tristezze, i miei problemi, anche se la gente pensa il contrario solo perché io decido di fotografare il tramonto, il bicchiere, il libro e il Grana. Però i social sono anche un mezzo che, se usato bene, ti insegna a fregartene, aiuta anche a far avvicinare i lettori: bisogna usarlo intelligentemente, senza strafare, senza farsi travolgere, senza farsi troppo condizionare dalla performance.
Qual è il tuo giallo preferito, quello che consiglieresti a tutti?
“Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, è un giallo incredibile, quando lo finisci ti dici: “No, vabbè, non ce la potevo fare”. È molto frustrante, ma anche molto bello e divertente.
Qual è l’ultima cosa che hai scritto?
Un articolo sull’Italia per Grazia, e una puntata di “Mangiafuoco”, che è un programma in onda su Radio1, su Charles Aznavour.
Hai detto che per te, soprattutto durante il lockdown, ma anche in generale, un libro è come una bolla. Intendi sia leggere un libro che scriverlo?
Sì, lo è in entrambi i casi. I gialli lo sono ancora di più, perché diventano come un problema di enigmistica, ti portano ancora più lontano dalla realtà rispetto a un romanzo, secondo me. Sei proprio dentro al meccanismo della soluzione, quindi è come fare un Sudoku. Per questo, forse, gli italiani amano di più i gialli, perché probabilmente è un genere che avvicina alla lettura anche chi non legge, che la prende come un “voglio vedere se indovino”.
È vero. Io, infatti, ho avuto un blocco del lettore abbastanza lungo, e ho ricominciato a leggere proprio con un giallo, “Il caso di Harry Quebert”. Il giallo è anche il tuo genere preferito?
No, io non leggo gialli! Leggo un po’ di Agatha Christie e basta. Mi sono avventurato in una cosa nuova, infatti. I miei preferiti sono i libri drammatici e tristi, quelli deprimenti, come quelli di Houellebecq, di suo ti consiglio “Piattaforma”.
Non so perché, ma io quando leggo un libro immagino sempre come sarebbe il film tratto da quel libro, quali attori potrebbero interpretare quali personaggi, eccetera. Leggendo il tuo, ho pensato che il regista dell’ipotetico film potesse essere Sorrentino, forse per il modo ironico in cui parli del sud, di quelli che vanno al nord…
Magari! Mi vuoi bene! Sarebbe bello. Sorrentino mi aveva fatto i complimenti per un mio libro che si chiama “Siamo solo amici”, una volta che l’ho incontrato al mercato, pensa…
È sempre bello avere i complimenti da Sorrentino.
Photos by Claudio Sforza.