Pace. Silenzio.
Spesso è questo che cerchiamo nella vita e, nella frenesia di momenti di possibilità, red carpet ed eventi, con Quintessa Swindell, ci siamo concessi il lusso di prenderci un momento di pace, ed è stato qualcosa di unico.
E così ci siamo ritrovati in una isoletta, l’Isola delle Rose a Venezia, un contesto di cui abbiamo fatto il nostro rifugio per lasciar riposare i nostri sentimenti, ma anche per lasciarli parlare.
“Sono un disastro”, abbiamo detto entrambe dopo qualche minuto di conversazione. E alla fine, è stato proprio questo “disastro” che ci ha unite e ha liberato emozioni che mi hanno fatto ricordare, ancora una volta, come ho detto anche a Quintessa, il motivo per cui faccio questo lavoro, ed è stato un onore per me essere il destinatario di certe confessioni.
In questa intervista, abbiamo parlato del film che ha presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, “Master Gardener”, ma anche del suo ultimo progetto, “Black Adam” e poi, soprattutto, abbiamo discusso di quanto possa essere difficile il perdono quando si tratta di razzismo e di come “Black Adam” sia stato fondamentale per avvicinarsi alla sua comunità e rivendicare la fluidità del suo corpo.
È difficile spiegare a parole cosa succeda quando una persona condivide sentimenti così specifici con te, donandoti, in fin dei conti, una parte di loro, che io custodirò cara, consapevole di aver imparato qualcosa di nuovo.
La nostra Cover di ottobre è Quintessa Swindell, e non potremmo esserne più fieri.
Io Paul Schrader lo amo alla follia e questo film mi è piaciuto tantissimo. E la tua performance è sensazionale. Trovo i film di Paul così poetici e profondi, e questo non è da meno. Com’è stato lavorare con lui e, in particolare, lavorare con lui alla sua interpretazione del film, che è sempre così specifica?
L’ultima parte della domanda è ottima, perché spesso la gente non lo coglie a pieno: c’è la storia, e la storia, secondo la sceneggiatura, è quella che è, ma poi c’è anche l’aspetto e il punto di vista e la prospettiva del film secondo il regista, per esempio, che può essere completamente diverso rispetto a quello che emerge dalla sceneggiatura secondo noi. Quindi, la versione che ho nella mia testa è completamente diversa, credo, lo è dal modo in cui Sigourney [Weaver] parla del film, da come Joel [Edgerton] parla del film. Secondo me, abbiamo tutti avuto un’esperienza diversa, e credo proprio che Paul Schrader la veda diversamente da me anche perché il contenuto del film è molto specifico – è una visione bellissima e, in un certo senso, provocatoria della redenzione, e lavorarci con Paul è stato molto interessante; ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta, “davvero? È così che la vedi tu?” e lui mi diceva, “beh, è quello che dice la sceneggiatura e il personaggio è così”.
È stata dura per me, a volte, mettere da parte le mie opinioni personali sui contenuti del film e quello che veniva raccontato, e immergermi nei sentimenti del personaggio, che sta attraversando un percorso completamente diverso rispetto al mio; quindi, ho dovuto lavorare sodo per cercare di immedesimarmi in una persona che crede che qualcuno si è sforzato di pentirsi per cose fatte in passato.
È stata dura per me, perché ha riportato a galla certi periodi della mia vita e persone che non ho ancora perdonato, e mi ha fatto pensare al perché io non l’abbia fatto e cosa mi abbia impedito di riconoscere il pentimento e vedere quelle persone sotto la luce del cambiamento. Tutti quanti, immagino, abbiamo provato cose simili in questo senso, quindi Paul ha lavorato con me su questo aspetto ed è stata un’esperienza nuova per me, con qualcuno che sa bene che tipo di film vuole fare.
“Mi ha fatto pensare a […] cosa mi abbia impedito di riconoscere il pentimento e vedere quelle persone sotto la luce del cambiamento”.
C’è un momento, nel film, in cui Narvel dice che i giardini sono la primissima forma d’arte, creata dalla natura. Il film e la sceneggiatura mi hanno rapita al punto da farmi ricordare perché il cinema è la mia forma d’arte preferita. Qual è la tua?
I film. Durante l’infanzia, ho vissuto con un genitore single che lavorava tutto il cazzo di giorno, per quanto io rispetti molto mio padre per gli sforzi che ha fatto per me.
