“Non tanto elementare, Watson”: lo abbiamo imparato dalla nostra chiacchierata con l’attore inglese Royce Pierreson. Noto per le sue performance brillanti in prodotti cinematografici e televisivi di alto livello tra cui “Judy”, “Wanderlust” e “The Witcher”, Royce si è ora calato in nuovi, stimolanti panni: una rinnovata versione del Dottor John H. Watson nel crime drama originale Netflix “Gli Irregolari di Baker Street”, attualmente disponibile sulla piattaforma in tutto il mondo.
La “versione di Pierreson” è un Dottor Watson completamente diverso rispetto alla tipica rappresentazione del famoso personaggio di Arthur Conan Doyle, e ci sono ragioni specifiche dietro una serie di scelte altrettanto specifiche. Per saperne di più sulla serie e su tecniche di recitazione, carriera, vita, ideali del talento britannico, non perdetevi la nostra intervista con Royce Pierreson.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
La volta in cui sono andato a vedere “La Mummia – Il ritorno.” Ricordo che, a fine spettacolo, mia madre portò me e mia sorella a mangiare al Pizza Hut di fronte al cinema, e che parlammo di quanto fosse fantastico il CGI! Di sicuro non era il primo film che vidi al cinema, ma fu la prima volta che il senso di grandezza, ammirazione e spettacolo mi rimase così impresso. Fu la portata della produzione, la bellezza del loro ritratto dell’Egitto, la grandezza dello schermo, le possibilità infinite dell’arte del cinema. Un’esperienza molto speciale.
Il tuo ultimo progetto, la serie originale Netflix “Gli Irregolari di Baker Street”, uscita da poco sulla piattaforma in tutto il mondo, è un crime drama basato sulle avventure della coppia di detective più famosa della letteratura: Sherlock Holmes e il Dottor Watson. Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto il copione e quale domanda hai rivolto a te stesso e ai registi a proposito?
La mia prima reazione… Mai avrei immaginato di poter interpretare il Dottor Watson, voglio rivoluzionare il personaggio! Watson, in letteratura, è la voce della ragione, il braccio destro (nel senso più letterale del termine), io voglio individuarne l’oscurità. Johnny Kenton ha diretto il primo blocco, non ricordo qual è stata la prima cosa che gli ho chiesto, ma avevamo lavorato insieme qualche anno prima in un cortometraggio, quindi avevamo già una certa confidenza, il che non era male. Gli ho parlato molto della voce di Watson e del perché volevo che suonasse nel modo in cui suona. Abbiamo anche parlato del passato di Watson e di come l’ha formato fisicamente. Johnny è fantastico, è aperto alla discussione.
Eri fan delle opere di Sir Arthur Conan Doyle anche prima di entrare a conoscenza del progetto e diventare parte del cast?
Ero e sono un suo grande fan. Mia madre ha i libri di Sherlock della collana Penguin Classics, quelli arancioni e bianchi, quindi ne sono sempre stato circondato, crescendo. La sua scrittura è così vivida, credo sia una ragione importante per la quale le avventure di Sherlock e Watson vengono riproposte così tante volte.
Nella serie, il Dottor Watson viene eccezionalmente descritto come un uomo dall’aria sinistra, socio in affari di Sherlock. Com’è stato interpretare una nuova versione di un personaggio talmente noto e così spesso rappresentato? C’è qualcosa di te nel tuo Dottor Watson?
Io non lo definirei sinistro, credo che la parola “sinistro” implichi una sorta di rimando all’esterno, qualcosa di premeditato da parte di Watson. Penso sia esattamente il contrario.
Riporta le ferite dei segreti del suo passato, deve fare i conti con i propri demoni mentre cerca di porvi rimedio. Così facendo, si è creato una maschera, ha innalzato una barriera con il mondo esterno che dice: “lasciatemi solo, non provateci neanche a entrare perché il negozio è chiuso”. Secondo me, se descrivi un personaggio come “sinistro”, finisci per immaginartelo come il tipico cattivo da pantomima che si arriccia i baffi e alza il sopracciglio! Inoltre, se ha indossato una maschera, è perché è un uomo di colore nella Londra Vittoriana, nell’alta società della Londra Vittoriana. Anche se nel nostro mondo non si fa riferimento diretto a quest’aspetto, è un dato di fatto, quindi è stato un dettaglio importante su cui lavorare. Ha dato al mio Watson la forza di dire al mondo: “Sì, sono un Dottore, ho tanti soldi, vivo tra voi e non me ne vado da nessuna parte, quindi fatevene una ragione”. Questo ha influenzato molto il modo in cui l’ho rappresentato.
