Attore, regista, produttore, regista ma, soprattutto, narratore.
“The Politician”, “The Handmaid’s Tale”, “Why Women Kill”, “The Eyes of Tammy Faye”.
Ricercare una sceneggiatura intensa e intelligente (possibilmente comica), creare una playlist per ogni personaggio ma lasciare il canto a Ben Platt & Co.
Non possiamo negarlo, intervistare Sam Jaeger a Los Angeles è stato illuminante. Sam ci ha raccontato dei suoi ruoli, di ciò che cerca in un progetto e dell’importanza di rispettare le persone con cui si lavora (d’altronde, la vita è troppo breve per avere a che fare con gli stronzi) con un tale entusiasmo e passione che ci ha incuriositi a sapere sempre di più su lui.
Abbiamo iniziato il nostro viaggio insieme partendo dal suo personaggio negli anni ’60 in “Why Women Kill”, passando al pericoloso politico in “The Politician” (la seconda stagione uscirà su Netflix il 19 giugno) fino all’uomo intelligente e manipolatore che ammira Serena in “The Handmaid’s Tale“. Siamo stati catturati dalla sua visione del mondo di Hollywood e ora non vediamo l’ora di scoprire cosa gli riserverà il futuro, a cominciare dal suo prossimo progetto.
Pronti a conoscere Sam?
Sei un attore, un regista, un produttore – fai proprio tutto! Cosa ti ha spinto a volerlo fare?
Sono cresciuto in un paese che si chiama Perrysburg, in Ohio, e il mio migliore amico di allora voleva fare il regista, quindi spesso io recitavo e lui mi dirigeva; ad un certo punto ho pensato: “Abbiamo bisogno di storie migliori”, quindi ho iniziato a scrivere. Mi sono sempre sentito più un narratore che un semplice attore, e anche una volta che mi sono trasferito qui non mi è mai piaciuta la sensazione di essere un attore, non mi piace lo sfarzo e non mi interessa il lato glamour del mestiere; e poi, non mi piaceva l’idea di entrare in una stanza e avere qualcuno che stabilisse a cosa servissi, molte volte mi sono ritrovato ad avere a che fare con del materiale che non trovavo buono e pensavo: “Per quale motivo dovrei dimostrarti che sono adatto al tuo progetto?” Hollywood adora raccontare storie su di sé, ma a me interessano molto di più le storie che parlano del posto in cui sono cresciuto. L’Ohio è a metà strada tra la Costa est e il Midwest, quindi ci sono molte storie che non vengono raccontate, e sono quelle le vite a cui sono interessato.
Stai scrivendo qualcosa adesso?
Sì, ho scritto una serie basata sulla mia famiglia. In famiglia abbiamo un poliziotto, un infermiere, un pastore e, a mio parere, quelle sono storie molto più interessanti della storia di un attore perché l’abbiamo già vista, a me interessa molto di più svelare come il loro lavoro li abbia aiutati ad aumentare la loro comprensione dell’umanità.
“Mi sono sempre sentito più un narratore che un semplice attore”.
A proposito del tuo personaggio, Rob, in “Why Women Kill”, cosa ti ha spinto a dire di sì al progetto e come ti sei preparato per il ruolo?
Ero affascinato dal personaggio perché in questo momento dobbiamo essere tutti molto attenti alle parole che usiamo, e un uomo che vive nel 1963 e che è molto sicuro di sé, della sua posizione, del suo ruolo in casa, che non si preoccupa di niente e di nessuno al di fuori di sé, è un ruolo molto interessante da interpretare, qualcuno che è così lontano da me e anche dalla sua era, perché nell’America del 1963 le cose stavano iniziando a cambiare; vedendolo sullo schermo ora, è agli antipodi di quello che oggi è considerato politicamente corretto, e lo trovo interessante, è il ritratto onesto di un’era. Le persone coinvolte nel progetto erano fantastiche, la sceneggiatura è intensa e intelligente, e questo è un altro requisito fondamentale affinché io accetti un lavoro.
