In una conversazione Zoom sull’asse Milano-Los Angeles, ho avuto il piacere di chiacchierare con Matthew Broome, una stella nascente del cinema e il protagonista del nuovo film di Prime Video “È colpa mia: Londra”. L’autenticità di Matthew, il suo entusiasmo, e la passione per il suo lavoro e per la vita sono palpabili e, addirittura, contagiosi.
Durante la nostra conversazione, mi ha raccontato del suo viaggio fino a questo momento, dal suo primo contatto col cinema e il fascino per questo luogo di esperienze collettive che è anche una bellissima forma d’arte, fino alle più recenti esperienze che lo hanno messo alla prova, con l’interpretazione di ruoli profondi, complessi, sfaccettati. Tra aneddoti dal dietro le quinte e riflessioni sulla familiarità emotiva dei suoi personaggi, l’energia di Matthew è stata di grande ispirazione.
In questa intervista, uno sguardo nel cuore di un giovane attore agli esordi, la sua gentilezza e la sua umiltà genuine emergono dalle prime parole, rivelando una certezza: il successo di Matthew deriva non solo dal suo talento, ma anche da un approccio al mondo e alla vita che senza dubbio lo porterà lontano.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Quando ero piccolo, tra i 7 e gli 8 anni forse, ricordo che le mie feste di compleanno non erano molto creative: portavo i miei amici al McDonald’s e poi al cinema. I film che sceglievo di guardare avevano ogni volta qualcosa a che fare con gli animali. Amavo gli animali e ricordo di una volta in cui abbiamo visto “Underdog”, un film su un cane supereroe [ride]. L’anno dopo invece, per il mio compleanno siamo andati a vedere “Hotel for dogs”.
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Film sui cani, insomma! Un tema ricorrente.
Già! [ride] L’importante per me era che ci fossero degli animali.
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A proposito di film… Cosa ti fa dire di sì ad un progetto, in generale, e cosa ti ha fatto dire di sì a “È colpa mia: Londra”?
Prima di tutto, leggendo la sceneggiatura di “È colpa mia: Londra” e la storia emozionante dei protagonisti ho capito che, come attore, avrei avuto l’occasione di fare cose che non avevo mai fatto, come lottare, gareggiare, guidare macchine da corsa… Il mio sogno di quando ero bambino! D’altra parte, anche semplicemente essere il protagonista di un film era il mio sogno sin da quando avevo 14 anni, quindi mi sembrava un’enorme opportunità per realizzare quel sogno.
Poi, i registi, Dani Girdwood e Charlotte Fassler, la loro visione, quello che volevano fare con questo film, i loro moodboard e il modo in cui mi avevano presentato il progetto… Ho pensato fossero fantastici, che il film fosse in ottime mani e che sarebbe stato bellissimo lavorare con loro; e lo è stato alla fine, senza alcun dubbio.
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Cosa hai pensato quando hai “conosciuto” il tuo personaggio, Nick, per la prima volta? Considerando soprattutto il rapporto con la sua sorellastra e, in particolare, con il suo passato?
Ho subito guardato oltre le banalità e la superficialità dello stereotipo del ragazzo ribelle. Nick frequenta così tanti gruppi diversi che finisce per avere diverse reputazioni: un giovane imprenditore ricco e di successo, un tipo litigioso, un pilota di auto da corsa. Fa un sacco di cose diverse su cui la gente si forma le proprie opinioni. Io, invece, ho guardato oltre, e ho subito capito che dentro di lui c’era un tipo di fuoco ben diverso che ardeva. Era quello che mi attirava e mi emozionava del personaggio, la sfida di rendere uno stereotipo più profondo. Per fortuna, il personaggio era scritto così bene che la profondità era già lì ben riconoscibile.
Sai, quello che amo della recitazione è il processo di scoperta della causa, del fulcro del personaggio.
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“Ho subito capito che dentro di lui c’era un tipo di fuoco ben diverso”
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Questo film è un adattamento inglese del film spagnolo “Culpa Mìa”, tratto a sua volta da un romanzo. In che modo gli altri Nick hanno influenzato il tuo? Quanto fedele alla storia originale hai deciso di essere?
