Tra i protagonisti dell’omonimo adattamento cinematografico di “Il mio nome è Leon”, il romanzo besteller di Kit de Wall, e nel nuovo adattamento teatrale de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, Poppy Lee Friar è un’attrice in grado di creare unici legami emotivi con i personaggi che interpreta e le storie in cui si immerge, di volta in volta.
Nel film drammatico “My Name is Leon”, ha affrontato e superato brillantemente la sfida di interpretare una madre con una dipendenza dagli antidolorifici ma una grande volontà di essere presente e affettuosa con i propri figli, all’interno di una difficile situazione familiare: Poppy ci ha raccontato della sua esperienza sul set e delle sfumature interpretative che ha aggiunto al suo personaggio rispetto a come era stato raccontato nel libro.
Nella pièce “To Kill a Mockingbird”, con sceneggiatura firmata da Aaron Sorkin, si muove sul palcoscenico guidata dalla voce della sua Mayella Ewell, costantemente ispirata dalle reazioni del pubblico e dai complimenti del dopo-show: Poppy ci ha parlato dell’importanza dell’arte nella realtà post-pandemia, e del bisogno degli esseri umani di esperienze tangibili in un mondo dipendente dalla tecnologia.
Lasciando che le emozioni prevalgano sull’istinto e assecondando la propria naturale tendenza a cercare di dare sempre il meglio, Poppy sogna un’industria dell’intrattenimento con porte aperte per tutti, e in cui magari lei stessa possa avere l’occasione di viaggiare nel tempo e recitare in un’altra lingua!
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Ho tanti bellissimi ricordi di molti film visti crescendo, come “Grease” e “La storia fantastica”, ma direi che i primi ricordi che ho risalgono ai film di Harry Potter.
Fai parte del cast stellare di “Il mio nome è Leon”, il film targato BBC/Hulu, adattamento del romanzo bestseller di Kit de Waal: qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura e la prima domanda che hai rivolto al regista e a te stessa a proposito?
La sceneggiatura e poi il libro mi hanno commossa moltissimo. Ho pianto per Jake e Carol, per la loro situazione sfortunata e per la loro innocenza. Volevo che Carol sembrasse autentica e volevo indagare su cosa l’avesse messa in una posizione tanto scomoda nella vita. Io e Lynette Linton abbiamo concordato che sarebbe stata una brava madre, fondamentalmente, che ama i suoi due bambini più di qualunque altra cosa, ma è stata abbandonata dal sistema.
Io, non avendo figli, mi sono domandata come avrei potuto approcciare il ruolo in maniera autentica, ma sapevo, in fondo, che il mio livello di connessione emotiva e comprensione sarebbe stato sufficientemente alto.
La storia ruota intorno ad un bambino di etnia mista, di 9 anni, che cerca di riunire la propria famiglia dopo essere stato dato in affido e separato dal suo fratellino Jake. In questo quadro, tu interpreti il difficile ruolo di Carol, la madre di Leon e Jake, una donna depressa, con una dipendenza da antidolorifici. Quali sono state le sfide principali dell’interpretazione di questo personaggio e come le hai superate?
È stata dura interpretare una donna che soffre di cattiva salute e depressione come Carol; ho parlato con alcuni psicoterapeuti che mi hanno aiutato a delineare lo stato emotivo in cui una persona come Carol si sarebbe potuta trovare. Inoltre, ho anche fatto ricerche su come la depressione post-partum veniva vista negli anni ’80, così come avere un bambino di etnia mista.
Questi dubbi mi hanno aiutato a realizzare che vita difficile avrebbe avuto e di quanto coraggio avrebbe avuto bisogno per affrontare la vita di tutti i giorni. La malattia e il giudizio sociale sarebbero stati molto meno compresi e crudeli rispetto a oggi, probabilmente. La conoscenza di questo contesto ha plasmato i miei pensieri su Carol.
Qual è stato il tuo processo di preparazione per questo personaggio? Ti sei affidata al romanzo o hai deciso di dare al tuo personaggio sfumature tutte tue?
