Tra i protagonisti del nuovo film di Ficarra e Picone, “Santo Cielo”, in uscita in sala il 14 dicembre, Maria Chiara Giannetta è un’attrice che ha viaggiato a lungo attraverso le emozioni e le sfide dell’arte drammatica, da “Blanca” fino al ruolo di Suor Luisa in questa nuova e brillante commedia.
Durante la nostra telefonata, Maria Chiara ha condiviso il suo percorso formativo, sottolineando l’importanza di dedicarsi con tutta sé stessa alla recitazione durante e dopo il periodo di formazione al Centro Sperimentale. Una scelta saggia che le ha permesso di immergersi appieno nel mondo del cinema, senza distrazioni.
Di “Santo Cielo”, Maria Chiara ha amato interpretare un personaggio sfaccettato e osservatore, in un film che affronta temi contemporanei in modo aperto, dall’amore puro e non convenzionale, al divorzio e alla democrazia. Non c’è scelta più saggia, infatti, del veicolare un messaggio di amore puro senza giudizi proprio attraverso l’arte, in questo caso con un film che fa riflettere senza perdere il suo tocco comico. Un’esperienza unica per il percorso di Maria Chiara, e anche un passo significativo per Ficarra e Picone: un film destinato a far ridere e riflettere, e un’attrice che promette solo grandi storie da raccontare.
Tra cinema, attivismo e aneddoti, Maria Chiara si ci ha parlato del suo passato e del suo presente, di cui la psicoterapia è elemento essenziale per una vita che sia piena di consapevolezza, e per trovare gli strumenti necessari ad agire e reagire. E noi vi raccontiamo un po’ di lei con la nostra Cover di dicembre.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Credo che sia qualche scena di un film di Hitchcock visto da bambina, mentre lo guardavano i miei genitori. Ricordo immagini rubate, perché si trattava di un film che ovviamente non potevo vedere, come quando da più grande mia madre e mio padre stavano guardando “The Ring”, una notte di Halloween, e io dovevo andare in bagno ma per andarci dovevo per forza passare dalla cucina dove stavano loro e ho visto quello che non dovevo vedere [ride].
Da appassionata d’arte drammatica fin da piccola, come hai affrontato il passaggio da studentessa al Centro Sperimentale di Cinematografia a attrice professionista? Quali sono state le sfide più significative che hai incontrato lungo il percorso?
Pagare l’affitto [ride] e stare a Roma, resistere lì cercando di barcamenarmi tra vari lavoretti e, allo steso tempo, provare a fare il mio lavoro. Facevo una marea di provini e ogni provino che non andava era una botta in testa. La mia agente a me diceva sempre che ero andata bene, ma che semplicemente c’era un’altra più giusta per il ruolo. All’epoca mi era difficile accettare questa cosa, ma ora che sono “dentro” il mestiere, per fortuna lo comprendo molto meglio. Capisci anche che ci sono dei meccanismi… di culo [ride], quello bisogna calcolarlo, nel senso che un’attrice magari rifiuta un ruolo e quindi tocca te.
E anche quello serve, perché magari è il La di cui hai bisogno per qualcos’altro che poi arriva dopo! Eppure, comunque, hai iniziato con Lettere Moderne all’università…
Sì, ho studiato Lettere moderne per due anni, quando non ero ancora pronta per lasciare la mia città e andare in un’Accademia professionale, proprio a livello umano più che di preparazione. Per due bellissimi anni, quindi, ho vissuto un po’ la vita universitaria, fin quando ad un certo punto mi sono detta: “Però io ci devo provare, non posso stare con questo dubbio”. Quindi, quando sono entrata al Centro sperimentale, ho fatto la rinuncia agli studi e mi sono dedicata al 100% alla recitazione. Avevo dei colleghi al Centro che si sono anche laureati all’università, che facevano entrambe le cose, e non so come abbiano fatto, perché il Centro Sperimentale ti “ruba” tre anni, dalle 9 di mattina alle 6 di pomeriggio.
E secondo me è stata la scelta più saggia, perché per quanto si possa essere multitasking, secondo me se fai troppe cose contemporaneamente dai a ciascuna solo una percentuale minima di te stessa.
