“Agnes”, un film problematico, parte della selezione ufficiale del Tribeca Film Festival 2021, un film con consapevoli “buchi da riempire” che aggancia gli spettatori e non li lascia più (e una di quelle interviste che ti dispiace dover concludere).
Una protagonista, Mary, con molte sfaccettature da decifrare, ed è proprio questo il bello. Uno splendido lungometraggio horror indipendente prodotto e recitato da Molly C. Quinn. Ci siamo messi comodi davanti allo schermo e abbiamo chiacchierato con Molly, parlando del riempire quei buchi per dar vita al personaggio di Mary, delle sfide nel fare film indipendenti, e del modo in cui proprio queste sfide fungono da collante per la comunità creativa affinché dia voce alle varie prospettive che ci sono là fuori.
Ho visto il film ed è stupendo, mi è piaciuto molto. Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Grazie per aver visto il film, significa molto per me! Credo che il ricordo del cinema più vivido che ho, che mi ha segnata di più, perché è tanto tempo ormai che mi nutro di cinema, è di un film che ho visto 10 anni fa, intitolato “Senso”, degli anni ’50, un bellissimo film che mi ha aperto gli occhi su cosa le donne sono capaci di fare col cinema, e mi ha offerto una prospettiva fresca sul lavoro che volevo fare, dato che ero nella fase di transizione da infanzia a età adulta. Dunque, quel film occupa un posto speciale nel mio cuore.
Cosa cerchi, di solito, in una sceneggiatura, cosa ti fa dire di sì ad un nuovo progetto?
Se fossi effettivamente nella posizione di scegliere cosa fare [ride], una cosa che amo, che mi attira in una storia è il tema del viaggio. Mi piace quando un personaggio interagisce con tante persone diverse, come nella vita vera, puoi star passando una bella giornata, ma poi una singola interazione con il tuo capo, o qualcuno che incontri per strada, ti fa avere una pessima visione del mondo, oppure la trasforma in qualcosa di positivo. Dunque, mi piacciono le sceneggiature che includono il maggior numero possibile di emozioni e prospettive, è questo che cerco.
E “Agnes”? Cosa ti ha fatto dire di sì a quel progetto? Sei produttore esecutivo, quindi il tuo coinvolgimento è totale…
[Ride] È quello il bello, ero entusiasta all’idea di creare un ensemble incredibile, unico. Questa specie di “Pilgrim’s Progress”, così come tanta letteratura cristiana, si concentrano su un’anima ribelle che finisce per avere interazioni con persone che o cercano di deviarla dalla retta via, o di farcela rimanere. In “Agnes”, sta un po’ allo spettatore decidere se queste persone la stanno mettendo alla prova perché diventi una brava persona, o se la stanno spingendo sull’orlo della rovina. E ancora oggi, quando penso al film, sono indecisa tra quelle due opzioni, ed è questo che mi piace. Mary è così complicata nel suo desiderio di non dimenticare l’amore immenso che provava per suo figlio, pur usandolo, allo stesso tempo, per nascondersi dal mondo, e non riesce ad andare avanti. E il mondo intorno a lei la scuote, in un certo senso, dicendole, “Devi affrontare la situazione qui e ora”, poverina. Anche nell’ultima scena, il pubblico e anche io ci domandiamo: “Starà bene?”.
“…sta un po’ allo spettatore decidere se queste persone la stanno mettendo alla prova perché diventi una brava persona, o se la stanno spingendo sull’orlo della rovina”.
Uno degli aspetti del film che mi è piaciuto di più è che ci sono alcuni buchi. Lo spettatore ha la possibilità di riempire quei buchi nel momento in cui li percepisce. Tu, mentre costruivi il personaggio, hai “completato” la sua storia? Come hai lavorato sul personaggio, anche insieme al regista?