È incredibile come, nonostante le storie siano ambientate in periodi diversi, la società non subisca cambiamenti poi così grandi, dopotutto.
Ciò che è interessante, secondo me, è come le nostre insicurezze in quanto umani non cambino, mentre le circostanze intorno a noi subiscono dei cambiamenti drastici. Il mio personaggio del 1963 non potrebbe mai esistere oggi, lo rinchiuderebbero subito per il suo essere una persona orribile (ride), oppure dovrebbe farsi molto più furbo per evitare una fine del genere. Nel 1963 era facile essere distaccati o far finta di niente, mentre oggigiorno è molto difficile far finta di niente, devi fare degli sforzi mirati per isolarti dal mondo.
“Le persone coinvolte nel progetto erano fantastiche, la sceneggiatura è intensa e intelligente, e questo è un altro requisito fondamentale affinché io accetti un lavoro”.
Parlando di “The Politician” invece, la prima stagione era incentrata su un gruppo di adolescenti che affronta il tema dell’ambizione e della politica. Cosa dovremmo aspettarci dalla seconda stagione?
I personaggi stanno crescendo e il loro mondo si sta espandendo. La maggior parte della seconda stagione è ambientata a New York, quindi vediamo come i personaggi principali reagiscono ad una serie di circostanze totalmente diverse. Inoltre, trovo interessante il fatto che l’ambientazione sia New York. Conosci più a fondo i personaggi, ma lo stile narrativo resta piuttosto intenso e non puoi perderti nemmeno un episodio. Ryan Murphy fa un ottimo lavoro, mantiene alta l’attenzione dello spettatore con questi cambiamenti netti. Non vedo l’ora di reimmergermi nella serie e vedere dove ci porterà.
Alla fine della seconda stagione conosciamo Tino ma cosa dovremmo aspettarci da lui nella seconda stagione? Come lo descriveresti?
Tino è il tipo di politico più pericoloso: ispira fiducia, è carismatico e pronto a cambiare direzione per ottenere il potere.
Descrivi la seconda stagione di “The Politician” in una parola.
Sensazionale.
Ora che Payton (Ben Platt) si ritrova ad affrontare un mondo più grande e la politica vera e propria, quali sono i nuovi e fondamentali temi toccati dalla serie?
Si basa tutto sul fatto che le relazioni si fanno particolarmente intricate nella seconda stagione. La posta in gioco è molto più alta e le alleanze, sia personali che politiche, si fanno più tediose.
“Trovo interessante il fatto che l’ambientazione sia New York. Conosci più a fondo i personaggi, ma lo stile narrativo resta piuttosto intenso e non puoi perderti nemmeno un episodio”.
Dal momento che la serie presenta dei momenti musical… Qual è il tuo musical preferito? Ti vedremo cantare?
È difficile battere West Side Story. Il mio punto debole al liceo era interpretare personaggi che non ti ricordi per i loro momenti di canto, come il dentista in Little Shop e Riff in West Side. Fortunatamente, Brad and Ryan sono stati abbastanza intelligente da lasciare il canto a Ben & Co.
Come si evolve la relazione con Dede Standish durante la nuova stagione e come è stato lavorare con Judith Light e Bette Midler?
Spero sempre di lavorare con attori esperti come Judith e Bette che ci tengono profondamente a fare un buon lavoro. Il fatto che lavorino così e che portino il buonumore sul set è di grande ispirazione.
Sia “The Politician” che “The Handmaid’s Tale” rappresentano sullo schermo i problemi politici e sociali del mondo reale, anche se in maniera completamente diversa, ovviamente. Preferisci un approccio comico o drammatico a tali tematiche?