Sì, sono d’accordo, io volevo dare tutta me stessa a quella cosa, volevo veramente concentrarmi su quello che stavo facendo, e le mancanze che potevo avere su cinema e teatro e sulla cultura in generale me le studiavo da sola. A livello teorico, insomma, cercavo di compensare io con il tempo che avevo in più.
Parlando del tuo ruolo come Suor Luisa nel film “Santo Cielo”, qual è stata la tua reazione quando hai letto la sceneggiatura per la prima volta? C’è stata una scena o un momento che ti ha particolarmente colpito?
Quando ho letto la sceneggiatura di questa follia, ho notato che il mio personaggio non ha una linea presentissima nella trama, è sfaccettato, ha un momento di crisi esistenziale che pone, alla fine, al centro dell’attenzione. Mi sono innamorata del personaggio proprio perché la sua non è una presenza insistente: Suor Luisa è un’osservatrice, che non mette bocca fin quando non prende una decisione irreversibile e diventa quella che detiene il segreto più grande.
Poi, mi sembra giusto fare anche presente che interpreto una suora ma non sono credente, quindi mi sono approcciata ad un ruolo del genere con tanta curiosità e tanto tatto, per riuscire ad interpretare una persona che una fede radicata che viene messa in dubbio.
Poi, c’è una cosa importante che questo film fa, ovvero, evitare di targettizzare l’amore. L’amore è amore, punto, per quanto non convenzionale una famiglia possa essere, come quella del film, appunto. Inoltre, anche se non riguarda il mio personaggio, questo film affronta il tema del divorzio in modo molto aperto, e questo è un altro dei motivi per cui sono contentissima di averne fatto parte. Il film dimostra come non bisogna sentirsi in colpa se non si ama più qualcuno ma si desidera comunque stargli accanto. Insomma, in questo film si parla di amore puro, senza la necessità di dire cos’è giusto e cosa non lo è, cosa si fa e cosa non si deve fare, che è il messaggio più grande che potessero mandare in questo momento storico Ficarra e Picone.
“In questo film si parla di amore puro, senza la necessità di dire cos’è giusto e cosa non lo è, cosa si fa e cosa non si deve fare”
Quando si dice “fa ridere, ma fa anche riflettere”…
Vero, questo credo sia l’obiettivo più importante del film. Ieri ho letto un articolo di Boris Sollazzo sull’Hollywood Reporter che ha detto, “Dopo Barbienheimer, c’è ‘Santo Cielo’, che viene dal filone di ‘C’è ancora domani’ della Cortellesi”. Ed è vero, se ci pensi, perché è un film in cui si ride un po’ meno rispetto agli altri film di Ficarra e Picone, è di cuore, e per me è un passaggio che loro dovevano fare.
Far parte di un cast corale è sicuramente un’esperienza unica. In che modo hai trovato il tuo posto, il tuo equilibrio artistico all’interno del gruppo di attori e quali insegnamenti hai tratto dalla tua interazione con loro sul set?
Innanzitutto, io credo che bisogna sempre approcciarsi sapendo dove ci si trova. La cast list comprendeva me, Barbara Ronchi, Ficarra e Picone, e io ero la ragazza e l’attrice più giovane, esaltata dalla presenza di Barbara Ronchi con cui ho sempre voluto lavorare, così come amerei un giorno lavorare con Vanessa Scalera [ride]. Quindi, io mi sono approcciata con tanto ascolto, ma mi sono presa i miei spazi quando era il mio momento, perché vicino avevo delle persone che me lo permettevano. Io ho lavorato molto di più con Valentino [Picone], che mi ha lasciato improvvisare un sacco, come la scena in cui ballano e si accavallano passione e dono, totalmente improvvisata.
Insomma, ho ascoltato tanto, e approcciato il lavoro con un grande rispetto verso la professione e l’esperienza degli altri, anche e soprattutto perché quando si parla di comici bisogna stare un attimo attenti, perché loro non parlano la normale lingua attoriale, ogni comico parla la propria lingua.
Ognuno ha la propria sensibilità e il proprio humor.
Sì e ognuno ha il proprio ritmo e il proprio tempo e tu devi entrarci dentro. Io per fortuna vengo dalla scuola di Nino Frassica, quindi su questo sono molto avvantaggiata, Nino mi ha insegnato molto, così come Maurizio Lastrico.