È una bellissima domanda. Una cosa che trovo molto utile e che ho usato soprattutto nel costruire Mary, è iniziare un diario per il personaggio usando la sceneggiatura come modello. Come dicevi tu, quando leggi la sceneggiatura per la prima volta, ci sono molte cose che non sai. Quindi ho fatto un salto indietro e ho stabilito che lei proveniva da un paesino della California, ho deciso che era un’adolescente ribelle, che non è un male, anzi, è un bene, ma a volte, quando sei ribelle e non hai un sistema di supporto, e finisci a dover affrontare questioni importanti come la gravidanza, può essere difficile cavarsela da soli. Quindi, ho fatto un salto nel passato e ho buttato giù tutti questi retroscena, mi sono concentrata su che tipo di rapporto avrebbe potuto avere con sua madre, mi sono concentrata su quali sarebbero state le sue cose preferite da fare con il figlio, e ho letto il libro sulla gravidanza “Che cosa aspettarsi quando si aspetta”: è stato come una bibbia per me, l’ho letto quattro o cinque volte, per cercare di comprendere l’enorme decisione di creare la vita, e l’amore che ne risulta, questo bellissimo bambino, e poi il suo esaurimento nervoso quando lo perde.
Secondo me quell’ultima scena è il risultato di un malessere, del fatto che lei, guardandosi indietro, sentisse che l’avrebbe potuto proteggere, ma chiunque intorno a lei le diceva, “Smettila di portarlo in ospedale per qualunque cosa!”, quindi quella volta ha pensato, “Okay, sono paranoica, rimaniamo a casa”. Invece di seguire il suo istinto, si è lasciata influenzare dalle altre persone, e questo l’ha danneggiata, quindi è perseguitata dal senso di colpa per la morte del figlio. Dunque queste sono state le basi per me, che hanno supportato Mary in tutto il film.
C’è stata una sfida particolarmente difficile che hai dovuto affrontare? Se sì, come l’hai superata, costruendo il personaggio di Mary?
La sfida più difficile credo sia stata trovare il modo di trascorrere del tempo a tu per tu con un bambino piccolo. Per fortuna, ho un’amica che ha un figlio, e l’ho chiamata e le ho detto: “Ehi, posso rubare te e tuo figlio per un giorno?” [ride] Dopo aver passato una giornata intera col piccolo, tutti i pezzi del puzzle si sono finalmente incastrati, perché ho visto le sue manine e il modo in cui interagiva, e ho iniziato a comprendere cosa significa amare qualcuno più di te stesso. Ma se non avessi avuto quella fortuna, se la mia amica non mi avesse prestato suo figlio, non credo sarei stata in grado di costruire una relazione così autentica nel film.
Il film risulta chiaramente diviso in due metà, e c’è una scena in particolare che secondo me è il punto di svolta per Mary, quando si toglie il velo prima di quella scena molto forte. Qual è stato il suo punto di svolta, secondo te? Nell’interpretarla, com’è cambiato il tuo approccio al personaggio da una metà all’altra del film?
Sono perfettamente d’accordo con te. Quando si toglie quel velo, è come se fosse un serpente che cambia pelle, è davvero un lasciare andare qualcosa, e noi lo vediamo in maniera tangibile, ma per lei è qualcosa che avviene anche internamente, si sta liberando di qualcosa, o meglio, potrebbe essere un lupo travestito d’agnello, ha sempre finto di essere questa persona dai sani principi, ma la verità è che è solo alla ricerca della solitudine. È il confronto con la sua amica, Agnes, o con questa presenza, che sia Dio o il Diavolo, dentro di lei, a tirare fuori il pezzo dello Jenga, a farla agitare e pensare: “Oh, qui non sono più al sicuro, devo andarmene, la gente sta iniziando a vedermi”. Penso tu abbia perfettamente ragione a pensare che quello sia il punto di svolta, è il momento che mette in moto il resto del film.
“Una cosa che trovo molto utile, e che ho usato soprattutto nel costruire Mary, è iniziare un diario per il personaggio usando la sceneggiatura come modello”.
In generale, religione, fede, crisi mistica, sono ancora temi ricorrenti nel cinema. Secondo te, perché noi, in quanto pubblico, siamo così attratti da questo tipo di tematiche? Ce ne sarebbero così tante da scegliere. Uno degli aspetti del film che mi è piaciuto di più è il fatto che offre un nuovo punto di vista, è una boccata d’aria fresca, non è qualcosa che hai già visto e rivisto.