Come capita in molti progetti, il romanzo e la sceneggiatura sono entità separate, quindi, nonostante fossi innamorata del libro, sapevo che Carol nel film sarebbe stata leggermente diversa e che anche io avrei individuato dei tratti che sarebbero stati unici della mia interpretazione.
Ho analizzato insieme alla regista, Lynette, il passato di Carol, una parte del quale conosciamo attraverso il libro e il suo stato emotivo, in diversi punti del film, e allo stesso tempo ho consultato un medico professionista per assicurarmi di sapere come la sua salute influenzasse i suoi movimenti quotidiani.
“Sapevo che Carol nel film sarebbe stata leggermente diversa e che anche io avrei individuato dei tratti che sarebbero stati unici della mia interpretazione”.
Hai scoperto qualcosa di nuovo su te stessa interpretando Carol?
Sono riuscita ad identificarmi con la tendenza di Carol a dare il meglio di sé.
Lei non ha una grande rete di supporto, e questo per fortuna non è il mio caso, ma se qualcuno come Carol avesse bisogno di aiuto e non lo ricevesse nella maniera corretta (lei avrebbe avuto bisogno di un una comunità che la supportasse invece di medici che le prescrivono medicine su medicine, per poi essere allontanata dai suoi figli), la vita inizierebbe ad imboccare una strada negativa. Dunque, io cerco sempre di non giudicare mai le persone.
In base alla tua esperienza, qual è il lato migliore e l’aspetto più complicato del viaggiare indietro nel tempo, in un’epoca a cui non appartieni, per un film?
Il bello è la moda del tempo e l’esperienza incomparabile di immersione in quell’epoca che non avresti modo di vivere altrimenti.
Viaggi davvero nel tempo per un po’!
Il lato più difficile è assicurarsi di capire al meglio come si viveva a quel tempo dal punto di vista culturale e politico, ma per la maggior parte, si tratta di un’esperienza meravigliosa e adoro farlo.
Quando ti prepari per interpretare una parte, il tuo approccio è più razionale o emotivo?
Entrambi i tipi di approccio sono necessari, ma forse lascio che siano le mie emozioni a guidare il mio istinto, dal momento in cui leggo la sceneggiatura a quando sono sul set. Bisogna connettersi emotivamente con la storia e con i personaggi e poi, si spera, con i partner di scena in quel momento.
“Lascio che siano le mie emozioni a guidare il mio istinto”
Ti vengono in mente alcuni cambiamenti in particolare che ti piacerebbe vedere nell’industria dell’intrattenimento? Come vorresti che questo mondo evolvesse?
Secondo me, è importante offrire opportunità alla classe operaia e a tutte le etnie. L’industria sta cambiando, il che è positivo, ma temo che a volte si riduca in sola burocrazia, motivo per cui credo abbia bisogno di avere una mentalità aperta un po’ più spesso.
Attualmente, stai interpretando Mayella Ewell nel nuovo adattamento teatrale del classico di Harper Lee, “Il buio oltre la siepe”, con la sceneggiatura rivisitata da Aaron Sorkin. Com’è stata la tua esperienza in questa produzione, fino ad ora? Quali sono gli aspetti più complicati e quelli più stimolanti del processo di mettere in scena l’adattamento di un cult della letteratura?
Ho letto il copione e registrato la mia audizione per il ruolo in tempi pre Covid, e non vedevo l’ora di farne parte. Poi, ovviamente, è iniziata la pandemia e io ho vissuto sperando che la pièce tornasse a cercarmi e così è stato.
Ho una fortuna incredibile a lavorare in teatro dopo tutto quello che abbiamo passato, e la produzione è eccezionale. La sceneggiatura mi ha commossa fino alle lacrime e ho subito sentito la voce di Mayella, sin dalla prima lettura. È stato molto impegnativo reggere il peso delle sue emozioni e della sua condizione ogni sera, ma è stata anche una delle cose più gratificanti che abbia mai fatto. Trovo molto stimolante quando il pubblico si commuove o si congratula con noi dopo uno show. Penso che la storia stia continuando ad avere lo stesso impatto che ha avuto il romanzo di Harper Lee e questa è un’enorme conquista.