Per fortuna, direi, non conoscevo il film o libri quando ho fatto le audizioni. Ho saputo dell’esistenza del film spagnolo verso la fine dei provini, quando Asha, la co-protagonista, mi ha raccontato del suo successo, del fenomeno che era diventato. Ricordo di averne guardato un paio di minuti e poi di averlo tolto, pensando: “No, non lo guarderò, non credo mi sarà d’aiuto”.
Ho letto i libri però, e quella è stata una scelta strategica, perché quando leggi una storia, ne costruisci tu i dettagli, la interpreti e la immagini da zero, mentre quando una storia la guardi, la ricevi già rappresentata visivamente, il che sicuramente ti influenza e non sempre in modo utile. Ecco perché ho deciso di concentrarmi sul libro.
Per quanto riguarda Nick, l’ho trovato un personaggio davvero interessante, perché fino alla fine ti lascia con un grande dubbio, ti fa chiedere, “Ma chi è?”, e non ti sai rispondere.
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Infatti, io nemmeno a film finito ho saputo rispondere a quella domanda. Non sono ancora sicura di potermi fidare di lui!
Esattamente. La mia interpretazione è completamente diversa rispetto a quella dell’attore spagnolo, semplicemente perché noi due come attori siamo due persone completamente diverse e la storia è ambientata in due contesti completamente diversi, il che fa la differenza. Abbiamo entrambi la stessa base a cui attingere, ma il personaggio passa attraverso ciascuno di noi, quindi per forza di cose viene rappresentato in modo diverso. Ad ogni modo, ci sono alcune cose che restano uguali in qualsiasi versione della storia e a cui è importante restare fedeli, perché vuoi mantenerne l’essenza sotto vari punti di vista.
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“passa attraverso”
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Hai accennato prima alla co-protagonista del film, Asha Banks, che interpreta Noah, appunto. Come avete lavorato insieme per costruire la chimica tra i vostri personaggi?
Per fortuna, io e Asha siamo immediatamente andati d’accordo, eravamo una grande squadra. Ci trovavamo allo stesso punto della nostra carriera e quindi avevamo un grande entusiasmo, passione e punti di vista da condividere, eravamo d’accordo sul voler dare il massimo per rappresentare questa storia al meglio possibile.
Abbiamo avuto un sacco di tempo per conoscerci prima di iniziare a girare: ci davamo appuntamento, facevamo le prove e analizzavamo insieme la sceneggiatura. Quando siamo andati a Tenerife le prime due settimane di riprese, per i primi quattro giorni non dovevamo lavorare, quindi passavamo il tempo in piscina, a chiacchierare e approfondire la nostra conoscenza, è stata una specie di mini vacanza che ci ha aiutato a conoscerci meglio come attori, come persone, ed è stato fondamentale. In questo modo, infatti, una volta sul set, eravamo a nostro agio l’uno con l’altra, avevamo un nostro linguaggio. Eravamo anche abbastanza tranquilli perché stavamo interpretando due personaggi che si incontravano per la prima volta e piano piano diventavano sempre più vicini, e lo stesso valeva per noi, che ci conoscevamo appena e piano piano siamo diventati sempre più vicini. È un dettaglio molto utile per entrare nel personaggio.
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Spero che voi due non vi siate odiati, però, quando vi siete conosciuti!
[Ride] No, non ci siamo mai odiati. Però è buffo perché poi, fino alla fine delle riprese, ci conoscevamo ormai così bene che avevamo di tanto in tanto i nostri battibecchi, proprio come i personaggi, ed è stato divertente.
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Ci sono state scene o momenti particolari durante le riprese per particolarmente difficili o memorabili?
La scena della rissa, di sicuro. È stato difficile dal punto di vista fisico soprattutto. Io e Sam Buchanan, che interpreta Ronnie, ci siamo “picchiati” per tutto il giorno, con centinaia di comparse intorno a noi che urlavano e scalpitavano. La posta in gioco era alta, e sembrava tutto piuttosto reale e spaventoso… È stato uno dei momenti più “veri” che abbia mai vissuto durante una performance. In quel momento, il tuo cervello non riesce a distinguere cosa è vero e cosa no, ma nonostante tutto mi sono divertito molto. A volte, la mia reazione alla paura è la risata, oppure un’incredulità visibile, ma in quella scena non potevo ridere, dovevo sembrare serio e minaccioso. Al primo ciak, quando Ronnie mi viene incontro nel ring, ho dovuto letteralmente costringermi a non sorridere [ride]: è stato uno dei giorni di riprese più memorabili. Era anche la vigilia del mio compleanno e nella storia era anche il compleanno di Nick, quindi sembrava che le nostre vite in quel momento si fossero fuse – il mio 23esimo compleanno lo stavo trascorrendo sul set, prendendo a pugni un altro attore!
