Ci sono libri che diventano qualcosa di più, che accrescono il desiderio di andare oltre quel confine, o meglio limite, tra chi siamo e chi vorremmo essere: ci sono conversazioni, nate da questi spunti, che sottolineano ulteriormente questa voglia, insita in ciascuno di noi, proprio perchè essere umani. Con “Cieli in fiamme“, è stato proprio così.
Con Mattia Insolia, l’autore, è stato proprio questo tipo di chiacchierata: mi sono seduta con lui e ci siamo lasciati trascinare dalle domande, ma soprattutto dalle sue risposte, per parlare di personaggi che sono creature interiori, della differenza tra dolore e sofferenza, del saper stare da soli e del valore del saper stare in comunità e del cercare la salvezza nel perdono. Dalle vicende descritte nel suo romanzo, che vedono Riccardo, Teresa e Niccolò a confrontarsi con loro stessi e tra loro in quanto famiglia, con Mattia si è parlato alla fine di quella fragile, imprevedibile e sorprendente esperienza che è la vita. Senza mai dimenticare che, lasciarsi accadere, ogni tanto ci fa bene.
Una prima domanda che potrebbe sembrare scontata ma da dove arrivano Riccardo, Teresa e Niccolò? Fin da subito si ha la sensazione di conoscerli da sempre, di essere stati anche noi in vacanza a Camporotondo con loro…
C’è una cosa molto bella che ha scritto Elena Ferrante nel suo saggio “I margini e il dettato”: per lei, in ogni scrittore e in ogni scrittrice c’è una creatura. Scrittori e scrittrici sono soltanto delle persone che vanno in giro per il mondo e fanno esperienze, raccolgono occasioni, conoscono persone nuove, si fanno male, soffrono, sono felici… Poi prendono queste esperienze e le portano alla creatura, che sta dentro di loro. La creatura è quella che decide cosa è giusto che diventi materiale narrativo, e che deve venire fuori, o perché dentro si sta cristallizzando in una materia che è dolorosa, oppure perché è una cosa bella e quindi è giusto che venga fuori perché è una sorta di fonte di felicità. Evidentemente, Teresa, Riccardo e Niccolò sono delle esperienze che ho fatto, sono dei viaggi emotivi, delle estati, sono come sono stato quando ero ragazzino, sono esperienze che ho portato alla creatura senza neanche rendermene conto e la creatura le ha messe insieme sotto forma di personaggi.
In questo romanzo, i protagonisti guardano i genitori e non vedono punti di riferimento, ma persone a loro volta smarrite e con le quali scontrarsi, piuttosto che venirsi incontro. Si tratta di una contraddizione e confusione insita alle dinamiche famigliari molto comune e realistica, a mio parere. Cosa vorresti che questa descrizione, questa storia, lasciassero al lettore?
Io non credo che possa esistere un incontro senza uno scontro. Ti incontri con un’altra persona soltanto quando riesci a vedere il suo punto di vista e riconoscerla in quanto essere umano. Qua siamo tantissimi in questo momento, però io sto parlando con te, conosco il tuo punto di vista sul romanzo e tu stai conoscendo il mio, però il punto è che quando noi ci conosciamo in maniera veramente approfondita, lo scontro è necessario affinché si possa creare qualcosa che poi diventi incontro. C’è una serie molto bella su Netflix che si chiama appunto “Lo scontro”: ci sono questi due personaggi molto arrabbiati, e in questa loro rabbia prima si scontrano e poi si rendono conto che hanno un terreno comune, quello della rabbia, e lo fanno diventare materiale di comunione, qualcosa su cui poggiare entrambi.