La trama di “Santo Cielo” mescola commedia e elementi fantastici. Come hai gestito il tono del film e come hai lavorato per bilanciare il lato comico con le tematiche più profonde della storia (fede, patriarcato, democrazia)?
Premetto che non vedo l’ora di potermi ancora rimettermi in gioco con questo genere per cercare di capire meglio come lavoro. Maurizio Lastrico, a proposito, mi faceva notare che il mio punto forte è la concretezza, che credo sia una delle cose che caratterizzano la mia recitazione in generale. Concretezza nel senso di “stare alle cose che si fanno”, volgarmente chiamata anche “realismo”. Quindi, nelle scene comiche, per quanto mi riguarda, cercavo di stare nella concretezza di questo personaggio puro, con una fede pura, a cui succede una cosa che, nella sua totale ingenuità di fede, dovrebbe creare la stessa situazione comica. Insomma, quando Suor Luisa vede Aristide per la prima volta, mentre ripara la televisione, rimane folgorata, a bocca aperta, e poi viene fuori che sa pure cantare… Sarebbe l’uomo perfetto se soltanto lei non fosse una suora! [ride]
Poi, la concretezza aiuta ancora di più la commozione, quando arriva la parte finale che è la più emozionante.
“il mio punto forte è la concretezza”
Sei molto saggia, quindi ti chiedo: hai qualche consiglio per i giovani che sognano di intraprendere una carriera nell’arte drammatica, basato sulla tua esperienza personale?
Io sono un’attrice non portatrice sana di metodi, ma di cultura. Quindi consiglio vivamente di leggere tanto, scrivere, anche solo per tenere ciò che hai scritto nel cassetto, guardare cose che ti appassionano, e acculturarsi. Io dico sempre che noi attori siamo dei cialtroni, perché sappiamo fare tutto e male; l’importante, quindi, è avere un’infarinatura generale di tutto, magari approfondendo ciò che ci ispira di più! Io per esempio ora appena trovo tempo voglio diventare sommelier, e iscrivermi a Scienze Gastronomiche all’università. Per me nella vita esistono cibo, vino e recitazione!
A livello personale, consiglio anche la terapia. Io la faccio da due anni e mezzo, e mi ha aiutato a fare uno step in più a livello di persona. La terapia, preferibilmente junghiana, è bellissima, perché è un’ora che dedichi a te stessa, con onestà vera, con una persona che ha degli strumenti giusti per insegnarti a farti delle domande e farti conoscere meglio te stesso.
Ecco, consiglio la terapia e la cultura, l’apertura a tutte le arti, che ci dà libertà. Sono recentemente entrata nella fondazione Uno, Nessuno, Centomila, ed è stata un’esperienza davvero emozionante. Io non sono mai stata molto attiva a livello di associazioni, però ho sentito che dovevo prendermi la responsabilità di parlare. È stato bello perché mi sono sentita parte attiva di qualcosa, e quello che bisognerebbe fare, secondo me, o che io sento più di poter fare, è il lavoro di prevenzione, educazione affettiva ai piccoli, che è strumento di libertà. Se tu ai bambini, maschi e femmine, fai capire che sono liberi di poter almeno immaginare di poter fare quello che vogliono, gli insegni anche cos’è la violenza, perché alcuni non la riconoscono, non la sanno distinguere da altro se non cos’è altro.
Io credo fermamente che le arti e la cultura possano renderci liberi, quindi la conoscenza.
Cosa ti fa sentire più al sicuro? E cosa, invece, ti fa sentire più sicura (di te)?
Io sono una pantofolara. Quindi, la mia casa, quella che sento come tale, le quattro mura dentro cui ci sono le mie cose, mi fa sentire al sicuro. Oppure i miei genitori, quando sto con loro mi sento al sicuro e sarà così per sempre, e so di essere fortunata ad avere una mamma e un papà che mi facciano sentire al sicuro.