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“È stato uno dei momenti più ‘veri’ che abbia mai vissuto durante una performance”
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Niente film con gli animali questa volta!
[Ride] Già, la fine di un’era.
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Nel film ricorre un tema, per così dire, ovvero la questione del lieto fine. Tu ci credi nel lieto fine?
Se credo nel lieto fine? Sì, direi di sì. Immagino sia una questione molto soggettiva, perché dipende da cosa vuoi e cosa ne stai facendo della tua vita, e penso abbia più a che fare con il percorso che con la meta. Quindi, è un lieto fine se senti di aver intrapreso un viaggio godendoti il percorso, secondo me.
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Sei anche tra i protagonisti della serie Apple TV+ “The Buccaneers”. Il tuo personaggio secondo me ha alcune cose in comune con Nick: è un ruolo complesso, Guy è un giovane uomo alle prese con aspettative sociali e desideri personali. Come ti sei approcciato a questo personaggio e quali aspetti della sua personalità hai trovato più impegnativi o soddisfacenti da rappresentare?
Ha delle cose in comune con Nick, sono d’accordo con te, tra cui un rapporto complesso con la figura materna. Sua madre è appena morta, e lui deve trovarsi una sposa, una donna ricca che gli consenta di supportare economicamente la sua famiglia, di salvare suo padre dalla banca rotta. Deve fare i conti con questa responsabilità e al contempo con il lutto, e alla fine si innamora davvero della donna che decide di sposare per soldi. Quindi, proprio come per Nick, ci sono tanti elementi diversi dell’ambiente di Guy che ci raccontano chi è lui per davvero e in che modo diventa tutt’uno con le decisioni che prende.
La sfida più grande è stata il fatto che si trattasse di un progetto in costume, quindi era importante che tutto fosse adeguato al periodo, e individuare quali parti di te considerare utili e quali inutili per il ruolo. Questo perché naturalmente, secondo me, in ogni personaggio che interpreti ci saranno parti di te stesso che emergeranno, anche involontariamente. Quindi, per esempio, forse sotto alcuni punti di vista Nick e Guy si assomigliano perché ad interpretarli sono sempre io, ma alcune parti di Nick sono completamente inadatte a Guy perché ovviamente sono ragazzi di due epoche diverse.
Per fortuna, comunque, “The Buccaneers” è molto contemporanea come serie, ed era l’obiettivo sin dall’inizio, quindi la questione dell’essere fedeli all’epoca di ambientazione non ci ha stressati più di tanto. Resta il fatto che è importante rispettare l’epoca, ma senza lasciarti vincolare.
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“Naturalmente, secondo me, in ogni personaggio che interpreti ci saranno parti di te stesso che emergeranno, anche involontariamente”.
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E ci sarà una seconda stagione, di cui però non sappiamo granché. C’è qualcosa che puoi rivelarci? Come la descriveresti con una sola parola, per esempio?
Più grande [ride].
Okay, okay, mi accontento [ride].
Quando approcci un nuovo ruolo, tendi ad essere più razionale o più istintivo ed emotivo?
Ogni volta che leggo un copione per la prima volta, la mia prima reazione è sicuramente dominata dall’emotività, dall’istinto. Quando inizio il processo di preparazione del ruolo, però, solitamente parto con un approccio più razionale e strutturato. Creo una sorta base, di primo strato, e solo dopo mi concentro sull’aspetto emotivo della storia e su cosa mi racconta il personaggio. Ad ogni modo, cerco sempre di mantenere quell’iniziale purezza della prima lettura, la memoria emotiva di quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, ben salda nel mio cervello perché solitamente è la giusta fonte di ispirazione.
Bisogna fidarsi del proprio istinto, e a volte lo perdi di vista se stai seduto alla scrivania con carta e penna troppo a lungo.
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C’è un genere in cui preferisci recitare? E il tuo genere preferito da guardare?
