Il cambiamento ha inizio con la rivoluzione.
La rivoluzione ha inizio con l’indignazione.
Marina Spadafora ci ricorda questo mantra ogni giorno: coordinatrice di Fashion Revolution Italia, ambasciatrice di moda etica, Senior Design Consultant, scrittrice e insegnante, con le sue azioni e parole ci dimostra quanto sia una responsabilità di tutti noi prenderci cura del nostro pianeta e degli altri. Un tema, quello della responsabilità, che si intreccia con quello della sostenibilità come due fili di una trama preziosa, che coinvolge chiunque, nuove e vecchie generazioni, a urlare per farsi sentire da chi detiene il potere e per permettere in questo modo alla rivoluzione di raggiungere il suo scopo.
Quello di rendere il mondo un posto migliore, scelta etica dopo scelta etica, mossa politica dopo scelta politica, e via dicendo. Perchè le cose sembrano sempre impossibili finché non vengono fatte: in occasione della Venice Fashion Week, dove Marina ha preso parte come relatrice della Giornata della Moda Sostenibile, abbiamo chiacchierato con lei dell’importanza di indignarsi e di prendere in pugno la situazione per rendere la sostenibilità “cool“, attuale e imprescindibile. Insieme. Adesso.
Anche questa Venice Fashion Week ci ha ricordato che, oltre a parlare di sostenibilità, si dovrebbe includere nel discorso anche il tema della responsabilità. Per te, in che modo questi due concetti sono sinonimi?
Per me sono sinonimi (e anche molto vicini) perché ormai il termine sostenibilità è sulla bocca di tutti e a volte anche un po’ a sproposito. Quindi, a noi che siamo in questo campo da tanti anni, piace forse di più utilizzare la parola “responsabilità”, perché, in realtà, se tu fai qualcosa in maniera responsabile automaticamente è sostenibile. Dunque, le due parole sono intercambiabili, a mio avviso, e la parola “responsabilità” è un po’ meno abusata e ci piace di più.
Il cambiamento è possibile attraverso l’impegno sia personale che pubblico, e deve essere supportato da una corretta comunicazione. In questi anni di dibattiti sempre più (per fortuna) insistenti sulla sostenibilità nella moda, ce qualcosa che ti ha colpita in positivo? E qualcosa che invece senti che manchi ancora?
Io credo che non se ne parli ancora abbastanza, dovrebbe essere un discorso più presente sui media “classici”, dovrebbe passare al telegiornale, bisognerebbe parlarne tutti i giorni, che è quello per cui Greta Thunberg ha iniziato la sua campagna, infatti lei diceva “qui il mondo sta andando in malora e non ne parla mai nessuno”. Quindi, secondo me, manca ancora tantissimo, soprattutto nella comunicazione ufficiale in Italia, per esempio quella della Rai, del Corriere della Sera o della Repubblica, ovvero dei media istituzionali.
Quando mi hanno chiesto di fare il Coordinatore Nazionale di Fashion Revolution, quand’è nata nel 2014, ciò che mi aveva colpito di questo movimento era il modo di comunicare: Orsola de Castro, da Creative Director, aveva trovato una chiave molto pop e divertente di parlare di un soggetto che non era per nulla divertente. Tuttavia, facendola molto colorata, con le scritte strong tipo graffiti, eccetera, lei è riuscita ad attrarre i giovani, e quello per me è un esempio di successful communication. Fashion Revolution è riuscita a dare un messaggio forte, ma con allegria e con leggerezza. A volte, quando si parla di questi temi, si rischia di diventare veramente pesanti, perché mi rendo conto che quando io parlo con i miei studenti, devo sempre cercare di fare un controbilancio, dicendo “però possiamo fare questo”, “però esiste la possibilità di momenti in cui le cose vanno meglio”; quindi, è molto importante essere propositivi ed essere anche attractive.
Due o tre anni fa, siamo stati invitati da Orsola alla Fashion Revolution Week a Londra e abbiamo partecipato a tantissime attività, tra cui workshop di illustrazione, talk, e molto altro: si parlava di sostenibilità in maniera precisamente attraente…
Esatto, perché la sostenibilità ha un “cattivo nome”. Quando è iniziato tutto negli anni ’70, si trattava veramente di hippie col sacco di juta e calzini di ortica e le Birkenstock, quando non andavano di moda [ride]. Se hai questa visuale, e pensi che all’inizio i tessuti sostenibili erano brutti, ruvidi, unattractive, capisci come quello ci sia pesato per tanti anni. Spiegare adesso ai ragazzi che la sostenibilità è anche cool, attractive, bella non è cosa ovvia, perché sussiste ancora questo immaginario collettivo.
Ci si rivolge soprattutto ai giovani quando si parla di sostenibilità nella moda e non solo, ed è un argomento al quale non si sono dimostrati sordi, ne è un esempio il rinnovato interesse verso argomenti come vintage e upcycling. Il discorso comunque riguarda tutti noi indipendentemente dall’età, ma cosa cambia per te nel dialogo tra le varie generazioni sull’argomento?
