Nell’universo irriverente di Patrizia Falcone, l’umorismo diventa una potente forma di espressione per affrontare temi cruciali, specialmente quelli legati alla salute mentale. Con il suo progetto web “Quello che le donne non dicono“, Patrizia ha aperto una finestra nel mondo femminile, scardinando stereotipi con un tocco di ironia e saggezza.
In un’intima chiacchierata, abbiamo esplorato il processo creativo di Patrizia, che si muove tra istinto e ragionamento. In particolare, il cuore del suo lavoro è la “body positivity”, un tema che affronta con unicità e che trasmette sui social con l’obiettivo di innovare il modo di veicolare il messaggio, nonostante l’ambiente talvolta si riveli poco accogliente. Ma Patrizia affronta direttamente i pregiudizi, impegnandosi per cambiare prospettive e far riflettere anche chi sembra irremovibile nelle proprie idee.
Perché la comicità, quella vera, ha il potere di plasmare la percezione di sé e del mondo e il dialogo, persino quello sulla femminilità.
Sei comica e usi il potere dei social per parlare, anche con ironia, di temi importanti che appartengono alla salute mentale, che è un qualcosa di cui noi vogliamo sempre parlare: quando e come ti senti più creativa e hai voglia di condividere quello che ti succede? Hai un processo creativo particolare o sei molto più istintiva?
Entrambe le cose. All’inizio soprattutto avevo un approccio molto più istintivo, perché nasceva molto da quello che mi circondava e avevo voglia di prenderlo e buttarlo in formato video per permettere alle persone di guardarlo. Ora non ti nego che ci ragiono un po’ di più, anche perché alcuni argomenti li ho già trattati, perché cerco sempre di rinnovare quello che faccio e di non annoiare il pubblico. Infatti, un messaggio come quello della body positivity, per esempio, se inculcato sempre in una determinata maniera, annoia anche chi magari ha proprio bisogno di ricevere quel messaggio. Ogni tanto ci vuole una chiave di lettura diversa, e questo mi porta ad avere un processo creativo differente da quello istintivo, ovvero un po’ più ragionato, cercando di capire l’obiettivo a cui voglio arrivare per poi trovare i mezzi per arrivarci.
Parli spesso di body positivity e amo il modo in cui lo fai, sei davvero unica e fidati che sei una grande ispirazione per tutti. E soprattutto lo fai sui social, che non è spesso un ambiente così ricettivo: quando è importante per te continuare a parlare di body positivity? E qual è la cosa che ti ha fatto finora più incazzare?
Anche qui secondo me c’è stata una grande evoluzione, nel senso che determinati valori fanno parte di me e anche del mio collaboratore, quindi li abbiamo sempre proposti in quello che facevamo. Però, ci siamo resi conto, ad un certo punto, che far passare il messaggio attraverso un video, o forse anche solo la morale, non era un processo così diretto, e ad alcune persone non aiutava davvero nel profondo. Quindi abbiamo iniziato ad essere sempre più diretti, abbiamo cercato di scavare sempre più dietro il messaggio per arrivare al nocciolo della questione.
Ultimamente, quando esci dal target delle persone che vogliono sentire quel messaggio e con cui ti relazioni di solito – che sono un po’ la tua community, o le persone che bene o male vivono il tuo stesso disagio o che si vedono in un corpo in cui alle volte si sentono non accettate dalla società – arrivano quelli a cui dai fastidio. La cosa che non tanto mi ha fatto incazzare, ma che trovo divertente, è che una ragazza che per due anni circa mi ha offesa in modo random, con insulti del tipo “sei grassa”, “sei bruttissima”, “casa tua è un bunker”, l’altro giorno mi ha mandato un messaggio chiedendomi scusa, perché dopo due anni si è resa conto che mi aveva scritto delle cose orribili e che non avrebbe voluto dirle nemmeno alla persona che odiava di più e che si era resa conto che era semplicemente un suo meccanismo di difesa un po’ strano che l’aveva portata a questo. Mi rendo conto, allora, che faccio bene a fare quello che faccio, a insistere, perché qualcuno se ne rende conto. Magari lei dopo tutti i video che ho pubblicato recentemente sulle persone che mi offendevano in maniera un po’ nonsense, si è resa conto di essere una di quelle, quindi ci ha tenuto a chiedere scusa.
È una cosa bellissima, perché in un modo o nell’altro quello che dici e cerchi di trasmettere alla fine arriva non solo alle persone che sono già d’accordo con te o che hanno bisogno di sentire quello che dici, ed è ancora meglio sapere di aver fatto cambiare idea ad un hater o una persona che la pensava in modo diverso.