Amo guardare i thriller psicologici, i film con i colpi di scena, quelli che mi mettono a disagio, che mi fanno stare sulle spine e mi fanno battere il cuore e pensare: “Non credo ai miei occhi”. È fantastico quando sono al cinema, perché il mio posto preferito dove guardare i film è ovviamente il cinema, e percepisco intorno a me le reazioni viscerali degli spettatori.
D’altra parte, preferisco recitare in prodotti scritti bene e ben focalizzati sui personaggi. Ma sono all’inizio della mia carriera, quindi qualsiasi cosa che sia ben scritta, con personaggi delineati, che sembri un’esperienza divertente, mi fa venir voglia di interpretarla.
Voi attori avete la grande opportunità di conoscere voi stessi in maniera sempre più profonda, attraverso le mille vite che vivete. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto su te stesso grazie al tuo lavoro?
La mia curiosità, senza dubbio. Più divento grande e più lavoro, più personaggi analizzo e di conseguenza più imparo a conoscere me stesso, e più mi incuriosisce il mondo e la vita e il ruolo che io stesso ricopro nel mondo e quello che penso.
Sai, dalle superiori sono passato direttamente alla scuola di recitazione, l’ho frequentata per tre anni e poi sono subito stato preso per recitare in “The Buccaneers”, quindi, in un certo senso, fino alla fine della prima stagione, non avevo mai vissuto nel “mondo reale”. Era come se tutta la mia vita fino ad allora fosse stata un training e lo fosse anche “The Buccaneers”. Poi, all’improvviso, abbiamo finito le riprese, e io mi sono ritrovato a pensare: “Okay, ora devo fare l’adulto e capire come vivere la vita ed essere indipendente” [ride]. Quindi, in un certo senso, io mi sento ancora un bambino, ho tanto da imparare, ed è una cosa molto bella, sono una spugna che assorbe nozioni sempre nuove sulla recitazione e sulla vita e sto scoprendo che per me sono una cosa sola e che sarà così per sempre. Ho sicuramente imparato che sono molto più nerd e curioso di quanto pensassi, e adoro il fatto che non si finisce mai di imparare. Per esempio, mi piace pensare che la recitazione sia un viaggio e un’esplorazione eterni. Sono in pace con la realizzazione che non esiste un obiettivo finale e che la vera domanda è: “Quanto lontano e a fondo riesci a spingerti e quanto riesci a scoprire del mondo e di te stesso?”.
Scegliere di intraprendere questo percorso, di fare l’attore, è una delle decisioni di cui vado più fiero, perché mi ha insegnato così tanto su me stesso, sull’empatia, sull’esperienza umana, e mi ha fatto apprezzare e amare la vita.
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C’è un ruolo che non hai ancora mai interpretato e ti piacerebbe interpretare?
Sì, mi piacerebbe recitare un film di guerra. In uno di quei blockbuster con grandi effetti speciali, esplosioni e io che ci corro in mezzo [ride]. Della serie: c’è un’esplosione, e io ho la faccia da, “Che diavolo mi sta succedendo?”. Mi piacerebbe un sacco!
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Un epic fail sul set?
C’è una scena della prima stagione di “The Buccaneers” in cui Nan fa cadere una scarpa nella torta e noi ci affacciamo dal balcone per guardare. Quando la scarpa cade, noi ci accovacciamo, e io indosso uno smoking; al secondo ciak, quando mi piego, i pantaloni del mio completo si strappano proprio al centro [ride]. I costumisti non avevano abiti di riserva per me, quindi, per il resto dei ciak, ho le mutande fuori dai pantaloni… Ho il sedere di fuori, capito, faccio tutte quelle scene con Nan col didietro al vento, perché i pantaloni erano troppo stretti! [ride]
Divertente e imbarazzante allo stesso tempo! [ride]
Sì, esatto! Quando ho riguardato quella scena ho pensato, “Wow, qui nessuno sapeva che avevo il didietro di fuori”. [ride]
C’è una chicca in quella scena, insomma!
Sì, sai come si dice, un Easter egg [ride].
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Qual è il tuo must-have sul set?
Le mie AirPods per ascoltare musica. Per me è fondamentale, è un ottimo modo per passare il tempo, e concentrarti ed entrare nel mood.
Ascoltavi qualcosa in particolare sul set di “È Colpa Mia: Londra”?
