Alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, Olmo Schnabel ha dato vita ad una storia newyorkese dal ritmo serrato, cupo e anche un po’ fantasy: una lettera d’amore alla città in cui è nato e cresciuto, e da cui è scappato non appena ha perso la magia che aveva sempre avuto ai suoi occhi.
“Pet Shop Days” è una storia contorta di amore e odio, pregiudizio ed esagerazione, selezionata nella categoria Orizzonti Extra al Festival del Cinema di Venezia. Abbiamo incontrato Olmo per parlare del processo di preparazione preliminare alle riprese, delle dinamiche attore-regista, del rapporto con una città in continua evoluzione, spesso romanzata, e delle infinite possibilità che la vita può offrirci, quando impariamo a “farci piacere i nostri problemi” e ad accettare la natura intrinsecamente deludente dell’esistenza.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Non ho un vero e proprio primo ricordo legato al cinema, ma direi che uno dei ricordi più impattanti che ho è quando sono stato lasciato da una ragazza, alle medie, e ci stavo malissimo. Ricordo di aver guardato “Barry Lyndon” al cinema, in quel periodo. Hai presente quando ascolti musica e sembra che le canzoni ti stiano parlando? Ricordo di aver provato la stessa sensazione in quel momento, di aver vissuto un’esperienza così personale con quel film, e allo stesso tempo ricordo quanto mi sentissi confuso, perché ovviamente il film non era stato fatto per me, ma per tante persone. Tuttavia, per qualche motivo, sembrava così personale. Ricordo di essermi sentito totalmente coinvolto e alla mercé di ciò che stavo vivendo e del potere del cinema. A seconda della fase della vita in cui ti trovi, ci sono momenti in cui stai facendo un’esperienza e o ti limiti ad assistere dall’esterno, oppure la vivi attivamente e lasci che ti metta di fronte uno specchio e a quel punto diventa davvero una cosa personale. Quella è sicuramente una delle esperienze che ricordo vividamente.
Poi ricordo di aver guardato “Il Padrino II” quando ero piccolo (i miei mi facevano guardare praticamente tutto quello che volevo), o un’altra esperienza che ricordo, un po’ più disturbante, è stata la visione di “Shining” da piccolissimo, e quella mi ha davvero turbato [ride]. Ci sono immagini di quel film che mi hanno perseguitato per molto tempo!
Cosa ti ha ispirato a intraprendere una carriera nel mondo del cinema?
Ci ho messo molto tempo a convincermi di poter essere bravo in qualcosa e a sentirmi abbastanza sicuro di me, e non sono una persona che si adatta facilmente. Penso che il cinema sia sempre stato qualcosa verso cui ho avuto una inclinazione naturale e a cui ho sempre risposto in modo naturale. Avevo sempre un’opinione e, anche quando era sbagliata, volevo partecipare attivamente alle conversazioni, non volevo mai restare in disparte. In altre situazioni, che fosse a scuola o in qualche altro contesto, non riuscivo mai a costringermi a fare qualcosa, non sono molto bravo a adattarmi o ad accettare compromessi, il che all’inizio mi ha reso difficile capire cosa volessi fare. Comunque, crescendo, ho capito che il cinema era qualcosa che mi veniva molto naturale, quindi ho pensato che fosse la cosa che avrei dovuto fare per la vita, perché non capita tutti i giorni che qualcosa ti riesca bene in modo praticamente istintivo. Quindi mi piaceva il fatto che mi venisse così naturale.
Da bambino, ho sempre voluto fare l’attore, ma crescendo ho capito che non era davvero quello che volevo. Ma ho una grande ammirazione per gli attori, quindi penso che più lavorerò in questo mondo, più sarò in grado di sviluppare quella che dovrebbe essere la dinamica di lavoro tra regista e attori in un contesto collaborativo, hai presente? Amo gli attori, ed è anche per questo che voglio prendermi cura di loro, voglio collaborare.
“Penso che il cinema sia sempre stato qualcosa verso cui ho avuto una inclinazione naturale e a cui ho sempre risposto in modo naturale“.
In che modo la tua vita e il tuo background hanno influenzato la tua visione artistica e quale stile o approccio distintivo hai portato in “Pet Shop Days”, il tuo esordio alla regia?
Fin da giovane ho avuto la possibilità di fare discorsi o dialoghi in cui l’arte era sempre protagonista, quindi sono molto grato per questo, per il mio background. A casa si parlava costantemente di arte, cinema, musica, letteratura, quindi quel tipo di conversazione c’era sempre.