Il punto è che queste persone spesso non la pensano in maniera diversa, semplicemente gli è stato inculcato un messaggio preciso e quindi tentano di riperpetuare quello schema sempre. Poi, soprattutto quando vedi qualcuno in un video, è come se non lo paragonassi a te come persona ma lo mettessi su una sorta di piedistallo, e questo piedistallo la società ci ha sempre insegnato che lo deve avere chi è perfetto, bellissimo, chi non sbaglia mai, chi è il performer pazzesco. Piano piano, rompendo questa barriera tra i social e l’utente comune che guarda un contenuto, possiamo aiutare a far capire che siamo tutti sulla stessa barca.
“Mi rendo conto, allora, che faccio bene a fare quello che faccio, a insistere, perché qualcuno se ne rende conto.”
Cosa diresti che è per te il tuo corpo? Ci hai mai lottato contro per arrivare dove sei? O hai preferito “abbracciarti”?
Non ti so dire un punto preciso in cui mi sono resa conto che dovevo iniziare a separare il mio corpo dalla percezione di esso che ho io e quella che avevano gli altri. Se riguardo la me più piccola, io non ricordo di essermi mai sentita goffa nel mio corpo, fino a che non sono state le altre persone a insinuarlo in me, dalla battuta “ma non è che mangi troppo?” al commento “forse dovresti dimagrire”, quelle classiche cose della serie “sei una bella ragazza ma dovresti avere qualche chilo in meno”. In questo modo, piano piano, si è instillato il pensiero dentro di me; ho superato momenti difficili col mio corpo, però più che altro durante l’adolescenza, un periodo di transizione. Poi, non mi ricordo effettivamente quando, nel momento in cui sono cresciuta, più o meno dai vent’anni, ho iniziato effettivamente ad amare il mio corpo così com’era. È come se mi fossi resa conto che esistono dei canoni ma non per forza dobbiamo tendere a quei canoni ed essere perfettamente giusti e belli così come siamo. Sicuramente ci ho messo tempo, ho decostruito in maniera anche un po’ inconscia tutto quello che mi era stato inserito in testa, e piano piano sono riuscita vedere il mio corpo, come dico spesso nei miei contenuti, come un involucro, ovvero qualcosa che tiene insieme tutto quello che abbiamo dentro, i nostri valori, i nostri pensieri, i nostri desideri.
Il corpo è un di più, un accessorio, non per forza dobbiamo curarlo allo stremo delle nostre forze e poi magari tralasciare il resto, che è molto più importante.
Io invece da piccola, non so se per colpa di quello che vedevo, considerando che non c’erano i social ma c’era la televisione e i miei esempi erano le veline, oppure un po’ per la mia famiglia, sono cresciuta con l’idea che la magrezza fosse equivalente al successo. E questo pensiero lo ritrovo in molte persone con cui mi capita di parlare, a dire il vero. È devastante, se ci pensi.
Sì, è come se partissi svantaggiato, a monte, col pensiero che non meriti niente, non meriti il successo, non meriti di essere chiamata “bella” perché c’è un problema legato al tuo corpo.
Già. Quando ricevevo dei complimenti, anche cose sciocche tipo “come sei vestita bene”, “mi piace l’ombretto che hai”, io mi chiudevo in me stessa, quasi mi sconvolgevo. Allo stesso tempo, quando magari mi facevano dei complimenti professionalmente, mi irrigidivo e pensavo “com’è possibile, io non sono magra, non sono bella come nella mia testa dovrei essere”. I miei vent’anni, se potessi bruciarli, da questo punto di vista, lo farei.
… è difficile uscirne. Ripensandoci, a me avrà aiutato anche l’essermi trasferita a Roma dalla provincia: la grande città ha aiutato la ricostruzione di me stessa, poiché mi stavo ributtando in una situazione che era diversa, quindi così ho ricostruito un’immagine di me che piaceva a me, cercando di eliminare quelle voci.
Infatti, io vengo da Vicenza, una città molto piccola e provinciale, e Milano mi ha fatta sentire molto più libera.
Sì, sono gli schemi che si sono perpetuati magari anche nei gruppi di amici. Anche il nostro porci con determinate persone che magari già conosciamo ci porta a ripercorrere sempre i soliti passi, mentre alle volte, staccare totalmente ci aiuta a costruire nuove parti di noi.
“La ricostruzione di me stessa”
Cosa significa per te sentirti al sicuro?