Io penso che le dinamiche familiari vadano così: raramente ho visto i miei genitori come dei punti di riferimento in realtà, è successo soltanto quando sono un pochino cresciuto. Ricordo la prima volta in cui ho detto: “Ah cazzo, in realtà li vedo come dei punti di riferimento”, ed è stato alla laurea triennale, perché avevo avuto un problema con l’università e forse non mi potevo più laureare in quella sessione per delle robe burocratiche e la prima cosa che ho detto è stata: “Chiamo mia madre, vediamo cosa dice”. E non lo avevo mai fatto, e lei effettivamente poi mi è stata d’aiuto. Non ho mai concesso loro di essere dei punti di riferimento, e loro non mi sono mai prodigati affinché. Nel romanzo, il cordone ombelicale è stretto, e questo porta ad uno strappo, ed io penso che le due cose possano procedere parallelamente: ci sono molte famiglie che hanno un cordone ombelicale così stretto che diventa soffocante, altre invece che ce lo hanno molto lungo e quindi ognuno ha la propria libertà.
Sospesi tra quello che vorrebbero essere, quello che sono e che sono stati in relazione anche al contesto in cui sono cresciuti, Niccolò, Teresa e Riccardo cercano risposte per tutta la loro vita. Dove si trova per te, sia come persona che come scrittore, il confine tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere?
Domandona… Allora, cominciamo la seduta psicoanalitica (ride). Io una risposta non ce l’ho, ma non ce l’ho perchè il confine sei tu. Più che confine, è un limite. Poi detta così sembra che siamo nati tutti uguali e che non ci sono delle differenze, cioè se vogliamo parlare di qualcosa di interno vorrei essere diverso: io, Mattia, vorrei essere meno arrabbiato e meno rabbioso, vorrei essere meno sensibile su determinate cose, vorrei essere meno permaloso… In questo caso, il mio limite sono io, devo fare un lavoro su me stesso affinché io possa cambiare. Se invece parliamo di “limite” da un punto di vista più fisico, innanzitutto bisogna dire che sono dei limiti sociali, per cui un uomo ha la strada spianata rispetto alle donne, una donna bianca ha la strada spianata rispetto a una donna nera, poi potremmo parlare di sessualità etc.
Però al di là di questo, il limite siamo noi tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. Riccardo ad esempio vorrebbe essere tante cose, però non può perchè il suo limite è il passato. Questa è una cosa che a me spaventa tanto: l’unico limite reale che abbiamo secondo me è il passato, perchè non lo possiamo più cambiare. Possiamo impedirgli di farci di nuovo del male o di guidare la nostra esistenze. C’è una frase di Murakami molto bella, che dice che il dolore non possiamo evitarlo, la sofferenza sì. Non possiamo attraversare l’esistenza senza mai provare dolore, mentre soffrire è un’altra cosa. Riccardo, ad esempio, come limite suo ha il dolore che ha creato e che è diventato un senso di colpa. Teresa come limite ha la madre, Niccolò come limite ha se stesso… Quindi poi ognuno ha i suoi limiti. Io per esempio quando penso ai miei limiti, il mio più grande è la mancanza di coraggio, in generale.
Niccolò e Riccardo, in una sorta di on the road che è più un viaggio di formazione, sono alla ricerca della salvezza, sia per loro stessi che per il loro rapporto. Che cosa rappresenta per te il concetto di “salvezza”?
Quando noi cerchiamo salvezza, cerchiamo di scampare da un pericolo. Quindi per me la salvezza è una sorta di stato interiore di tranquillità. Ma soprattutto, il perdono. Io sono molto capace di perdonare, però non di dimenticare: nel senso, io perdono e poi con quella persona sto bene, però perdo la fiducia. E quindi forse un pochino di salvezza c’è pure in quello, cioè nel perdono. Per me, la salvezza è perdono. E, d’altra parte, Riccardo fa quel viaggio con il figlio per chiedergli perdono per quello che ha fatto. Niccolò chiederà perdono a se stesso alla fine probabilmente.
“Questa è una cosa che a me spaventa tanto: l’unico limite reale che abbiamo secondo me è il passato, perchè non lo possiamo più cambiare. Possiamo impedirgli di farci di nuovo del male o di guidare la nostra esistenze. C’è una frase di Murakami molto bella, che dice che il dolore non possiamo evitarlo, la sofferenza sì. Non possiamo attraversare l’esistenza senza mai provare dolore, mentre soffrire è un’altra cosa”.
