Dall’altro capo della linea, uccellini in sottofondo, un vociare allegro che minaccia interferenze ma non interferisce mai davvero con il flusso di pensieri, né compromette l’attenzione. Matteo Paolillo fa discorsi e osservazioni che rapiscono, comunicano passione e sentimenti sotto certi versi controtendenza, perché dalla tendenza non sono stati raffreddati.
Non a caso, durante lo shooting, dei quattro elementi è il fuoco quello che sul set ci rapisce tutti, un fiammifero dopo l’altro: tra fumo negli occhi e dita bruciacchiate, ridiamo accaldati e incantati dal più pericoloso e affascinante ingrediente della natura.
Con il fuoco dentro ad accendere e ravvivare un talento e una consapevolezza di sé e dell’altro più unici che rari, Matteo interpreta uno tra i personaggi più amati e più complessi della serie “Mare Fuori”: il giovane detenuto Edoardo, la tigre sensibile in una gabbia di leoni e agnelli. “Edoa’, a dispetto della superficialità che ti circonda, non vergognarti della tua fragilità”: questo è il consiglio di Matteo per un personaggio che, se fosse suo amico, vorrebbe salvare da tante scelte sbagliate e dalla “mancanza d’amore che genera il male”.
Come aria, acqua, terra e fuoco coesistono più o meno pacificamente e insieme si fanno vita, così i ragazzi di “Mare Fuori” convivono e si muovono in un mondo che rispetto al nostro è meno distante di quanto crediamo: un ecosistema animato da una grande voglia di sfidare la natura, di amare, di odiare, di sopravvivere e di vivere.
La recitazione è sempre stata la tua passione, hai iniziato da piccolissimo. Com’è nato questo amore? Qual è il tuo primo ricordo legato a questo mondo?
Di base, io ho sempre nutrito un fascino per l’arte cinematografica, più di quella teatrale, perché mio padre è un grande appassionato di cinema. Sono cresciuto con le sue proiezioni serali, con i film che ci proponeva. Da più grande, poi, quando sono arrivato a 13 anni, un amico di mio padre ha fatto uno spettacolo nel mio quartiere, e quella per me è stata la prima volta in cui ho visto il teatro con interesse. Allora, ho capito davvero che lui stava recitando, perché quando sei piccolo, magari vedi gli attori a teatro e non capisci cosa stanno facendo; invece, vederlo fare da una persona che conoscevo, che si comportava diversamente da come io lo conoscevo, mi ha aperto gli occhi e proprio tramite lui ho iniziato a fare le prime cose amatoriali a teatro.
Secondo me, è importante capire che la recitazione avviene solamente in circostanze immaginarie, cosa che a volte penso si fraintenda o si dimentichi un po’. Quella volta di cui ti parlavo, infatti, è stata la prima volta in cui io ho capito le circostanze immaginarie.
Parliamo di “Mare Fuori”. La serie è principalmente ambientata in un carcere minorile, ispirato all’Istituto Penale Minorile di Nisida, ma so che voi avete girato in una base navale della Marina Militare a Napoli. Avete mai visitato l’istituto vero? Se sì, che effetto ti ha fatto, personalmente?
Io l’Istituto l’ho visitato due volte: una volta in gita alle medie, e poi un’altra volta 10 anni dopo con gli altri ragazzi del cast, durante le riprese della prima stagione, ed entrambe le volte abbiamo parlato con alcuni dei detenuti. Quando ci siamo andati per la serie, abbiamo avuto la possibilità di entrare per assistere alla lezione di recitazione, perché lì c’era un gruppo di ragazzi che seguiva un corso. Quindi abbiamo conosciuto loro, ma anche i ragazzi che facevano ricreazione, per esempio. L’effetto che mi ha fatto è stato innanzitutto tanta tristezza, perché empatizzi col fatto che queste persone sono lì e chissà quando usciranno; poi, soprattutto, essendo alcuni così piccoli, non ti passa nemmeno per la testa l’idea di giudicarli, di puntargli il dito contro. Alla fine, anche la serie racconta questa cosa, ovvero che ci sono dei minorenni che sbagliano perché è il contesto e il mondo intorno a loro che li ha cresciuti in maniera sbagliata, la responsabilità non può essere completamente loro. Quindi, vedere dei ragazzi in un’età così innocente, la maggior parte chiusi lì dentro per omicidio o per altri reati più o meno pesanti è stato abbastanza straniante, forse il primo approccio surreale alla vita che ho avuto prima della pandemia.