Il teatro è sempre strapieno, il che conferma il potere del romanzo e delle persone coinvolte nella produzione dello spettacolo.
Qual è la differenza principale tra il palco e il set per te?
Direi che la differenza più rilevante è la connessione che avviene con il pubblico quando reciti sul palcoscenico, che non può avvenire sul set.
Sul palco si crea un’energia istantanea e un tipo di concentrazione che ingigantiscono le emozioni che provo. È un’esperienza molto umana e organica che non si può paragonare con lo schermo, e raccontare un’intera storia in un’unica linea temporale è completamente diverso dal mettere su un film, in cui la maggior parte delle scene sono girate in ordine sparso. Si crea un legame tra tutti noi nella compagnia teatrale forgiato da mesi e mesi di duro lavoro e connessione con i nostri personaggi. Sono dell’idea che alle persone piaccia riconnettersi con l’arte attraverso il teatro o qualcosa di tangibile, dopo il lockdown, e la dipendenza dalla tecnologia che ci caratterizza oggi. È la via da seguire, il nutrimento dell’anima.
“Sul palco si crea un’energia istantanea e un tipo di concentrazione che ingigantiscono le emozioni che provo”.
Il tuo ultimo binge-watch?
Non mi piace molto fare binge-watching. Mi capita più spesso di imbattermi in qualcosa per caso, magari perché mi è stata raccomandata o perché mi interessa chi l’ha diretta, e quando ho tempo me la guardo. Di solito si tratta di film, di qualunque anno.
Un (altro) personaggio realmente esistito che ti piacerebbe interpretare?
Non c’è n’è uno in particolare, ma adoro il romanticismo e il mistero che caratterizza la vecchia Hollywood, quindi forse mi piacerebbe interpretare qualcuno come Greta Garbo.
Qual è il tuo must-have sul set?
Acqua e crema solare/occhiali da sole se giriamo all’aperto tutto il giorno.
Qual è il libro sul tuo comodino in questo momento?
“Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy e un libro di grammatica francese della Collins.
La canzone che è attualmente in cima alla tua playlist?
Ascolto cose diverse ogni giorno, a essere sincera. Il bello delle playlist di Spotify è che ti fanno scoprire nuova musica che altrimenti non avresti mai scoperto. Mi piace ascoltare musica dal mondo (jazz polacco, classica vecchia scuola dello Zimbabwe), musica classica…
Qual è la tua più grande paura?
Che il cambiamento climatico distrugga il nostro delicato ecosistema più di quanto abbia già fatto.
L’ultima cosa/persona che ti ha fatto sorridere?
Flo, il cane della mia collega Laura.
Quali storie sogni di raccontare?
Storie sull’esperienza umana e le nostre complessità emotive. Amo il cinema europeo, registi come Luca Guadagnino e Céline Sciamma.
Mi piacerebbe recitare in un’altra lingua.
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Significa non preoccuparsi della percezione o dei giudizi degli altri sul tuo aspetto o su quello che fai. Non è semplice, ma quando provi quella libertà, ti senti a tuo agio nel tuo corpo. Essere in salute – mangiare sano, cibo organico se possibile, fare un po’ di esercizio fisico, e bere tanta acqua.
Qual è la tua isola felice?
Dipende da come mi sento. Dovunque siano i miei cari. Quando mi sento realizzata dal punto di vista creativo al lavoro, o quando guardo un bellissimo film o pièce teatrale. Un’altra isola felice è la natura, lontano da macchine e smog, idealmente con un cane. È tutto più bello con un cane.
Photos by Johnny Carrano.
Makeup by Kim Kiefer.
Hair by Louis Byrne.
Styling by Alexandria Reid at Frank Agency.
Thanks to The Langham, London.
LOOK 1
Dress: Celia B
Boots: Terry de Havilland
LOOK 2
Gold earring: Deborah Blyth
Dress: Christopher Esber – Koibird
LOOK 3
Red trousers: Sister Jane
Heels: Jimmy Choo
Earrings: Jimmy Choo
Cropped blazer: NUE – Koibird