Io passavo molto tempo nel suo ufficio; c’era una televisione che portavamo lì e che aveva una porta per le videocassette, quindi io mi mettevo a guardare VHS dopo VHS. Ne avevo una montagna, e poi, più tardi, sono diventati dvd, e io iniziato a voler guardare tutti i film che guardava mio padre: mi ricordo “Sideways – In viaggio con Jack”, con Paul Giamatti, e io che dicevo “sembra figo!” e mio padre che mi diceva “no, no, no, assolutamente no!” [ride] Ricordo anche di aver sentito molto parlare di “Taxi Driver” da ragazzina e di aver pensato “voglio guardarlo perché sembra una roba assurda!”, e poi mio padre amava Robert De Niro, quindi mi dicevo “voglio guardare quello che guarda papà”, e allora è stata la prima volta in cui ho realizzato che ci sono alcuni film che ad una certa età non potevi guardare, e da piccola mi ha sconvolta come cosa, non capivo perché mai non potessi.
Dopodiché, i film sono diventati la mia ossessione e ho iniziato a voler prendere lezioni di recitazione e infatti sono entrata in un’accademia di teatro, poi in un college, e poi ho seguito un programma di studio all’estero durante il liceo, in un altro Stato.
I film sono incredibili secondo me.
Il tuo personaggio è quello che subisce il cambiamento più radicale nel film, succede anche a Narvel, ma non ne vediamo granché, mentre il tuo si svolge proprio davanti ai nostri occhi. Che tipo di preparazione hai fatto per il tuo personaggio e qual è stata la tua reazione quando hai letto la sceneggiatura per la prima volta?
La prima sceneggiatura che ho letto era ben diversa rispetto a quella definitiva, aveva un finale diverso – non dirò quale fosse, ma era diverso, forse era più in stile Paul! [ride] Ed è anche per questo motivo che il film è speciale per Paul, perché rappresenta qualcosa di diverso. Ho la sensazione che, avendo raggiunto quest’età, qualcosa in Paul sia cambiato, e che lui sia diventato più speranzoso e ottimista a proposito di come le cose potrebbero essere e di come sono. Quando ho letto la sceneggiatura, l’ho adorata, perché era violenta, e io finalmente potevo interpretare una ragazza che si comportava da violenta.
Ad ogni modo, ho adorato anche la seconda versione del copione, perché quella stessa violenza era ancora rappresentata ma accadeva interiormente. Secondo me, riuscire a perdonare completamente una persona che ha fatto del male a qualcuno della tua comunità – sai, avrebbe potuto essere mia nonna, o la mia famiglia – non è semplice, e il personaggio è afflitto da questo dilemma. Ricordo una scena in cui parlo proprio di questa cosa, e ricordo che è stato un momento molto intenso e personale, una scena per cui ero grata perché mi dava la possibilità di esternare quella violenza che io avevo subito mentalmente, di dimostrare che stavo vivendo una situazione che mi stava distruggendo. Mi ritrovavo a pensare “sto facendo un torto alla mia comunità, arrendendomi al perdono? O sto facendo la cosa giusta, accogliendolo?”, il che era probabilmente la cosa più assurda e al contempo più violenta da fare, in quel senso. È stato tutto molto viscerale.
Ricordo che, nel periodo in cui stavamo girando, ci fu una sparatoria a Buffalo, nello stato di New York: un suprematista bianco entrò in un supermercato e uccise una manciata di persone nere e anziane, uomini e donne totalmente innocui, che stavano semplicemente facendo la spesa; mentre giravamo, non facevo altro che pensare a questa cosa: se qualcuno della mia famiglia fosse stato al loro posto, io sarei mai stata in grado di perdonare? Dunque è questo stato d’animo che ho cercato di incanalare per quella parte del film, il che emotivamente è stato intenso perché questa merda succede così spesso negli Stati Uniti, ed è straziante perché sembra non decidersi a finire.
“Stavo vivendo una situazione che mi stava distruggendo”.
Il modo in cui hai interpretato Maya le ha reso giustizia. Ovviamente io non avevo idea di questi sentimenti che stavi provando allora, ma il modo in cui hai recitato nella scena del pranzo ha reso tutto così verosimile. Grazie per avermelo raccontato.
Mi ha fatto piacere. Non è stato un set facile, senza dubbio, perché sentivo che la storia e il punto di vista di Paul erano davvero speciali, e questo è il tema più attuale negli Stati Uniti al momento e lo è da sempre e purtroppo, oppure per fortuna, lo sarà sempre. Ma grazie, apprezzo molto quello che hai detto.
Se Maya avesse un suo diario, cosa scriverebbe sulla prima pagina?
Le tue domande sono incredibili! [ride]
Probabilmente scriverebbe una lettera per sua madre, qualcosa per farle sapere che, in un modo o nell’altro, ce l’ha fatta, qualunque cosa significhi.
Tra l’altro, anche la fiducia è una tematica importante. La fiducia, in generale e nel mondo del cinema, è essenziale. Il regista si fida di te, tu ti fidi dei tuoi colleghi attori e loro si fidano di te. Come ti fa sentire sapere che qualcuno ha fiducia nel tuo lavoro? Credi sia complicato?