Come ti sei approcciato, dunque, al tuo personaggio e come hai superato le sfide dell’interpretare questo ruolo?
Come ho detto poco fa, ho avuto vari, interessanti punti di partenza. Un altro spunto importante è stato l’accento. Ho pensato a che tipo di parlata quest’uomo dovesse avere e l’ho immaginato un po’ come un opportunista, un uomo che fino ad allora era riuscito a sopravvivere alla vita adattandosi. Quindi ho interpretato il personaggio come se fosse un uomo che aveva assunto l’identità di John Watson, che indossava i suoi panni come uno qualunque dei suoi personaggi e si era calato nel ruolo così bene da diventare lui in tutto e per tutto. Ecco perché ho voluto che l’accento suonasse quasi finto, una parlata che non si addice troppo all’uomo che vedi, ma non riesci a capire perché.
“Gli Irregolari di Baker Street” è una serie con un cast corale, composto dai giovani attori che interpretano la gang degli Irregolari, gli assistenti adolescenti di Sherlock e Watson che aiutano gli investigatori a risolvere i loro casi. Come hai lavorato con un cast così vario e numeroso alla costruzione delle vostre relazioni sullo schermo?
Il cast era fantastico, sono tutti bravissimi. Strano ma vero però, ho condiviso il set solo con pochi di loro. Come spesso accade quando si girano film con cast numerosi, riesci raramente a incontrare tutti e ti sembra quasi girare un film indipendente! Comunque sia, ci siamo divertiti molto a dar vita a questo mondo.
Lo sceneggiatore Tom Bidwell ha definito la serie come un racconto di “ciò che sarebbe successo se Sherlock fosse stato un criminale tossicodipendente e i ragazzi di Baker Street avessero risolto tutti i suoi casi con lui che si prendeva il merito”. Qual è il tuo punto di vista sulla distorsione dei ruoli tradizionali nel mondo di finzione? Pensi che un procedimento del genere possa influenzare la realtà e il modo in cui metabolizziamo il cambiamento, sia in termini di ideali personali, sia di crescita della società?
Vedere esperimenti di distorsione dei ruoli sullo schermo mi emoziona sempre, credo sia l’essenza della genialità della televisione/cinema, hai il potenziale di raccontare una storia in un infinità di modi. A mio parere, se hai intenzione di riproporre la storia di Sherlock e Watson, devi essere innovativo, prendere decisioni coraggiose e lasciarti trasportare. Il dibattito, le discussioni, lo scandalo, le ripercussioni negative ci saranno per forza di cose, perché avrai rotto le uova nel paniere e ad alcune persone non piacerà. Ma è quello il punto! Io non faccio le cose per sentirmi dire che sono “buone” o “belle” o niente di simile, io cerco di fare cose che possano provocare una reazione nelle persone, che le faccia dubitare, pensare, che facciano sentire la gente confusa, arrabbiata, innamorata, desiderosa di esprimersi. Le cose vanno impostate in modo che la gente le guardi davvero… capita troppo spesso di lasciarci semplicemente attraversare dalle cose a causa dell’enorme quantità di contenuti che abbiamo a disposizione. Quand’è stata l’ultima volta in cui avete davvero guardato qualcosa con attenzione, provando delle emozioni? Positive o negative non importa, ciò che conta è che ti incollino allo schermo. Sto sviando un pochino, ma è così che interpreto la tua domanda su “cambiamento, ideali personali e crescita della società”.
L’arte ha questo potere. L’immaginazione è il nostro unico limite.
“Io non faccio le cose per sentirmi dire che sono “buone” o “belle” o niente di simile, io cerco di fare cose che possano provocare una reazione nelle persone”.
Come descriveresti “Gli irregolari di Baker Street” con una sola parola?
Inversione.
Se potessi interpretare un altro personaggio famoso della letteratura o della realtà, chi sceglieresti e perché?
Mohammed Ali. È una vita che mi esercito a imitare il suo accento!