Su ciò che mi fa sentire più sicura di me, invece, ci sto ancora lavorando [ride]. Sicuramente la terapia mi sta aiutando a sentirmi più sicura di me: con il lavoro che stiamo facendo, molto lento, la sicurezza diventa una cosa indotta quasi inconsciamente. Nel momento in cui mi sento attaccata e indebolita dall’esterno, da chiunque o da qualsiasi cosa che faccia leva sulle mie debolezze, grazie al lavoro di terapia ora riesco a capire che quello è un momento delicato in cui io sono “attaccata” e a reagire acquisendo sicurezza in me stessa. La terapia, quindi, ti dà gli strumenti per capire quando stai vivendo un momento in cui qualcuno o qualcosa sta attaccando le tue fragilità, le tue debolezze e paure, e ad acquisire consapevolezza.
“La terapia, quindi, ti dà gli strumenti per capire…”
La terapia non ti dà direttamente la soluzione, ma ti aiuta a trovarla da te.
Esatto, ti fortifica dotandoti degli strumenti per farlo, e ti rende sicura di te ma inconsciamente, rendendoti in grado di diventarlo automaticamente.
Un epic fail sul set?
[ride] Sui set della Lux, quindi “Don Matteo”, “Blanca”, giro sempre con le stesse persone, quindi siamo famiglia, ci conosciamo da sei anni, quindi ho imparato a prevenire gli epic fail. Detto ciò, ti dico che io sono stitica; c’è stato un periodo in cui stavo male per questo motivo, e sul set di solito non hai mezzo minuto nemmeno per fare una pipì tranquilla, devi imparare a capire quand’è il momento più opportuno per andare in bagno senza far perdere tempo a nessuno. In quel periodo, però, io dovevo necessariamente andare in bagno quando mi scappava, perché sennò era un’occasione persa e finivo all’ospedale. Un giorno, infatti, ho detto: “Ragazzi, probabilmente sto facendo una figura di merda, ma per evitare di renderla ancora più di merda, io la faccio apertamente e vi dico che quando mi scappa la cacca, io devo andare, quindi voi mi dovete aspettare perché è un momento molto delicato”. Quindi questo epic fail l’ho praticamente prevenuto dichiarandolo! [ride].
Il tuo must-have sul set?
Un libro. Devo avere un libro sempre con me. Tra l’altro, sul set io sono sempre quella che gira con uno zaino enorme come se dovesse arrivare un’apocalisse zombie, devo avere con me il mio spazzolino, salviettine intime, l’iPad, gli occhiali, le tisane fredde e calde. Se vieni nel mio camerino, sembra una camera d’hotel! Invito sempre tutti a prendere qualche snack durante le pause [ride]. Ma la cosa più importante è avere sempre un libro o due a portata di mano. Infatti, giro sempre con borse grandi per questo motivo.
Il libro nella tua borsa ora?
“Il caso Bramard” di Davide Longo. Un bellissimo giallo ambientato in nord Italia.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Sto imparando a dire no. Nella vita ho sempre avuto difficoltà a dire di no, ho sempre avuto paura di contraddire le persone, a volte anche semplicemente nelle idee. Quindi, sicuramente l’arte di dire no.
Qual è, invece, la tua più grande paura?
Fino a poco tempo fa, prima di andare in terapia, avevo paura che un giorno mi sarei svegliata e, per la stanchezza di certi meccanismi del nostro mestiere, o per la fatica che in generale si fa, che avrei deciso di non fare più l’attrice. Questa cosa mi spaventava anche perché mi dispiaceva, e magari sarebbe stata solo il risultato di un periodo stressante. Ora so che se dovesse succedere, so che sarebbe un processo naturale, non una decisione presa per paura, ma semplicemente per il bisogno di fermarmi qui.
Poi, ho sempre paura del mare e dell’ignoto, di quello che non posso vedere. Anche se sono pugliese, ma non significa nulla, io vengo dalla campagna [ride].
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Il primo anno di “Blanca”, abbiamo girato questo magnifico episodio in cui dovevamo scendere sott’acqua coi sub… E qui torniamo alla mia paura dell’acqua [ride]. Io avevo un’ansia tremenda, anche perché c’erano delle scene di apnea che è un’altra cosa che mi mette ansia: io dico, siamo umani, non abbiamo le branchie, ma abbiamo i polmoni, perché dobbiamo andare sott’acqua?