No, credo sia una benedizione. Paul mi ha dato tanta fiducia, ed è una leggenda, così come Sigourney, Joel, anche loro, e sentirsi degni di fiducia è magnifico.
Ho lavorato sodo per arrivare dove sono e ne ho passate così tante che, quando qualcuno con una storia così immensa nel mondo che ti appassiona crede in te, è pura catarsi, perché la recitazione e i film per me sono come una terapia, quindi ogni lavoro, ogni opportunità per me sono un’occasione per dare di matto e far uscire tutto quello che ho dentro, quindi ogni volta provo tanta gratitudine.
C’è sempre un ostacolo diverso da superare: in “Master Gardener” è stato riuscire a rappresentare qualcuno di molto incazzato e stufo che però non voleva provare più rabbia; in “Black Adam”, invece, ad esempio, la sfida era muovermi e provare emozioni e accogliere felicità e fluidità. Dunque, ogni esperienza comporta un elemento differente, ogni piccolo livello di fiducia con tutte queste persone che nella loro vita hanno fatto così tanto è ciò che mi fa venir voglia di andare avanti.
“La recitazione e i film per me sono come una terapia”.
Magari mi sbaglio, ma sono convinta che voi attori, con i numerosi personaggi che interpretate, avete occasione di lavorare anche su voi stessi, e di imparare nuove cose su voi stessi. Qual è stata l’ultima cosa che hai scoperto su di te, magari anche grazie a “Master Gardener” o “Black Adam”?
Con “Master Gardener” credo sia stato quanta voglia avessi di essere dov’ero. Ci sono un sacco di aspetti dell’essere attori che sono così ridicoli e senza senso e stupidi, ma poi ce ne sono altri che sono bellissimi e affascinanti, quindi “Master Gardener” mi ha insegnato ad andare avanti, qualunque cosa accada, finché ho speranza, e ad essere ottimista e lavorare sodo per arrivare dove anche Paul è arrivato, dov’è arrivata anche Sigourney, con quel livello di devozione e amore per il mestiere, e portare avanti la tradizione che hanno portato avanti anche loro. Per “Black Adam”, è stato semplicemente essere più felice, fidarmi di più di me, e ricordare di divertirmi durante il viaggio. È questo che i miei ultimi film mi hanno insegnato.
Recentemente hai detto che “Black Adam” è stata un’occasione per te significativa di entrare in contatto con il tuo corpo. Cosa significa, per te, sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Sarebbe il Paradiso, a dirla tutta.
Per gran parte della mia vita, ho sempre cercato qualcosa, che fosse la mia identità, la mia famiglia, o la mia storia, e lungo il mio percorso, ho spesso vissuto un senso di dissociazione dal mio corpo, il che in un certo senso è stato ciò che mi ha fatto trovare una bellissima comunità; le persone transgender di solito vivono questo genere di esperienza, e alcuni ne sono così appassionati, le persone transgender hanno così tanto amore dentro di sé. “Black Adam” è stato fondamentale perché mi ha proprio dato la spinta necessaria per sentirmi più a mio agio con il mio corpo, perché richiedeva che facessi un sacco di scene fisiche. Volevo che Cyclone fosse speciale, che avesse un qualcosa che la gente non avesse mai visto in un supereroe, e per fortuna i produttori volevano lo stesso, e Jaume [Collet-Serra] voleva lo stesso, e voleva farmi creare, ed è stata la prima volta che ho creato sul serio un personaggio e sono così soddisfatta della persona a cui ho dato vita.
Per me è un punto di riferimento, il modo in cui si muove, il suo potere, la sua forza quando è un supereroe, la sua personalità e quanto è esuberante e divertente quando è una persona comune con indosso abiti comuni, è davvero a proprio agio con sé stessa ed è una cosa che ho davvero ammirato e adorato. Tutto ciò mi faceva lasciare il set ogni giorno pensando: “Stai bene, sei apposto! Puoi amarti e andare avanti”. È stato fondamentale.
“‘Black Adam’ è stato fondamentale perché mi ha proprio dato la spinta necessaria per sentirmi più a mio agio con il mio corpo”.
Qual è stato il tuo più grande atto di ribellione?
Non aver mollato.
Qual è la cosa che ti fa incazzare di più invece?
L’indifferenza.
Qual è la tua più grande paura?
Il fallimento.
E la tua isola felice?
Questa è stata letteralmente la conversazione più bella che abbia avuto in questi ultimi tempi, dico davvero, ti ringrazio. Credo che la mia isola felice sia casa mia in Virginia, quando guido il furgoncino di mio padre per le strade di campagna.
Photos and Video by Johnny Carrano.
Makeup by Kenneth Soh.
Hair by Nai’vasha.
Styling by Wayman and Micah.
Location: JW Marriott Venice Resort & Spa.