Tra l’altro, avevamo già iniziato le riprese della prima stagione quando ci siamo andati, quindi questo ci ha anche aiutati ad aggiustare il tiro e a capire se le scelte che avevamo fatto sui personaggi fossero giuste.
Come ti ha cambiato il tuo personaggio?
Non è un ruolo facile, Edoardo è un giovane boss, arrestato per spaccio, nato in un mondo violento e criminale, che quasi pensa essere l’unico mondo possibile. Credi che la versione di te dopo averlo interpretato sia diversa dalla versione di te prima di far parte di questo progetto?
Io penso che quando lavori ad un personaggio cambi sempre, perché entri in empatia con cose a cui magari prima non ti saresti mai accostato. Sicuramente, il mio personaggio in primis ha cambiato il mio approccio con Napoli, una città che non avevo mai vissuto e che così ho avuto modo di approfondire, sia perché Edoardo viene da Napoli sia perché ci ho abitato durante le riprese. Poi, mi ha messo in contatto con le scelte che facciamo durante la nostra vita, ed è di questo che si parla nella serie, alla fine. Quindi, l’istruzione, la cultura, ma anche le persone positive in cui ci imbattiamo possono aiutarci a fare la scelta giusta, in qualche modo, perché c’è bisogno di più strumenti e più competenze possibili per fare la scelta non solo più moralmente giusta, ma anche più giusta rispetto a quello che si vuole essere. In fin dei conti, questi ragazzi sanno benissimo quello a cui vanno incontro, sanno benissimo che il loro futuro è o in carcere, o latitanti a vita, o morti, però sono convinti che le loro siano scelte giuste, che questo stile di vita sia la loro miglior opzione.
A me, invece, ha acceso una luce su come io voglio vivere la mia vita, ovvero in pace, con questi uccellini di sottofondo, no? [ride]
Edoardo, per esempio, ha la passione della poesia, e sarebbe anche un bravo scrittore se solo si impegnasse per davvero, ma ha difficoltà ad impegnarsi in cose che siano “fuori dai canoni” a cui è stato abituato. Qual è un consiglio che gli daresti, da amico?
Questo rapporto con la poesia è stato inserito in sceneggiatura inizialmente come arma di seduzione, che Edoardo usa con Teresa; io, invece, ho preso quest’elemento per entrare in contatto con il mio modo di fare poesia, di scrivere canzoni, e quindi sono partito da qui per raccontare Edoardo come un personaggio che sia un po’ più sensibile rispetto al suo contesto, che quindi viva anche il disagio della superficialità che gli sta intorno.
Il consiglio che posso dare a Edoardo è di non vergognarsi della sua sensibilità, che è quello che dice Serena nella prima stagione: “Sei un artista e non ti devi vergognare dei tuoi sentimenti”. Invece, a causa di tutta la sofferenza che si trova intorno, della mancanza d’amore che genera il male, Edoardo si trova da solo: Totò viene trasferito, il suo compagno di cella e amico storico muore, le cose con Teresa non vanno così bene; tutta questa solitudine genera un allontanamento dall’accettazione della propria sensibilità, quindi lui tende a mostrarsi più “forte”. In questa terza stagione, Edoardo è molto più fragile, per quanto possa apparire molto più forte e molto più cattivo, ma non si è mai solo buoni o solo cattivi, c’è sempre una controparte. Tutta la forza che ostenterà, in realtà, sarà frutto di una fragilità più intensa.
Una vulnerabilità da cui lui vorrebbe fuggire, ma non è possibile.
Sì, perché lui vive in un contesto in cui non puoi essere debole, in cui cresci con un’educazione improntata alla legge del più forte; quindi, il fatto che Edoardo sia sensibile viene visto come una debolezza.
Ma la verità è che sono le fragilità ciò che ci rende umani.
“La mancanza d’amore che genera il male”
Quando reciti, di solito sei più razionale o istintivo?