Io preferisco sempre un approccio comico, perché ho l’impressione che nel momento esatto in cui inizi a dire alla gente che qualcosa è importante, loro smettono di ascoltarti. Secondo me, se usi la commedia per affrontare una questione, la gente riesce a trarre vari insegnamenti. Uno degli esempi migliori a questo proposito è il film “Il dottor Stranamore” di Kubrick; la prima volta che l’ho visto avevo 13 anni, mi avevano detto che era un bel film, quindi volevo vederlo, ma fu solo a distanza di un anno che capii che si trattava di una commedia, perché era girato in maniera da sembrare un documentario sotto molti aspetti, e Kubrick ha usato il senso dell’umorismo piuttosto tagliente, ma crescendo, quando l’ho visto una seconda volta, me lo sono goduto nella sua essenza comica. A mio parere, quel film dice della nostra società molto più di quanto non dicano molti altri film ‘importanti’ di oggi.
“Secondo me, se usi la commedia per affrontare una questione, la gente riesce a trarre vari insegnamenti”.
A proposito di “The Handmaid’s Tale”, cosa vorresti che succedesse al tuo personaggio, e a Serena e Fred, nella prossima stagione?
Sapete cosa mi fa ridere? Ho scelto di proposito di guardare solo il pilot e un episodio che parla un po’ di Serena e di com’era prima di Gilead, e di non guardare il resto di “The Handmaid’s Tale” perché non volevo avere un punto di vista ‘interno’, soprattutto visto che il mio personaggio era un estraneo e conosceva quel mondo solo dall’esterno. Quando la gente veniva da me e mi diceva: “Grazie per aver preso i Waterford”, io ne ero un po’ sorpreso, perché sapevo bene che il signor Waterford era una persona orribile, ma non riuscivo a capire come la gente potesse avere sentimenti così ostili nei confronti di Serena, perché avevo semplicemente deciso di bendarmi gli occhi davanti alla sua storia – è più facile essere onesti ed innamorarsi di un personaggio se non si conoscono tutte le atrocità di cui è responsabile. Tutte queste questioni saranno svelate. Hanno fatto un ottimo lavoro nell’ampliare il contenuto del libro, ma credo anche che la fine della terza stagione fosse qualcosa che molte persone attendessero da molto tempo, perché non puoi vivere in quel mondo, anche come membro del pubblico, per troppo tempo senza pensare, “Okay, abbiamo bisogno di una qualche speranza qui”.
Il tuo personaggio empatizza molto con Serena, quindi c’è un certo contrasto tra la fine della seconda stagione e il rapporto che si crea tra te e lei…
Sì, sicuramente, ed è anche affascinante perché sono entrambi molto intelligenti e sanno come manipolare l’altro, ma sono anche consapevoli di come si stiano manipolando a vicenda, quindi credo che provino una grande ammirazione reciproca. Non ho idea di come andrà a finire, ma sono curioso tanto quanto voi.
Qual è il tuo personaggio preferito di “The Handmaid’s Tale”?
Credo che il personaggio che trovo più interessante sia Serena, a partire da come ha inizio la sua storia, dal poco che si coglie di quando era questa femminista incredibilmente in gamba e potente che in seguito ha scelto una vita così lontana dai suoi principi; è un personaggio molto affascinante, e lo è anche vedere come, nonostante abbia cercato di separarsi da quel mondo, vi sia ancora molto legata.
Qual è stata la tua reazione quando hai letto per la prima volta il copione del finale della terza stagione?
Mi sono emozionato. Ho avuto la sensazione che fosse qualcosa che noi, in quanto spettatori, aspettassimo da molto tempo. Sono tutti bravissimi nel non strafare a livello di scrittura, quindi ero sollevato, quel finale faceva esattamente quello che un finale di stagione dovrebbe fare, ovvero darti un senso di sollievo, ma anche incuriosirti e intrigarti per la stagione successiva.
“Sono entrambi molto intelligenti e sanno come manipolare l’altro, ma sono anche consapevoli di come si stiano manipolando a vicenda, quindi credo che provino una grande ammirazione reciproca”.