Il romanzo ci lascia con la consapevolezza che, pur cambiando gli anni e le generazioni, il senso di solitudine, inadeguatezza e insicurezza, che portano in alcuni casi alla violenza, sono (purtroppo) sempre presenti. Crescendo, come hai vissuto questi sentimenti?
Io sono stato Teresa: io a 16 anni ero come lei, alla sua età ero basso, sono cresciuto tardi. C’è questa foto di me al liceo, avevo fatto questa foto di fianco al compagno più alto della classe, io sono qui e lui sta qua (ride). Verso i 17/18 anni ho avuto poi un’acne molto forte, e in quel periodo non volevo uscire, mi vergognavo, non volevo neanche andare a scuola, non volevo uscire, non volevo fare niente. Questo mi ha portato però a due cose: da una parte, a imparare a stare da solo; io oggi non ho problemi a stare da solo, anzi, da solo sto bene, ma io riesco a gestire molto di più la solitudine che stare con le persone. Perchè stare con le persone è qualcosa che ho imparato dopo, e avendolo imparato dopo, l’ho imparato male. E quindi da una parte, quel periodo mi ha educato alla solitudine: oggi la vivo bene, in quel periodo così così.
L’inadeguatezza fisica la vivo ancora male: mi sento brutto, mi sento grasso, sento tutto quello che potrei essere o non essere; quella per me è una fonte di stress molto grande, e lo era anche quando ero ragazzino. Un’altra cosa però, non uscendo in quel periodo, io ho fatto tutte le esperienze in ritardo: primo bacio, prime esperienze sessuali, prime feste, tutto in ritardo. E quindi in realtà, Teresa sono io. Quell’inadeguatezza, quella vergogna del corpo, l’ho vissuta male, la solitudine l’ho vissuta meglio. Ne parlavo con una scrittrice molto brava, che si chiama Lorena Spampinato, l’ho intervistata e le ho chiesto: “Ma tu da ragazzina eri timida?” E lei mi ha risposto: “Io pensavo di sì, gli altri, quando oggi ne parlo, mi dicono che non ero assolutamente timida”. Quindi poi lo sguardo che abbiamo su noi stessi, distorce in maniera profonda quello che siamo, sia dentro che fuori. Quindi in realtà sono molto più figo, la conclusione poi è quella (ride).
Come interpreti invece la rabbia e le paura della generazione di giovani adulti di cui fai, anzi, facciamo parte?
Secondo me, c’è sconforto e frustrazione. La nostra generazione, nella fattispecie, si è trovata all’angolo sotto tanti punti di vista: noi sentiamo la parola crisi dal 2008 in poi tutti i giorni, economica, politica, ambientale, di lavoro… Quella ambientale ad esempio, ce la stiamo prendendo e ce la prenderemo in faccia: lo stiamo vedendo in Emilia Romagna, più avanti lo vedremo in maniera molto più forte. Tutte queste crisi ci danno la sensazione che noi, un futuro, non ce lo abbiamo, non perchè sia successo qualcosa in sé, ma perchè le generazioni precedenti hanno fatto un po’ quello che hanno voluto. Si sono arricchiti. E noi ci troviamo adesso a dover navigare in uno stagno, siamo un po’ come dei cani randagi che litigano per delle ossa, quindi secondo me la rabbia è quella.
C’è una differenza secondo me molto importante tra la rabbia nostra, quella dei millenial, e la Generazione Z: perchè noi millenial questa rabbia l’abbiamo vissuta in maniera molto individuale, ma non abbiamo mai fatto nulla. Lo sappiamo cosa sia la crisi, ma non siamo mai scesi in piazza, non ci siamo mai coesi attorno ad un unico punto. La Generazione Z un pochino di più questa cosa ce l’ha, con i Fridays for Future ad esempio, ha una capacità maggiore di fare comunità. Ci sentiamo molto “snobbati” per certi versi, molto messi da parte: è come se cercassimo sempre di urlare, di dire che abbiamo un problema, però nessuno ci ascolta. Poi, c’è anche da dire che ognuno di noi ha la propria rabbia, che viene da qualcosa, però secondo me innanzitutto è quella.