Bella domanda. Dipende, perché ci sono vari tipi di sicurezza. La mia sicurezza mentale è sicuramente la comfort zone, quindi rimanere all’interno di un qualcosa che già conosco. Però, allo stesso tempo, questo non mi stimola, infatti io sono una che cerca il rischio: cerco sempre di mettermi in gioco e cerco il confronto. Quindi provo spesso ad uscire dalla comfort zone, sperimentare con nuovi tipi di video in cui magari non mi sento ancora totalmente comfy, mi lancio cercando di evitare di rimanerci dentro. So che la mia comfort zone mi dà forza e mi fa stare tranquilla, però allo stesso tempo so che non mi aiuta a crescere.
Sentire la libertà di riuscire a lanciarsi è tanta roba. Anche io, nel mio lavoro, ogni tanto mi sento un po’ ferma, vorrei farmi sentire di più e far sentire di più la voce di certe persone, e per forza dobbiamo lanciarci: magari qualcosa alla fine non va, ma almeno puoi dire che ci hai provato e hai espresso qualcosa di tuo che sentivi in quel momento. Se va bene, allora è bellissimo, se va male, va bene lo stesso.
Sì, o magari si impara dai propri errori, si corregge il tiro per la prossima volta.
Spesso anche nei commenti che leggo ai tuoi post leggo persone che si sentono rappresentate. Quanto è importante per te una giusta rappresentazione in generale?
È fondamentale. Forse è anche questo che mi ha stimolata a fare quello che faccio. Sin da piccola, io ho sempre sognato il teatro e il cinema, e li vedevo come ambienti irraggiungibili, perché con la mia fisicità io non ero sicuramente la classica persona adatta a fare l’attrice. Ho dei chili in più, che mi avrebbero condizionata a determinate parti, quindi sono sempre partita con questa idea, ma allo stesso tempo non vedevo l’ora di arrivare io per rompere gli schemi. Quindi, quando sui social mi sono resa conto che attraverso la mia fisicità riuscivo a far sentire bene delle persone, a far sì che si svegliassero senza pensare che si sentivano grasse, ma guardandosi e dicendosi, “Ah, come mi sta bene quel maglione!”, mi sono resa conto che qualcosa si poteva cambiare. Poi, effettivamente, la visione sta cambiando: lo notiamo nel cinema, in TV, nei media, spesso si fa anche “washing”, ma se all’inizio mi faceva incazzare l’idea che ci fosse del “washing”, ora sono contenta lo stesso, perché l’importante è che chi arriva a guardare questo tipo di contenuto si senta comunque rappresentato, che sia falso o meno, conta che non si senta esterno. Sono contenta di poter far ridere qualcuno, e spero che più andremo avanti, più tutti si sentiranno parte di un qualcosa che non dev’essere elitario, perché l’intrattenimento, il cinema e il teatro dovrebbero raccontare anche di noi.
“Il cinema e il teatro dovrebbero raccontare anche di noi”
Qual è il tuo processo di scrittura degli stand up? Hai mai pensato di scrivere una sceneggiatura?
Sì, assolutamente, è un sogno che non sta più neanche nel cassetto, l’ho tolto dal cassetto perché voglio fargli prendere aria. So che ci vorrà tempo. Non curo solo io la parte della scrittura, lavoro sempre con Donato, che è il mio collega: ci divertiamo molto e speriamo di andare oltre. Intanto, siamo riusciti a scrivere un libro e siamo già soddisfatti di aver provato un tipo di scrittura diversa. La scrittura dei social e del web è una scrittura molto veloce, ma che dev’essere anche molto comprensiva, mentre dei formati diversi come un libro o anche un video un po’ più lungo che abbiamo realizzato su YouTube ci permette di raccontarci in maniera più dettagliata e anche più artistica. Quindi, magari arrivare anche oltre, offline, e provare a scrivere un qualcosa del genere. Ne avrei tanta voglia.
Ci sono dei riti/abitudini che fai ogni giorno per “connetterti” con te stessa o è un qualcosa che ti viene naturale?
Devo dire di no, non ho riti e routine, anzi sono una persona molto poco abitudinaria. Spesso cambio gli orari in cui pranzo o ceno, vado a dormire tardi e mi sveglio presto, sono molto sconclusionata, nel mio disordine trovo la mia pace secondo me! [ride]
Ti sei mai sentita sola? Se sì, come affronti la solitudine? O a volte la cerchi? Per me per esempio, un rituale sarebbe stare un po’ da sola tutti i giorni, anche se non ci riesco quasi mai, ma è il mio unico modo di ricaricarmi.
Da questo punto di vista ti capisco, perché lavoro in un team e quindi non ho mai un attimo per me. Quindi, non mi sento mai sola, anzi, sono molto contenta, perché lavorare da soli ti permette di non avere alle volte la percezione di quello che stai facendo, invece delle altre voci ti aiutano sempre un po’ a migliorare anche qualcosa che per te era perfetto, e poi ti rendi conto che manca tanto così e può diventarlo ancora di più. Anche a me piacerebbe trovare momenti di solitudine, perché è bello riappropriarsi un po’ di sé stessi, magari anche mettere in ordine le idee. Però, è difficile, è molto difficile in questa vita frenetica e soprattutto condividendo il mio lavoro con il mio partner, ma ci si prova.