Per fortuna, il regista, Giacomo Martelli, ha il brevetto da sub: mi ha messo tanta tranquillità ed è sceso giù con me, insieme ad un carabiniere che, come dice Frankenstein Junior, era “grande quanto un armadio a due ante”. Insomma, ci buttiamo tutti e tre insieme, e la mia maschera, per la pressione, comincia a vibrare fortissimo, e io sento un sacco di bolle davanti alla faccia, senza contare che era aprile e c’erano 13 gradi, quindi l’acqua era freddissima. Il carabiniere, mi prende per una caviglia e piano piano comincia a portarmi giù, perché in effetti la prima cosa che vuoi fare, quando scendi e ti spaventi, è tornare su e poi non vuoi scendere più se lo fai. Una volta giù, comunque, la maschera si stabilizza e io comincio a respirare sott’acqua e mi rilasso. A quel punto, diventa una delle esperienze più bella della mia vita: mi perdo, comincio a nuotare in mezzo ai pesci, fin quando il regista mi raggiunge e mi ricorda che dobbiamo girare [ride]. Insomma, è stato un grandissimo atto di coraggio che però mi ha fatto vivere un’esperienza meravigliosa. È anche questo il bello del nostro lavoro, ti fa mettere in gioco.
Qual è l’ultima cosa che hai imparato su te stessa attraverso il tuo lavoro?
“Blanca” è stata l’ultima cosa più corposa che ho fatto e proprio quella serie mi ha salvata. Ho imparato che ho voglia di rischiare, premettendo che io sono una persona abbastanza matematica, razionale, schematica. Il lavoro di preparazione che ho fatto per quella serie, anche con le persone non vedenti che mi hanno aiutato, mi ha aperto il mondo sull’imprevedibilità, che mi è servito sia a livello lavorativo che personale.
Se non avessi fatto “Blanca”, per esempio, non avrei mai accettato di fare Sanremo. Il Festival infatti mi spaventava, perché non era il mio lavoro quindi era una cosa che potevo controllare solo fino a un certo punto. Per fortuna, sono riuscita a lascarmi andare: ho realizzato che se sono sicura di chi sono e di quello che sto facendo, non ho niente da temere. I miei monologhi, certo, li ho studiati a menadito, con un mese e mezzo di prove, ma per il resto ho pensato: “Sbagliamo e vediamo che succede”. Il mio lavoro doveva consistere nell’andare lì tranquilla, perché se partivo già con dubbi e paure, sarebbe stato solo controproducente. La soluzione per me è stata cercare di ridimensionare l’entità di quello che mi aspettava, per stare più tranquilla. Una tattica che userò più spesso!
“Sbagliamo e vediamo che succede”
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Per me significa, fisicamente, respirare. Quando sono presa da momenti in cui non mi sento a mio agio, respiro, conto fino a dieci, e poi prendo la decisione che devo prendere, che sia lasciare una situazione perché non ho niente da dire, che sia affrontare una situazione perché è giusto affrontarla.
Quando sto a casa e sento mi sento inquieta perché c’è una situazione che non mi fa stare tranquilla, faccio yoga, oppure esco a fare attività fisica, ultimamente per esempio vado con mia sorella a fare arrampicata, che ti fa proprio staccare il cervello. Il lavoro sul corpo ti aiuta tanto a staccare il cervello quando si radica su certe cose che non esistono. Invece il corpo è concreto, c’è, vive, e quando senti fisicamente delle cose come quando fai sport, smetti di pensare. Io quando faccio qualcosa di fisico mi sento a mio agio, perché esco fuori da me.
L’ultima cosa o persona che ti hanno fatta sorridere?
Direi mia sorella Francesca. Poi anche Valentino Picone, ma con lui gioco facile.
La tua isola felice?
Ho in mente un posto ben preciso. Però è un segreto.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup and Hair by Elisabetta Distante.
Styling by Francesca Ottaviani.
Location: Hotel Turner – Des Epoques Hotel.
Thanks to Lapalumbo Comunicazione.
LOOK 1
Dress and shoes: Fendi
LOOK 2
Top, skirt and blazer: Federica Tosi
LOOK 3
Blazer and skirt: Alessandro Vigilante