Io sono nato quando mio padre ha fatto “Basquiat”, e stare con lui quando ero piccolo e vederlo fare questo mestiere mi ha fatto capire che era qualcosa di fattibile, che non era un sogno irrealizzabile. Deve avermi trasmesso qualcosa che ho assorbito consciamente ma anche inconsciamente, e sicuramente penso che Julian, essendo un regista, mi abbia anche motivato a farlo. Quando avevo qualche dubbio riguardo al mio posto nel cinema, mio padre mi ha sempre supportato.
Per “Pet Shop Days”, abbiamo guardato un sacco di film ambientati a New York, come quelli di Cassavetes, Scorsese, “The Conversation” di Francis Ford Coppola, “Eyes Wide Shut”, per capire come la città fosse stata immortalata, anche se io volevo che il mio film avesse un’atmosfera senza tempo e soprattutto che trasmettesse il mio personale punto di vista su New York, volevo raccontare New York in modo originale. Ad un certo punto, però, ho smesso di guardare altri film e ho cominciato a girare il mio. Prima però, durante la fase di preparazione, ero così entusiasta di guardare tante cose e assorbire il più possibile, quella è stata la parte migliore, finché non ho detto, “Basta. Ora è il tuo momento”. Volevo che il film fosse veloce, vivace, in costante movimento.
So che vivi in Messico da un po’ di tempo ormai, e immagino che anche questo ti abbia aiutato a riflettere e ad apprezzare un po’ di più il tuo rapporto con New York, che nel film viene ritratta nel brutto e nel bello. Com’è adesso il tuo rapporto con una città in continua evoluzione e complessa come New York City?
Quando me ne sono andato, ho iniziato a sentirne la mancanza. Mi sono allontanato da qualcosa che era diventato troppo familiare, e il motivo per cui me ne sono andato è stato proprio perché la città non aveva più quell’elemento di sorpresa e mistero per me. So che per molte persone che si trasferiscono lì ora la città sembrerà fantastica, la ameranno, ma per me era diventata ripetitiva e ridondante, quindi quando me ne sono andato, ho potuto rifletterci su e fantasticare, mi ha aiutato a costruirci su una fantasia, perché penso che il film sia una fantasia, una fantasia oscura e contorta. Ho potuto pensare alla città e trasformarla in una sorta di terra senza tempo, in continua evoluzione, piena di possibilità, dove le avventure ti aspettano dietro l’angolo e può accadere qualsiasi cosa. Lasciare New York mi ha anche permesso di scriverle una lettera d’amore.
Non so se farò un altro film ambientato a New York, ma sono felice che il mio primo film sia stato girato lì. Penso che le sfide che la città ti presenta ti preparino anche a lavorare con altre dinamiche e in altri contesti e forse a gestire le cose in un certo modo. La città è frenetica, è stato difficile organizzare tutto, ma sapevo sempre cosa fare e come muovermi, quindi sono molto felice di aver fatto qualcosa nel posto in cui sono nato, perché è stato una sorta di allenamento e ora nella mia prossima esperienza, potrò andare in un luogo in cui sono meno preparato o che mi è più estraneo, e potrò utilizzare le lezioni che ho imparato adesso.
“Lasciare New York mi ha anche permesso di scriverle una lettera d’amore“
“La vita è fatta di delusioni”, si dice nel film. Una citazione che penso riassuma perfettamente l’intera storia e con cui molti saranno d’accordo… Tu che ne pensi? Credi che la vita sia questo?
Sì, lo penso anche io. Ricordo quando ho detto a Maribel [Verdù] di pronunciare quella battuta e volevo che il protagonista lo tenesse a mente e lo usasse come insegnamento. Da bambino, ricordo che quando stavo male per qualcosa mia madre mi diceva:
“Dovresti farti piacere i tuoi problemi. Invece di sentirti così male, dovresti affrontarli e accettarli e andare avanti”.
Quello che è interessante, penso, riguardo al fatto che la vita è deludente, è che non è solo bianco o nero. Oggi sei deluso, ma fra sei mesi potresti cambiare idea, quindi non arrenderti. Quella scena è molto più breve ora, ma quando l’avevamo girata originariamente, lei faceva un lungo monologo sulla delusione e sul sentirsi bene e male allo stesso tempo. Penso che si tratti solo di riflettere e di essere aperti a qualsiasi cosa e di capire che anche le delusioni fanno parte del nostro percorso e dell’esperienza umana.
Photos by Luca Ortolani.