Ci sono varie scuole di pensiero in recitazione. Tendenzialmente si pensa che l’approccio istintivo significhi andare sul set senza avere la minima idea di cosa si stia facendo. La solita frase che cita anche Marlon Brando, “non leggere la sceneggiatura”, è stata forse fraintesa, un po’ come i Vangeli apocrifi [ride]. Marlon Brando non sapeva le battute, leggeva sui post-it e cose così, però faceva un grosso lavoro sul personaggio prima di arrivare sul set, infatti parliamo di un genio. Io penso che il lavoro dell’attore sia un lavoro razionale e istintivo: razionale perché consciamente andiamo a raccogliere la maggior parte delle informazioni su quello che possa essere il nostro personaggio, per costruire un mondo che possa essere lontano da noi, però poi bisogna arrivare sul set che si è già preparati, ma poi dimenticarsi completamente tutto quello che si ha studiato e non essere “intellettuali” ma più istintivi e seguire gli impulsi, andare dove ci porta il nostro istinto – noi sappiamo come comincia e come finisce la scena, ma non sappiamo quello che succede nel mezzo, e questo secondo me va lasciato all’istinto. La razionalità si fa necessaria nel momento in cui bisogna mettere dei paletti, che sono fondamentali per andare avanti nella storia, però tutto il resto fa parte della creazione, e la cosa bella di questo lavoro è che la creazione avviene in quell’istante lì, non è ripetibile, non è controllabile.
Non mi piace definirmi un attore razionale, perché “razionale” sa di “intellettuale”, invece il nostro non è un lavoro intellettuale, quella è la critica; non è neanche un lavoro istintivo, però, perché “istintivo” sa di “completamente inconsapevole”, sa di “non studiato”, e invece il nostro è un lavoro che va studiato, ed è questa la difficoltà!
E con Edoardo che approccio hai adottato?
Il mio approccio è sempre lo stesso, più o meno, anche se io negli anni continuo a studiare, a fare ricerche, perché il nostro lavoro è anche la ricerca, quindi il mio approccio è ovviamente cambiato nel corso del tempo. In questa terza stagione esploro un po’ più a fondo l’emotività, e il bello di questo personaggio è che mi ha permesso innanzitutto di fare un lavoro più ampio, perché quando si tratta di una serie, hai modo di approfondire il tuo personaggio sotto tanti aspetti; poi, essendo Edoardo molto impulsivo, ha concesso a me di lasciarmi andare di più agli impulsi, perché una volta che conosci bene il personaggio, ti lasci un po’ guidare da lui: magari, dei personaggi più introversi ti danno meno la possibilità di seguire il tuo istinto, perché tante cose non le farebbero, invece Edoardo funziona bene con l’istinto, che ha la meglio sulla scena.
Sono anche state confermate una quarta, quinta e sesta stagione di “Mare Fuori”. Quali sviluppi e cambiamenti dovremmo aspettarci? E tu cosa ti aspetti, cosa speri che succeda nel futuro dei personaggi?
Questo non lo riesco a immaginare, non ne ho la minima idea! Però, penso che ormai si sia creato un micro mondo a cui il pubblico si è affezionato e quindi c’è tutta la volontà di continuare ad approfondirlo, anche se alla fine il mistero è la cosa più interessante. Secondo me, andando ad approfondire troppo le storie dei personaggi ci si allontana dall’aspettativa del pubblico: una volta che conosci i personaggi, il pubblico immagina il loro potenziale futuro, e poi a volte resta deluso dalle scelte degli sceneggiatori, perché poi alla fine sono loro che decidono.
Sicuramente, per la quarta stagione mi aspetto dei nuovi attori, bravi, all’altezza della qualità della serie: ci sarà, infatti, un ricambio generazionale, anche perché io, per esempio, quest’anno compio 28 anni, e quindi a un certo punto nel carcere minorile non ci sto più troppo bene! [ride]
“Alla fine, il mistero è la cosa più interessante”.
Questo terzo capitolo vede i protagonisti confrontarsi ancora una volta con gli scogli della crescita, affrontare la potenza di nuovi sentimenti, in particolare quelli che si celano dietro agli atti d’amore e al lasciarsi più o meno trasportare da questi ultimi: viene, insomma, testata, la capacità di amare di questi ragazzi? Quale messaggio speri arrivi più di tutti agli spettatori questa volta?
Guarda, la mia impressione è che questa terza stagione si soffermi di più sul tema del fallimento, la difficoltà dell’andare avanti.