“…è bello riappropriarsi un po’ di sé stessi”
Invece, qual è stato il vaffanculo migliore della tua vita finora?
Me ne vengono in mente vari. Personali di sicuro, per tutte quelle persone che mi hanno identificato come il mio corpo e basta, quindi si sono fermati a giudicarlo “grasso” senza mai arrivare al dunque. Ogni tanto ce n’è stato qualcuno anche lavorativo, se ripenso alle volte in cui mi hanno detto cose del tipo, “Ma una donna non è così simpatica, una donna non fa comedy”. Poi, interni, di vaffanculo interni ne vengono fuori tanti [ride].
Qual è il tuo posto felice?
Non ne ho uno specifico. Mi piace viaggiare, soprattutto in estate quando parto per viaggi lunghissimi: essi stessi diventano il mio posto felice. Mi metto alla prova anche in quei casi, partendo senza avere un percorso preciso da seguire, abbandonandomi un po’. È bello perché ad un certo punto perdi la cognizione del tempo, non sai più da quanto sei in viaggio, sembra che sei in giro da una vita e che una casa non ce l’hai, e ogni giorno devi metterti alla prova. Forse è quello il mio posto felice, quando mi stimolo in quei momenti.
Parlando invece della scrittura, anche io scrivo molto, sia per The Italian Rêve, sia per conto mio, e a volte mi rendo conto che immedesimarsi in qualcun altro oppure far vivere al proprio personaggio o a sé stessi dei percorsi nuovi, si scoprono delle cose nuove di sé ogni volta. Qual è l’ultima cosa che hai imparato su te stessa attraverso la scrittura, o attraverso il tuo lavoro in generale?
Ho imparato una cosa molto importante, ovvero che spesso cerco il consenso. È molto più facile cercare il consenso, quindi evito di mettere me stessa in alcune posizioni che so che poi dovrei spiegare, perché la penso in una determinata maniera e so che il pubblico a cui arriverà il mio messaggio non la percepirà così, perché magari c’è un preconcetto radicato per cui una certa cosa è veritiera, quindi se te la espongo in un’altra maniera, non ti piacerà. Mi sono resa conto che probabilmente mi piace di più avere il consenso, cercare qualcosa per cui so che di sicuro incontrerò il riconoscimento o anche solo la comprensione dall’altra parte. Questo, effettivamente, l’ho realizzato tramite la scrittura: quando, per esempio, creo un personaggio diverso da me che si mette in dialogo con me stessa, mi risulta molto più difficile, perché mi rendo conto che io stessa mi bacchetterei. Scrivere, quindi, mi ha aiutata a capire questa cosa di me.
“Spesso cerco il consenso”
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Chiedere scusa. Penso che chiedere scusa sia una delle cose più coraggiose che si possano fare, come ha fatto quella ragazza di cui ti raccontavo prima. Io non so se a me fosse successo qualcosa di analogo, non so se con una persona che non conoscessi mi sarei messa a nudo per dire “perdonami, scusami, ho sbagliato”. Con una persona che conosci forse è più facile, perché vuoi recuperare un rapporto e ti rendi conto della necessità di scusarti. Si tratta di venire a patti con te stesso e renderti conto che non è stata la mossa giusta.
Cosa ti spaventa di più, invece?
Le blatte [ride].
Poi, ho un brutto rapporto con la morte. Mi spaventa molto la morte delle persone che mi circondano, quindi combatto col pensiero, “Se dovesse succedere qualcosa? Se questo fosse l’ultimo momento?”. Nel momento in cui la conosci un po’ più da vicino, poi un po’ te la porti dietro sempre. La morte, alla fine, è l’unica cosa vera, l’unica sicurezza che abbiamo è che moriremo, sarebbe stupido fingere che non sia così e dimenticarcene, quindi è normale che ogni tanto quel pensiero ci entri dentro e ci faccia rendere conto che il tempo passa.
Quand’è che ti senti più a tuo agio nella tua pelle?
Mi sento quasi sempre a mio agio nella mia pelle. Mi rendo conto che mi piace da morire, perché è il momento in cui mi sento del tutto me stessa, quando sono in un gruppo di persone che conosco, di amici con cui mi riesco a relazionare e soprattutto con cui posso condividere dei momenti. Amo molto l’idea di gruppo, ed è forse in quei momenti che sento davvero me stessa.
Photos by Johnny Carrano.
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