Anche il tuo video “Whenever You’re Around” ci è piaciuto tantissimo. In che modo la musica ispira il tuo lavoro e com’è stato realizzare il video?
L’autore musicale è un mio vecchio amico e ha anche realizzato la colonna sonora del mio primo lungometraggio, siamo legati da sempre, c’è un legame tra la sua musica, i miei film e la nostra amicizia, quindi quando doveva far uscire il suo nuovo album, mi ha chiesto di dirigere il video musicale. Abbiamo iniziato a parlare di come avremmo potuto impostarlo, e lui mi ha raccontato la storia di quando era ragazzino, aveva 10 anni, e andò a questa festa di compleanno dopo una partita di baseball – era stata una partita terribile – e durante la festa il suo sguardo attraversò la stanza e incrociò quello di una ragazza, che gli sorrise e colorò il suo mondo con una tale intensità che lui, letteralmente, si alzò, andò in bagno e si mise a contrarre i muscoli sotto la maglietta, si sentiva così emozionato per il fatto di essere stato notato. L’aspetto interessante della storia, secondo me, era la scintilla dell’amore giovanile, e che è a tutti gli effetti amore, solo che attraversa diverse fasi, lo so dalla mia esperienza con mia moglie; si comincia con quelle prime scintille d’amore che rimangono lì, ma il sentimento dev’essere coltivato, bisogna tenere vive le emozioni e celebrare la propria vita e relazione nel tempo. Sentivo che quel video era una celebrazione di questa idea, e omaggiare anche “Parenthood”, la serie che stavo girando allora, mi sembrava perfetto, perché la musica di Jordan [Beckett] detto “Bootstraps”, è stata presentata al mondo per la prima volta grazie a “Parenthood” e i personaggi della serie erano abbastanza in linea con quel sound nostalgico.
Quindi, la musica è fonte d’ispirazione per te?
Assolutamente. Anche prima di fare un’audizione per un qualche ruolo, creo una playlist di canzoni che penso possano essere adatte per la parte; per esempio, di recente ho fatto un’audizione per “Macbeth” e ho pensato, “Che tipo di musica può andar bene per la Scozia del XII secolo?” [ride], ma sono comunque riuscito a trovare delle canzoni, a dimostrazione di quanto la musica sia importante per me. Ascoltavo “The Pyramid Song” dei Radiohead, vecchia musica folk scozzese, una canzone di Alice Coltrane, che fa musica un po’ gospel e un po’ elettronica, cupa e spirituale, e quel tipo di mondo mi sembrava perfetto, quasi magico. Ho creato playlist per così tante occasioni, ho ancora playlist fatte per personaggi che ho interpretato anni fa.
“Ho ancora playlist fatte per personaggi che ho interpretato anni fa”.
Qual è la più grande sfida che ti sei ritrovato ad affrontare durante la tua carriera e come l’hai gestita?
Credo che la parte difficile di questo mestiere sia che non puoi nasconderti dietro un brand, quindi in qualche strano modo devi essere il brand di te stesso e a me non piace farmi pubblicità. Per anni ho cercato di capire quale brand fossi o come muovermi o presentarmi al mondo, invece di essere semplicemente la persona che mi sentivo a mio agio essere, cosa che ho capito invecchiando. Sono contento di essere invecchiato, credevo ne sarei stato terrorizzato, invece l’unica cosa che è cambiata e che me ne frego molto di più di quanto me ne fregassi prima, ed è confortante. Mi preoccupo meno del mio ruolo nel mondo e più del mio ruolo nella vita delle persone che mi sono vicine.
Qual è il tuo accento preferito da imitare?
Bella domanda, non so se ho un accento preferito! Mi piacciono gli accenti particolari. Ho una parte nel film “The Eyes of Tammy Faye”, e il mio personaggio, Roe Messner, è cresciuto in Kansas ma ha trascorso molto tempo nel Nord Carolina, quindi ho dovuto combinare due accenti e cercare di capire quale fosse l’ambiente in cui ha vissuto da ragazzino. Ho anche visto alcune sue interviste ed ha un modo di parlare davvero interessante, il suo timbro di voce è così morbido, amo quanto particolare possa essere un accento.