Sicuramente, parla di storie d’amore e d’amicizia, però va più a fondo in quelle che sono le difficoltà del costruirle. Il messaggio, quindi, probabilmente è quello di non mollare tutto quando ci si trova davanti degli ostacoli, perché invece tanti personaggi mollano e poi si ritrovano ad affrontare delle conseguenze disastrose. È ancora una volta un discorso di vulnerabilità: molto spesso non ci piace mostrarci vulnerabili, quindi questo ci fa entrare in meccanismi di difesa per cui facciamo del male agli altri per evitare di farlo a noi stessi. Io sono convinto che il male torni sempre indietro, così come se fai del bene, poi questo ti torna indietro, anche e soprattutto quando stai soffrendo; però, ovviamente, questo è un mio pensiero ed è difficile che venga accettato dai personaggi della serie.
Il mondo di “Mare Fuori” si estende al mondo presente, perché i protagonisti, al di là del fatto che sono ragazzi che hanno sbagliato, sono comunque giovani che si approcciano alle prime storie d’amore, alle relazioni di amicizia, sono ragazzi come noi, con la voglia di vivere, di amare, di mettersi in gioco. Quando sono entrato a Nisida, non ho trovato dei mostri, ma ho trovato dei ragazzi normalissimi, che erano lì con degli evidenti problemi. Infatti, anche nel nostro mondo è diffusa questa difficoltà nel mostrarsi vulnerabili, specialmente nell’era in cui stiamo vivendo ora.
Cambiando territorio, invece, nel mondo della musica ti chiami “Icaro”, come il personaggio mitico dalle ali di cera, punito dagli dei per la sua eccessiva ambizione e impazienza. Perché questo pseudonimo? Ti rivedi in Icaro sotto qualche aspetto?
Sì, mi ci rivedo in Icaro e riconosco la mia generazione e quella successiva in questo mito. Soprattutto le canzoni che facevo inizialmente si concentravano molto su questo tema, cioè quello dell’estrema ambizione e, di conseguenza, del fallimento e della paura del fallimento.
Oggi soffriamo tanto la cosiddetta “crisi dei 30 anni”, ovvero entriamo in crisi per il fatto che a 30 anni non siamo come i nostri genitori erano a 20 anni, ma non ci rendiamo conto che i tempi sono cambiati, le aspettative di vita si sono allungate, la quota 100 è diventata la quota 103 [ride] e questo crea uno scompenso. Oggi facciamo tutto in un’età più avanzata, andiamo più tardi in pensione e di conseguenza più tardi riusciamo a realizzarci nella vita.
“L’estrema ambizione“
Hai dedicato il tuo EP d’esordio, “Edo”, proprio al tuo personaggio di “Mare Fuori”, e così musica e fiction si sono intrecciate. Ti capita spesso?
La mia ambizione è quella di unificare nel prodotto finale quella che è sempre stata la mia forma, perché la musica mi ha sempre aiutato a lavorare sui personaggi, così come i personaggi mi hanno sempre aiutato nella musica. Il primo è stato il personaggio di Icaro, e poi Edoardo: la sigla di “Mare Fuori”, per esempio, è venuta fuori dal lavoro sul mio personaggio.
La mia ambizione è quella di portare avanti le due forme d’arte che sto coltivando, ma anche di unirle sottoforma di alcuni prodotti: per esempio, nei videoclip è un’operazione che posso fare, quest’unificazione, mettendo recitazione e musica insieme, o anche nei concerti. La mia ambizione, infatti, è quella di costruire un progetto musicale ben strutturato in modo che poi quando faccio i concerti posso creare una forma di performance che sia al contempo musicale e recitativa.
Quindi, per “Mare Fuori”, tu e il tuo gruppo avete scritto alcuni pezzi della colonna sonora, tra cui la sigla, come dicevi. Ricordi la primissima canzone che hai scritto?
La primissima canzone che ho scritto si chiamava “Benjamin Button” [ride]: immaginavo proprio il personaggio che cantava la canzone! Era una cosa super rudimentale, infatti io ho incominciato facendo free-style, improvvisando, quindi facendo cose con poco contenuto. Poi, il 5 febbraio 2015 è uscito “Hellvisback” di Salmo: quando ho ascoltato quel disco, ho pensato, “Okay, voglio cominciare a scrivere”. Da allora ho cominciato a fare delle canzoni un po’… un po’ schifose [ride].