Grazie, lo apprezzo molto, perché così tanti momenti del cinema si sono concentrati sulle crisi mistiche, ma noi volevamo fare qualcosa di leggermente diverso, di certo non avevamo intenzione di reinventare il genere; non è possibile, ci sono film migliori sulla crisi mistica, ma abbiamo pensato: “E se la raccontassimo dalla prospettiva di qualcuno che cerca solo di ignorare qualunque buon consiglio?”. Secondo me, noi siamo attratti da quel tipo di tematiche perché il concetto di colpa, l’idea che non stiamo vivendo nella maniera corretta, o che quello che vogliamo non corrisponde al giusto, secondo la gerarchia della religione, ci tormenta.
Io ho avuto un’educazione molto religiosa, ho avuto una crisi di fede, e ad oggi sono atea, ma ciò non significa che non pensi costantemente a quegli insegnamenti, e mi fanno arrabbiare perché avrebbero dovuto essere giusti, ma poi scopri che le persone che te li insegnavano, sfortunatamente, erano degli ipocriti! Soprattutto quando sei molto giovane, quando sei impressionabile, possono davvero farti cambiare rotta. Quindi, secondo me è per quello che tutti ci troviamo qualcosa in quel tema, perché a tutti sono state raccontate bugie.
Io sono cresciuta in Italia, capisco perfettamente il tuo punto di vista, potresti finire per non capirci più niente e sentirti perso.
Esatto, ti senti perso! Sono dell’idea che l’unica cosa che vogliamo davvero, noi tutti, sia una luce guida, e crediamo, perché così ci insegnano, che esista e che sia questo simbolo esterno, la Chiesa, o un genitore, o un insegnante.
Secondo me, invece, l’unica luce guida si trova dentro di noi, e spero con tutto il cuore che ognuno di noi, a un certo punto della vita, capisca che si trova dentro di noi, che deve fidarsi del proprio istinto.
Io penso che gli individui abbiano un senso innato della loro direzione, e prima ci si libera di tutte le influenze esterne, prima si inizia a conoscersi e a individuare la direzione giusta del proprio cammino, perché è un viaggio individuale. E può essere spaventoso, a volte, alcuni dicono, “Oh, no, sei in compagnia, sei al sicuro,” ma non credo sia quella la vera via. L’unica vera via si trova dentro di noi, ed è fatta su misura per noi.
Per riassumere il tutto, come descriveresti “Agnes” in una parola?
Problematico.
A proposito di horror, qual è il tuo film horror preferito di sempre?
Il mio film horror preferito di sempre? Adoro i film horror… Te ne nomino tre: un film inglese intitolato “Possum” – consigliatissimo, anche se sono madrelingua inglese, io metto i sottotitoli perché l’accento è molto marcato – perché, come “Agnes”, è un’interpretazione leggermente diversa nel genere horror del trauma infantile, quindi mi è piaciuto un sacco; poi, “Babadook” – dobbiamo sostenere le donne alla regia, soprattutto di horror – credo sia un film grandioso, in particolare da una prospettiva femminile. Poi, il terzo sarebbe “L’esorcismo di Emily Rose” di Scott Derrickson, perché quel finale… *chef’s kiss*, bellissimo, credo sia il miglior film sull’esorcismo di tutti i tempi.
Sono d’accordo, “L’Esorcista” ha aperto le danze, ma “L’esorcismo di Emily Rose” è forse uno tra i migliori.
[Ride] Sono d’accordo, devi portare rispetto per l’originale, “L’Esorcista” è bellissimo, non saremmo qui senza quel film.
Quando è uscito, in molti Paesi è stato censurato…
Mio padre era adolescente quando uscì nel mio paesino. Io vengo da un paese al confine tra Texas e Arkansas chiamato Texarkana, quindi immagina la scena: mio padre, un devoto cattolico di 17 anni, fidanzato con una ragazza molto cattolica, che le promette “Non guarderò il film, è peccaminoso”, e poi sgattaiola fuori a vedere una proiezione di mezzanotte; arriva lì, e trova la sua ragazza e una sua amica con dei cartelli a protestare contro il film [ride]. Si lasciarono.