A mio avviso, bisogna far capire ai ragazzi che la responsabilità, in qualsiasi azione noi facciamo, è una cosa che si può raggiungere, che si può implementare: si tratta semplicemente di essere presenti nel momento presente, nel fare quello che si fa, e farlo con coscienza. Bisogna dirglielo, secondo me, senza colpevolizzare, non bisogna far ricadere sui ragazzi questo senso di pesantezza, anche perché è tutta colpa nostra, cioè delle generazioni precedenti, quindi è inutile che facciamo tanto i ganzi [ride]. Abbiamo creato un disastro. Adesso quelli di noi che sono consapevoli stanno cercando di “aggiustare”, ma dobbiamo chiamare i ragazzi e coinvolgerli di nuovo in maniera non punitiva, non sensazionalistica, da “The Day After Tomorrow”, dobbiamo dire: “Ragazzi, se ci mettiamo tutti insieme e ognuno fa la propria piccola parte, ce la possiamo fare. Facciamolo, non abbiamo tanto tempo, ma let’s do it”.
La cosa importante da capire è che va benissimo fare delle piccole azioni quotidiane che ci avvicinano, ma è arrivato il momento dell’essere coinvolti seriamente. Come diceva prima l’oceanografa nel convegno di poco fa, tutto quello che facciamo è politico: ogni acquisto che facciamo non è solo un’azione economica, è assolutamente un’azione politica, perché se io vado a comprare qualcosa da un brand che si comporta male, io sto in effetti andando a finanziare quel brand con i miei soldi. Se tu non vuoi essere associato a qualcuno che sfrutta i bambini in fabbrica, che inquina, eccetera, astieniti, non comprare.
Quindi, informazione, educazione, ma coinvolgenti, educazione che abbraccia, che dice “we can do it together”, scendendo dalla “cattedra” ed entrando in contatto, con un fattore umano molto importante.
Siamo ufficialmente ad aprile, dove ricordiamo l’Earth Day e l’anniversario del disastro del Rana Plaza, dal quale ha avuto vita il movimento Fashion Revolution di cui sei coordinatrice per l’Italia. Quest’anno saranno 10 anni dal disastro: come descriveresti il tuo percorso di rivoluzione fino ad oggi?
Il mio è un percorso in continua evoluzione. Io ho iniziato a interessarmi di sostenibilità più o meno nel 2006 ed è da allora che sono consistente, sto facendo tanti progetti, tanta educazione, tanto di tutto. Anche dal punto di vista industriale, dopo la tragedia del Rana Plaza, ad esempio, è stato stipulato l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh per cui tante fabbriche in Bangladesh sono state messe in sicurezza, quindi è una cosa positiva; quello che è negativo è che è un accordo che va rinnovato ogni anno, quindi ogni anno bisogna andare a rincorrere tutti i brand che producono in Bangladesh e implorarli di firmarlo di nuovo, questa è la grande fregatura. Però almeno c’è e ciò significa che stiamo evolvendo, purtroppo, credo, non abbastanza velocemente, ma le cose si stanno muovendo.
Focalizzandoci sull’Italia, come può il nostro paese valorizzare il patrimonio di moda, saperi e how-to tradizionali in modo sostenibile ed etico?
Secondo me, noi abbiamo un patrimonio incredibile dal punto di vista tessile che è stato un po’ buttato alle ortiche quando abbiamo aperto la delocalizzazione selvaggia senza che il governo imponesse delle regole. Per cui, sei un’azienda e vuoi produrre il 40-50 %all’estero? Bene, ma il resto lo devi produrre in Italia – ecco, ci vuole, strategia.
Poi, la classe politica, governo dopo governo, non si sta rendendo conto che l’industria tessile è un’industria strategica per questo paese. Io sono stata invitata a parlare al Senato, quando c’era da decidere come investire il PNRR, dove ho fatto una presentazione e li ho un po’ bastonati, sottolineando come la tessile sia la seconda industria in questo paese per creazione di posti di lavoro e altre cose, ma vogliamo dargli un po’ di aiuto e di rispetto? Ci vuole più supporto a livello istituzionale, più riconoscimento, e più serietà da parte dei nostri politici per riconoscere un ruolo a questa industria. E anche più regole, basta con questa roba selvaggia, il Made in Italy bisogna cambiarlo, non puoi dire che è Made in Italy perché hai attaccato un bottone all’ultimo minuto in Italia e poi invece è stato fatto da un’altra parte…
Il libro sul tuo comodino ora? E, a proposito, tra i tuoi progetti rientra scriverne un altro?
Adesso sto leggendo un libro di Naomi Klein che si chiama “This Changes Everything”, in italiano “questo cambia tutto”, e parla della crisi climatica, e lei dice come questa crisi che accomuna tutta l’umanità, un po’ come il Covid, è qualcosa che succede a tutti. L’autrice dice che se noi siamo intelligenti nel gestire questa cosa a livello popolare, possiamo veramente cambiare tutto, perché ci sono state altre istanze nella storia dove l’indignazione dei cittadini ha fatto abolire la schiavitù, dare il diritto di voto alle donne, abolire la segregazione razziale negli Stati Uniti, l’Apartheid in Sud Africa.
Noi ci dobbiamo indignare, seriamente, e quindi far succedere queste cose, è fondamentale. Quindi, più attivismo, più metterci la faccia e sporcarsi le mani.
Thanks to Venice Fashion Week and Venezia da Vivere.
If you are an EU citizen, sign the Good Clothes, Fair Pay campaign, which demands living wage legislation across the garment, textile and footwear sector.