Io credo molto nella filosofia di Hokusai, che dice “probabilmente a 80 anni, dopo che avrò fatto un milione di disegni, comincerò a fare il mio primo vero disegno”; anzi, ti leggo la citazione precisa, perché è bellissima, l’ho scoperta quando sono andato a vedere una mostra di Hokusai all’Ara Pacis:
“Dall’età di 6 anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e dai 50 pubblico spesso disegni, tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A 73 ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a 86 progredirò oltre; a 90 ne avrò approfondito ancor di più il senso recondito e a 100 anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò 110, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Se posso esprimere un desiderio, prego quelli tra loro signori che godranno di lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato”.
Quindi, lui ha scritto questa cosa quando aveva 73 anni praticamente dicendosi che quello che aveva fatto fino ad allora non era stato degno di nota! [ride]
Qual è il tuo pezzo a cui sei più affezionato?
Il pezzo a cui sono più affezionato è quello che ancora non ho scritto.
E il tuo ultimo pezzo, “Luce al buio”, di cosa parla?
Questo pezzo è stato un viaggio che abbiamo fatto io e SAC1, l’artista con cui faccio il featuring. Parla di un amore perduto, della malinconia, della nostalgia di ricordi dolci che diventano amari, del fatto che alla fine gli amanti stanno al buio perché è l’amore a illuminarli. Ad ogni modo, sto scrivendo tanta musica, quindi presto ci saranno altre cose belle da sentire.
Che “ruolo” hanno il cinema e la musica, rispettivamente, nella tua vita?
La musica è qualcosa che mi guida da sveglio, quotidianamente, che mi accompagna in ogni momento della giornata: ho la playlist del mattino, la playlist del pranzo, la playlist della sera. Il cinema invece per me fa parte del mondo onirico, quello dei sogni. Secondo me, è così che va vissuta la recitazione; quando lavoro ad un personaggio da sveglio, ci lavoro anche con la musica, e poi quando sono in scena ci lavoro da dormiente. È un po’ la contrapposizione tra conscio e inconscio: con la musica ho un approccio più conscio, sensoriale, attraverso l’udito, l’immaginazione, invece con il cinema, anche quando guardo un film, alla fine è un po’ come se stessi dormendo.
“La contrapposizione tra conscio e inconscio”
Qual è la canzone o l’album che descrive questo momento preciso della tua vita?
Ascolto continuamente l’album “Astro World” di Travis Scott: sul serio, lo ascolto quasi tutti i giorni.
Il tuo ultimo binge-watch?
In realtà, è difficile che faccia binge-watching, perché tra tutti gli impegni che ho mi resta poco tempo per guardare le serie. Capita più spesso che guardi un paio di puntate alla volta. Però, una tra le ultime serie che ho visto, finita in tre giorni insieme a mio padre, è “The Bad Guy”, veramente bella, sono contento che in Italia si sia fatto un prodotto del genere e spero che lo vedano tutti gli italiani che dicono che in Italia non si fanno prodotti di qualità! Poi, il pubblico è libero di fare quello che vuole, oggi abbiamo piattaforme globali su cui possiamo guardare anche i film norvegesi, però la cosa brutta è che ci sono tanti attori che dicono, “no, io le cose italiane non le guardo”, ma vogliono lavorare in Italia… E poi magari gli chiedi chi è Virzì e loro non lo sanno!
“The Bad Guy” dà un barlume di speranza a chi non crede nelle produzioni italiane, dimostrando come in realtà qui vengano fatti tanti prodotti di qualità, anche se spesso non vengono pubblicizzati come quelli più mainstream. È una di quelle serie che mi rendono fiero di essere un attore italiano.
Hai un “comfort film”, un film che guarderesti anche un milione di volte perché ti fa stare bene?
I film della Disney! Infatti da quando ho Disney+, la svolta!
E una canzone con lo stesso potere?
“Highest in the Room” di Travis Scott.
Un epic fail sul set?
Mi viene in mente una scena che abbiamo girato con Antonio Orefice e Carmine Recano, durante la seconda stagione di “Mare Fuori”: un piano sequenza di due o tre minuti in cui il Comandante entra nella cella di isolamento per dirci di seguirlo perché abbiamo l’hashish. Questa scena non riuscivamo a portarla a termine, perché alla fine del piano sequenza, quando Antonio dice in dialetto, “Che facciamo, ce ne andiamo?”, noi scoppiavamo sempre a ridere e quindi dovevamo ricominciare daccapo. L’abbiamo fatta 14 volte e l’unico take buono che abbiamo è il quattordicesimo, perché io e il Comandante scappiamo dall’inquadratura per non metterci a ridere in campo. Per dirti, c’erano dei take in cui il Comandante apriva anche solo la porta e noi scoppiavamo a ridere, perché eravamo entrati in un loop in cui sapevamo che Antonio ci avrebbe fatto ridere [ride].