“Agnes” è anche un film indipendente: qual è il bello del fare cinema indipendente, per te? Hai anche una tua agenzia di produzione, quindi scommetto che ce ne siano di sfide da affrontare, ma qual è il lato positivo?
Credo che il bello consista proprio nella sfida e nel dover creare soluzioni ai problemi invece di risolvere tutto coi soldi, perché i soldi, per quanto siano belli, per quanto ne abbiamo bisogno, non risolvono i problemi da soli, non sono una soluzione. I problemi del fare cinema su qualsiasi scala, secondo me, possono risolverli sono gli umani, e le persone creative che sanno fare egregiamente il loro lavoro specifico, ma anche dei bravi collaboratori, perché nessun uomo è un’isola, non puoi fare un film in quel modo, almeno non uno fatto bene.
Dunque, è questo che amo, amo conoscere nuove persone, amo lasciarmi sorprendere da abilità inaspettate – come con Kaitlyn Shelby, che era la nostra scenografa ma, dato che il nostro era un piccolo progetto indipendente, era anche la nostra attrezzista, e ti viene da pensare, “Okay, ci sta”, ma lei non solo ci distribuiva le borsette e si assicurava che avessimo le bibbie, coordinava anche bibbia e suora in base al colore. Una volta sono andata da lei con un medaglione che avevo realizzato, un ricordo di mio figlio, e le ho detto, “Ho bisogno di tenerlo sempre con me, come possiamo fare?”, e lei mi ha risposto, “Nessun problema”: ha preso il mio rosario, poi ha afferrato un paio di pinze e l’ha fissato vicino alla croce. Quindi, ogni volta che stringo il rosario, in realtà sto stringendo questo medaglione che avevo creato. Credo sia proprio questo tipo di creatività e cura del dettaglio che rende “Agnes” speciale, e che rende l’esperienza del cinema indipendente così bella.
Bisogna fidarsi di chi ci circonda per essere creativi, non dipende solo da te, come dicevo, tutti sono indispensabili. È un’idea che adoro, è il motivo per cui volevo fare film, è per l’arte in sé, ma anche per il senso di comunità.
Che tipo di storie sogni di raccontare, in quanto attrice, produttrice, o se ti va di aggiungere “scrittrice”, “regista”, non so se hai piani anche su quei fronti?
Non ho nessun piano, il che significa che sono aperta a tutto. Mi piace produrre perché mi piace avere una visuale ampia dell’intera produzione. Il tipo di storie che vorrei raccontare con la mia agenzia di produzione sono, nella scena indipendente, prospettive uniche sulla vita. Vorrei che raccontassimo storie improntate sui personaggi, mi dispiacerebbe se ce ne dimenticassimo, e vorrei promuovere altri filmmaker di qualsiasi sesso ed etnia, affinché raccontino la loro prospettiva di vita, che sia attraverso un film horror, comico, romantico, qualunque cosa. Vorremmo usare quel poco che abbiamo per supportarli e aiutare a promuovere le loro idee là fuori.
Come attrice, amo il genere drammatico, non posso farci nulla, amo le grandi emozioni, amo le storie incentrate sulle dinamiche genitori-figli, è terreno fertile per me. Credo che, qualunque cosa io finisca per fare, sarà sempre collegato al rapporto più forte con il personaggio. Quando giravo “Castle”, il rapporto con mio padre avrebbe dovuto essere un bel rapporto, ma il 90% di ciò che abbiamo costruito in quegli 8 anni era incentrato su Nathan [Fillion] e io, e la nostra decisione di focalizzarci su quanto forte, quasi co-dipendente fosse il rapporto tra Alexis e suo padre, anche come conseguenza del fatto che sua madre l’avesse abbandonata. Queste sono tutte cose a cui, guardando la serie, non fai caso, ma è anche ciò che l’ha resa realistica, perché credo che tutti noi abbiamo quel tipo di rapporto con qualcuno, o abbiamo sofferto di trauma da abbandono o co-dipendenze nella vita.
Quindi, qualunque sia il tipo di storia, perché sono aperta a ogni genere, tv, cinema, teatro, animazione, mi piacerebbe fare tutto, alla fine sarà sempre una questione di quale rapporto è il più forte. Credo che, se leggessi un copione e non trovassi niente del genere, non sarei in grado di recitarlo.