Nell’ultimo paio di anni, ti abbiamo visto in vari film e serie tv tra cui “Wonderlust”, “The Witcher” e “Judy”. Com’è stato condividere il set con veterani come Toni Collette, Henry Cavill e Renée Zellweger? Ti hanno mai dato consigli tecnici o dritte su come sopravvivere nell’industria dell’intrattenimento?
Ovviamente, i loro nomi parlano da sé, sono leggende, io stesso sono cresciuto guardandoli e imparando da loro, e una volta che li conosci, ti rendi conto di che persone meravigliose e generose siano. Mi hanno insegnato che, per valere qualcosa come attore o attrice, bisogna essere generosi, gentili e inclusivi, prima di ogni altra cosa, e loro erano tutto ciò. Sono stato molto fortunato ad avere l’opportunità di condividere lo schermo con loro.
Ti sei diplomato al Royal Welsh College of Music & Drama di Cardiff, e hai ottenuto ruoli in diverse produzioni teatrali. Tra cinema, televisione e teatro, qual è la dimensione in cui ti senti più a tuo agio, e qual è il mondo che ti piace di più?
Il teatro è stata la mia palestra, il luogo mi sono sentito al sicuro all’inizio. Fare televisione/cinema è qualcosa che ho dovuto imparare sul posto. Ho avuto la fortuna di ottenere due piccole parti durante la mia ultima settimana di scuola di recitazione, ma non avevo alcuna esperienza, per questo fu un battesimo di fuoco, ma o impari, oppure resti indietro. Ora, mi sento a mio agio in tutte quelle dimensioni indistintamente, adoro passare da un mondo all’altro quando posso. Non vedo l’ora di tornare sul palco, quando il Covid sarà finito, io come qualunque altro attore!
Qual è stato il tuo ultimo binge-watch?
“Homeland”. Non è esattamente un binge-watch, perché sono ancora alla terza stagione… ma è una serie così bella che sto cercando di razionarla.
Quali storie sogni di raccontare?
Non ho nessuna storia in particolare in mente, ad essere sincero, racconto le storie che sento il bisogno di raccontare in quel momento preciso della mia vita. Che si adattino insieme a me mentre io mi adatto.
L’ultimo film o serie TV che ti hanno fatto scoprire qualcosa su te stesso?
“When They See Us”. Ho scoperto che la violenza e brutalità della polizia saranno per sempre qualcosa con cui dovrò fare i conti nella vita perché sono nero.
Il tuo must-have sul set.
Un paio di cuffie.
Un epic fail a lavoro.
Una delle prime audizioni che ho fatto alla BBC per “Dr. Who”. Ero in sala d’attesa, chiamano il mio nome, mi alzo e vado lì a stringere le mani a tutti (quando si poteva ancora fare), mi si rompe la cintura, mi cadono i pantaloni, riesco ad afferrarli con una mano, mantenendo il contatto visivo durante la serie di strette di mano che da quel momento diventano imbarazzanti. Qualcuno disse qualcosa? Ovviamente no, siamo inglesi. Ottenni la parte? Mi avete mai visto in “Dr. Who”?
Hai paura di…?
I sockpuppet, quei pupazzi fatti con i calzini.
Un personaggio del cinema o della tv di cui vorresti essere amico?
Homer Simpson.
Qual è il primo dvd che hai comprato?
“Out of Sight”, con George Clooney e Jennifer Lopez. Lo pagai 50 pence. Un film super figo, astuto, sexy, sottovalutato, affascinante. Proprio come George Clooney e Jennifer Lopez. Ecco perché funziona, immagino! Devo ripescarlo e rivedermelo.
Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Ho segnato un goal contro il Bayern Monaco nelle finali di Champions League: gli ho fatto tirare un rigore, e poi alla fine ho segnato io il rigore della vittoria. All’epoca, mi facevo chiamare Didier Drogba.
Qual è la tua isola felice?
Stoccolma, sotto il sole, vicino all’acqua, o a casa in Cornovaglia.
Cosa puoi raccontarci dei tuoi progetti futuri?
Gestisco un’agenzia di produzione, Another Method Productions. Abbiamo appena firmato un contratto editoriale con una serie tv in pre-produzione. Una storia sul calcio e le discriminazioni razziali che cambierà le carte in tavola.
Photos by Joseph Sinclair.