Il tuo must-have sul set?
Un oggetto in cui sono concentrate le energie del personaggio, è una mia fisima [ride]. Ad esempio, sul set di “Mare Fuori” avevo una specie di tigrotto che mi ha accompagnato per le prime due stagioni, perché poi l’ho dato in beneficienza all’asta, quindi non ce l’ho avuto più durante la terza.
Un’altra cosa che ti svelo, perché non lo sa nessuno, è che devo avere sempre con me un foglio che io chiamo “La Pergamena”, su cui scrivo tutte le mie scene e l’obiettivo del personaggio, scritto molto molto piccolo: lo piego in 12 colonne in modo che diventi un fogliettino che porto sempre con me, così so sempre cos’è successo prima e cosa succede dopo; infatti, magari spesso arrivi sul set e ti dicono “giriamo la scena 240, la 160 e la 720” e tu non sai cos’è successo in mezzo, quindi la Pergamena mi aiuta ad avere sempre una direzione chiara in mente.
Il tuo più grande atto di ribellione.
Mettere sempre in dubbio la verità. Anche quando ero al liceo, faticavo ad accettare che la verità fosse quella che in qualche modo veniva imposta, al livello di informazioni, non di certo sull’educazione. Questo me lo sono portato dietro anche durante gli studi di recitazione, magari molte volte con un approccio accademico. Spesso, tanti attori prendono quello che dice il professore come verità assoluta, quando in realtà anche il professore in qualche modo può avere i suoi limiti, sicuramente ne capisce, ma non ha scritto il testamento di Stanislavskij.
Secondo me è importante mettere sempre in dubbio la verità e questo l’ho riscontrato anche quando sono stato in Nepal. Durante quel viaggio, ho visitato un monastero tibetano: la gente lì fa delle preghiere leggendo dai testi sacri che parlano della natura dell’uomo, e poi tutti si riuniscono e ne discutono, mettendo in qualche modo in dubbio i testi sacri, perché esprimono dei dubbi su quello che c’è scritto. Per esempio, quando gli ho chiesto di cosa parlassero durante quegli incontri, un monaco mi ha risposto:
“Se nulla è permanente, come possono esserlo i nostri discorsi?”.
È una filosofia in cui loro credono molto, il fatto di mettere sempre in dubbio la verità. Penso che questo potrebbe essere il mio più grande atto di ribellione, ovvero non accettare mai le cose ciecamente, perché ognuno di noi dentro ha la propria verità.
“Se nulla è permanente, come possono esserlo i nostri discorsi?”
Di cosa hai paura, invece?
Sono tante le cose che mi preoccupano… In particolare, ho paura della direzione che sta prendendo l’umanità, perché io posso anche avere un certo sguardo sul mondo, ma alla fine le cose poi ricadono anche su di me.
Ho paura di essere vittima del raffreddamento dei sentimenti, di essere vittima del perfezionismo: banalmente, siamo partiti con i filtri su Instagram, adesso ci sono gli avatar, arriverà il Metaverso, e ognuno di noi dovrà essere perfetto e simile a un robot. Questa è la mia paura: l’impatto dei robot sull’umanità, il momento in cui non saremo più noi a servirci della macchina, ma la macchina a servirsi di noi.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
È quel momento in cui, dopo mesi e mesi dentro la pelle di qualcun altro, faccio un lavoro per ritrovare me stesso. È accettare quello che sono, con i miei limiti, imperfezioni, difetti. Secondo me, per sentirsi a proprio agio nella propria pelle bisogna circondarsi di persone che ti vogliono veramente bene per quello che sei e non per quello che hai.
L’ultima cosa o persona che ti ha fatto sorridere?
Mio padre, tre minuti fa [ride].
Qual è la tua isola felice?
La mia isola felice è la chitarra che ho in camera mia, che quando sono triste mi tira su.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Sofia Caspani.
Styling by Samanta Pardini.
Styling assistant Greta Monticone.
Thanks to Amendola Comunicazione.
Thanks to Giuseppe Corallo.
LOOK 1
Shirt: Bonsai
Pants: Sandro Paris
LOOK 2
Total Look: Sandro Paris
LOOK 3
Sweater: Sandro Paris
LOOK 4
Sweater: Missoni