Cosa puoi dirci a proposito di “The Eyes of Tammy Faye”?
Beh, in poche parole, è una tragedia colossale! [ride] Ed è molto americana, è la storia di alcuni evangelisti che si spingono così in là nell’istituzione di una propria Chiesa per il bene di Dio che quasi si allontanano dalla retta via. Il fatto che sia ambientato negli anni ’80, quando la moda era orribile e tutto era così bigotto, rende l’insieme quasi shakespeariano, l’ascesa e la caduta di questa coppia, così innamorati eppure così lontani da ciò che avrebbero davvero voluto offrire al mondo.
Hai mai avuto un epic fail a lavoro?
Sì! Ero in una serie tv di David E. Kelley, si chiamava “Girls Club” e parlava di queste tre ragazze che andavano alla stessa facoltà di giurisprudenza e poi si laureavano e andavano a lavorare per la stesso studio legale, l’idea era quella che dovessero avanzare a livello sociale. Io interpretavo il fidanzato di una di loro, un pilota, che finiva per innamorarsi di sua sorella. Mi ricordo di essere stato scelto per il ruolo, ma la serie fu interrotta dopo i primi due episodi e io ero nel secondo e nel terzo episodio, quindi nessuno ha mai visto la puntata in cui si scopriva che io ero innamorato di mia sorella, ma quello è comunque stato un epic fail in tutto e per tutto, non credo nemmeno che David E. Kelley fosse così preso dalla serie; hanno perso così tanto tempo a cercare di capire quale dovesse essere l’aspetto delle donne, chi avrebbe dovuto portare i capelli raccolti e chi sciolti nelle varie scene, mentre io pensavo: “Non dovremmo concentrarci sulla storia? Perché la storia non è male”, e invece no, ma almeno così mi pagavo l’affitto all’epoca. Avevo una lista di cose che avrei voluto fare una volta iniziato a recitare, ma ho spuntato tutte le voci così in fretta, forse nei primi due anni, quindi l’idea era: “okay, quindi adesso per un po’ cercherò semplicemente di pagare l’affitto”, mentre ora per fortuna posso permettermi di essere un po’ più selettivo.
Qual è il tuo must-have sul set?
In realtà, sono uno di quelli che riuscirebbe a sopravvivere senza problemi in mezzo alla foresta in pieno inverno, ma se mi trovo con persone che non stimo e non rispetto, tiratemi fuori di lì. Per me è fondamentale essere circondato da persone che adorano essere dove sono, con cui è piacevole lavorare, che siano rispettose degli altri… perché è un’impresa così assurda quella del fare film o serie tv, che devi mostrarti grato delle persone che ti stanno concedendo il loro tempo. È questo il mio unico scrupolo. La vita è troppo breve per lavorare con gli stronzi.
“La vita è troppo breve per lavorare con gli stronzi”.
Ultima domanda: abbiamo parlato di molti progetti, ma ce n’è un altro su cui stai lavorando da regista o da produttore?
Sì, il mio prossimo progetto è incentrato su come il patriarcato degli uomini bianchi faccia fatica a lasciare spazio alle altre persone nel mondo. Parla di un uomo molto solitario che installa telecamere per vivere e così inizia a spiare una coppia di cui non si fida, perché uno dei due, il marito, sembra avere cattive intenzioni. È un noir, e ho capito che i miei film preferiti sono tutti, in sostanza, un unico film, ossia la storia di un uomo che cerca di salvare una donna che non ha bisogno di essere salvata; questa è una delle questioni principali dell’esperienza dell’uomo bianco, essere convinto che le persone abbiano bisogno di essere salvate anche quando non è cosi.
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup & Hair by Sonia Lee.
Thanks to Independent Public Relations.
Thanks to Dirty Laundry.
Follow Sam here.