Cosa significa per te “sentirti a tuo agio nella tua pelle”?
Sto ancora cercando di capirlo. Per quanto mi riguarda, io scrivo un diario, motivo per cui lo faccio anche per i personaggi che interpreto, e giusto la scorsa notte, ho scritto questa frase: “Devo rieducarmi a parlare dal mio punto di vista”. Infatti, mia madre è una persona molto invadente, ed era con me all’inizio della mia carriera, e voleva sempre essere inclusa nelle mie storie, nella mia esperienza. Quindi, nella mia testa impressionabile, il pensiero fisso era: “Tutti si sentono così”, o “Siamo arrivati qui”, anche se poi mi domandavo: “Perché parlo a nome di tutti? Posso solo parlare in base alla mia esperienza”. Ma era la cosa più facile da fare per non essere perennemente corretta e per non sentirmi dire che insieme a me c’era qualcun altro. Quindi, in questo momento sto cercando di tenere a mente e accettare l’idea che: “Sto vivendo la mia vita, sono la persona seduta qui, sto parlando con te”.
Quando imparerò a ragionare così senza titubanze, capirò cosa significa sentirmi a mio agio nella mia pelle. Ma prima ci devo arrivare.
“Devo rieducarmi a parlare dal mio punto di vista”.
Di cosa hai paura?
D’accordo, te lo dico: ho deciso di smettere di bere circa quattro anni fa. Non mi sono mai messa nei guai pubblicamente, non è quello il punto, è che forse bevevo un po’ troppo quando ero sola, e allora ho capito che ciò che mi spaventa, motivo per cui ho rinunciato all’alcool, è incasinarmi la vita, da sola. Ho paura di commettere errori nella mia carriera, magari esagerando col bere e quindi spingendo la gente a dire, “Non ci fidiamo di lei, non possiamo lavorare con lei”, o ubriacandomi e flirtando con qualcuno e così rovinare l’ormai lunga relazione con il mio fidanzato. Ho capito che per me era autolesionismo, che non ne poteva venir fuori niente di buono.
È questa la mia più grande paura, guardarmi indietro e pensare: “Non sei arrivata dove avresti potuto, perché hai commesso un errore”. Perché non posso controllare il mondo, non posso impedire che la parte venga assegnata ad un’altra attrice, sono cose che non posso controllare, e va bene così, ma se è colpa mia, se non studio il più possibile, se non amo il più possibile, se non apprezzo il tempo che passo con i miei cari, se sono persa nei miei pensieri e non mi godo il momento, se lascio che la vita mi scorra davanti, è colpa mia. È per questo che ho smesso di bere, perché l’idea mi spaventa a morte, e non lascerò che accada.
Il tuo must-have sul set?
Ho bisogno del mio telefono, perché ho bisogno di vedere foto dei miei cani. Se sto lavorando e il mio compagno è a casa, lui mi manda foto dei miei cani, oppure lo fanno i miei amici, chiunque. Ho bisogno di foto dei miei cani se sono lontana da loro, anche foto brutte, non devono essere per forza belle, ho solo bisogno di vedere i miei cani.
Hai mai avuto un epic fail sul set?
[Ride] Sì… è molto imbarazzante. Ero una ragazzina, avevo 17 anni, e stavamo girando uno stoner movie, ma io non avevo mai fumato erba o un bong in vita mia, e non avevo nemmeno cercato come si facesse perché pensavo di saperlo fare; allora misi l’imboccatura del bong tutta in bocca e mi resi conto che tutti ridevano, allora dissi: “Sto sbagliando qualcosa?” [ride] e loro risposero, “No, figurati!”. Quindi è stato tutto molto imbarazzante.
Te lo confesso, questa risposta potrebbe essere nella top 3 delle migliori risposte alla domanda sull’epic fail del nostro magazine. È un onore, quasi sicuramente finisce nella top 3!
[Ride] Ne sono lieta! Se devi fallire, fallisci al meglio! Fallo con stile, personalità.
Photos by The Riker Brothers