“Essere chi ci pare”, come dice Elena a Teresa, è possibile? O è una forma di utopia?
È possibile, però devi essere pronto a fare battaglie. La società, noi stessi, le persone accanto a noi, ci impongono di essere in un determinato modo, ci impongono di indossare degli abiti, ci impongono di fare delle cose, essere delle cose e comportarci in un determinato modo. È possibile essere chi ci pare, però dobbiamo essere pronti alla solitudine e a litigare. Secondo me diventa impossible perchè poi è insita nell’uomo la voglia di essere insiti nella società, di partecipare ad una visione del mondo. “Into the wild” alla fine è questo no? Io voglio starne fuori perchè il mondo mi ha tradito, e sopratutto perchè voglio essere così come sento di essere. È difficile, però è possibile.
In che modo “ti lasci accadere”, come direbbe Riccardo?
Io? Mai. La domanda che c’è nel romanzo è perché io me la sono posta mentre stavo scrivendo il libro: non riuscivo a trovare un baricentro, non riuscivo a capire cosa mancasse. In quel periodo, era fine primo anno di pandemia, soffrivo un pochino della sindrome della capanna; non volevo più uscire di casa, e allora ad un certo punto mi sono detto: “Sei sempre a casa, non stai con gli altri, non stai manco scrivendo, che fai? Ti lasci accadere?” La risposta è stata no, immediatamente. Perchè sono una persona molto ansiosa, sono un ipocondriaco incredibile, calcolo ogni cosa, rompo i cosiddetti alla povera gente che lavora con me, e quindi raramente mi lascio accadere. Mi sono lasciato accadere in amore, cioè quando ho sentito un sentimento forte per un’altra persona, in quel caso ho seguito quel sentimento. Perchè alla fine poi è questo, lasciarsi accadere e non curarsi della conseguenza, ma obbedire ad un istinto, seguire un desiderio. Quando io ho seguito un desiderio che mi portava verso un’altra persona, là mi sono lasciato accadere.
Che cosa vorresti dire a Riccardo, Niccolò e Teresa se potessi?
A Teresa, direi che mi dispiace perchè alla fine si è trasformata in quello che non voleva diventare. Non è una copia conforma della madre, ma è una persona molto rigida, che non ascolta il figlio, quindi ha un pochino seguito le orme di quella madre bestiale che ha avuto. A Riccardo direi: “Non c’è bisogno che tu ti uccida, c’è bisogno che tu chieda perdono, che paghi per quello che hai fatto”. A Niccolò direi “non ti disunire”, che è quello che Paolo Sorrentino diceva. Perchè l’impressione alla fine è che lui possa prendere una forma solida come era successo per suo padre, però lui ancora non è diventato adulto, ha delle chance, deve provare a lasciarsi accadere.
Che libro stai leggendo attualmente?
“Il giovane Mungo”. È bellissimo, ed era anche quello di cui avevo bisogno in questo momento.
Quale storia non ancora raccontata vorresti raccontare tu prossimamente?
Non è quella che scriverò dopo, ma sai che vorrei scrivere un romanzo su una persona anziana? Forse perchè mi sento vecchio (ride).
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso?
So ammortizzare meglio di quanto pensassi le cose brutte. Sono una persona molto sensibile, molto spaventata e preoccupata di tutto, da tutto, per tutto, con tutto, su tutto. Però quando mi arriva una cosa brutta, mi sono reso conto che la reggo bene. Come me la sono chiamata ora (ride).
Qual è la tua isola felice?
I miei amici. E i miei gatti. E anche i miei genitori.
Thanks to Mondadori.