Sì, una canzone di Dave e Jack Harlow che si chiama “Stop Giving Me Advice”. La ascoltavo in loop, credo sia addirittura finita nel mio Spotify Wrapped 2020 tra i miei brani più ascoltati dell’anno! Anche il titolo è perfetto per Nick, che è un tipo fin troppo sicuro di sé a tratti.
Già.
Non so se sei un binge-watcher. Lo sei?
Dipende. Ci sono alcune serie che divoro, in effetti.
Qual è stata l’ultima?
“The Penguin” e “Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menéndez”.
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C’è un film o una performance in particolare che ti ha fatto venir voglia di fare l’attore o studiare recitazione?
Sai, in effetti c’è. Ricordo di essere andato al cinema con mia madre una volta a vedere un film che però, per la prima volta, mi è piaciuto da impazzire non tanto per la storia in sé quanto per la performance dell’attore protagonista. Non intendo dire che non fosse un bel film in generale, ma dal punto di vista attoriale è un lavoro così fenomenale che mi sono ritrovato ad analizzarlo proprio dalla prospettiva di uno del settore. È stato allora che ho pensato: “Oh, credo di voler fare proprio questo nella vita”.
Il film era “La battaglia di Hacksaw Ridge” con Andrew Garfield. Mi ricordo che ci tenevo a guardarlo perché era un film di guerra, ma alla fine le scene di guerra non sono state ciò che mi ha colpito per sempre, piuttosto è stata la performance di Andrew.
E cos’è che ti fa ridere di più?
I miei amici.
Sai, poco fa c’è stata la premiere del film, e i miei amici sono venuti con me, e io li guardavo divertirsi come matti. Mi hanno fatto ridere un sacco.
Cosa ti dà più fastidio invece?
La gente che guarda i reel di TikTok col volume alto in metropolitana, e io che sono lì a dovermi sorbire ogni singolo video che gli passa sotto il pollice [ride]. Il peggio è che a loro non interessa minimamente; chiunque altro ha le cuffie alle orecchie che si fa gli affari propri e loro, invece, guardano il telefono a tutto volume. Mi dà molto fastidio.
Qual è stato invece il tuo più grande atto di ribellione?
Smettere di dare importanza a quello che la gente a scuola pensava di me per il fatto che volevo studiare recitazione, e arrivare a pensare: “Okay, non mi interessa più. Io andrò per la mia strada”. Sono contentissimo di averlo fatto.
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“Oh, credo di voler fare proprio questo nella vita”
Qual è la tua più grande paura?
Ne ho una molto specifica. Vivo da solo, e ho paura di strozzarmi e non avere nessuno vicino che mi salvi e dover correre per strada alla ricerca di qualcuno che mi estragga il cibo dalla gola! Oppure, ancora peggio, strozzarmi dalle risate con i miei amici, e loro che continuano a ridere pensando che io stia fingendo di morire dalle risate quando in realtà mi sto seriamente strozzando, ma nessuno capisce che sto soffocando e io non riesco a convincerli che sto davvero morendo! [ride]
Ti capisco, una delle mie più grandi paure è strozzarmi ingoiando una compressa!
Ecco, precisamente!
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Credo significhi accettare anche quelle piccole parti di te che non ti piacciono, comprese le insicurezze. E anche quando cerchi di migliorarti, di imparare dai tuoi sbagli, è importante accettare di buon grado la realtà che non si può essere perfetti. Va bene essere insicuri, tutti siamo insicuri a modo nostro, penso sia nella nostra natura.
Qual è la tua isola felice?
È un posto nel Suffolk, sud dell’Inghilterra, un Airbnb che può ospitare fino a sette o otto persone, dove andiamo io e miei amici di teatro. Fuori facciamo un falò, ci sediamo intorno al fuoco e ciascuno di noi suona qualcosa. In quel posto, in quel momento, parliamo della vita, ascoltiamo musica, ce ne stiamo in cerchio intorno alla legna che arde per tutta la notte, magari anche per quattro giorni di fila. A prescindere da quello che ognuno sta passando nella vita, in quel momento l’unica cosa che conta è il presente, ciò che sta succedendo lì davanti al falò e la nuova musica che stiamo condividendo mentre parliamo praticamente di tutto.
È quella la mia isola felice.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Grooming by Scarlett Burton.
Styling by Holly White.
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