Sara Lazzaro, artista versatile, è in grado di incantare il pubblico con la sua tecnica e profondità interpretativa. Cresciuta tra l’America, il Regno Unito e l’Italia, ha coltivato il suo amore per il cinema fin da bambina, un amore trasmesso dai suoi genitori, appassionati cinefili.
Quando la passione diventa carriera, il suo percorso nel cinema si riempie di progetti eterogenei, dove la scelta del “sì” è guidata dalla forza della sceneggiatura e dalla possibilità di esplorare nuovi territori creativi. Attraverso ruoli come Teresa in “La legge di Lidia Poët”, Agnese in “Doc – Nelle tue mani”, Marzia in “Sono Lillo” e altri ancora, Sara abbraccia la sfida di interpretare personaggi diversi, ciascuno con il proprio battito cardiaco unico.
Il 2023 si presenta come un anno di ritorni, con Sara che riprende le vesti di personaggi già amati dal pubblico, cogliendo l’opportunità di aggiungere strati e profondità, rivivendoli attraverso memorie fisiche, emotive e fitti quaderni di appunti. Per Sara, infatti, la recitazione è un’esperienza fisica tanto quanto emotiva. La postura, i costumi, diventano elementi chiave nel plasmare il suo approccio al personaggio, conferendo una dimensione tangibile alla sua espressione artistica e trasformando ogni ritorno sul set in un nuovo incontro con sé stessa.
Qual è il tuo primo ricordo legato al cinema?
Quand’ero bimba, non so bene se fossi in America o in Italia, dato che la mia infanzia si è divisa tra questi due posti, mi ricordo di questa sala buia con divanetti di velluto rossi, un odore di chiuso, e poi queste immagini molto grandi di non so quale film, forse un cartone. Penso fosse la mia prima volta al cinema: ricordo la sensazione della condivisione, il rumore delle persone.
I miei sono grandissimi amanti del cinema, quindi io sono cresciuta con loro che andavano spesso al cinema e hanno educato me e mio fratello ad andarci.
Solitamente, cosa ti fa dire di sì ad un progetto?
In generale, la sceneggiatura del film o della serie: per me è importante capire di cosa parla, com’è scritta e come si può inserire all’interno del meccanismo il personaggio che mi hanno proposto di fare, e come intuisco che io stessa mi potrei inserire creativamente.
Ho avuto la fortuna di interpretare personaggi molto diversi tra loro, e amo molto farlo: un po’ anche adesso, tra “Doc”, “Lidia Poët”, “Call My Agent”, “Sono Lillo”, sono tutti progetti molto validi e completamente diversi. Per me è estremamente stimolante calcare un territorio nuovo, avere l’occasione di esplorare qualcosa che non ho ancora esplorato.
“DOC – Nelle tue mani 3”, “La legge di Lidia Poët 2”, “Call My Agent 2”, “Sono Lillo 2”. Quattro progetti in cui riprendi personaggi già interpretati, ma come rientri nei loro panni? Il tuo approccio al personaggio cambia?
Innanzitutto, è interessante perché quando torno a interpretare un personaggio, è come se in parte tornassi anche ad una memoria fisica ed emotiva, perché l’ho raccontato con il mio corpo e con la mia voce. Tendo molto spesso a ripensare a momenti di scene che ho girato, alla sensazione che avevo, partendo dal corpo, dalla postura, dalla ritmica. Per me ciascun personaggio ha il suo “tempo”, come si dice in inglese, un battito cardiaco unico, quindi per i personaggi delle serie che hai nominato, io tornavo a riguardare i miei quaderni degli appunti – note sui personaggi a seconda delle stagioni, su tutte le scene che devo fare. In alcuni momenti, mi rivedo, nel senso che riguardo spezzoni di alcuni episodi, perché è come riascoltare una melodia, così tutto mi riparte dentro. Quest’anno è stato fatto soprattutto di ritorni, tranne un nuovo progetto in cui ho interpretato un personaggio mai fatto. La cosa bella è provare ad andare sempre un po’ più in profondità, aggiungendo caratteristiche o aspetti del personaggio che non sono ancora stati esplorati, quindi alimentare una tridimensionalità.
In tutti i progetti di quest’anno c’è un livello in più: è come se si aggiungesse un vettore: se prima c’erano solo X e Y adesso c’è anche la Z, si aggiunge un altro livello di consapevolezza, ma anche uno strato in più sul personaggio, e avendo più scene, più spazio, linee nuove, c’è modo di esplorarlo.
“Per me ciascun personaggio ha il suo ‘tempo’, come si dice in inglese, un battito cardiaco unico”
La recitazione è anche tanto fisica, oltre che emotiva.
Secondo me sì. Se penso alla postura che ho per Teresa in “Lidia Poët”, per non parlare dei costumi, la fisicità è qualcosa di fondamentale. Io vivo con reparti del costume e trucco e parrucco, grazie a loro è come se avessi una specie di feeling di cosa sto raccontando, a partire da come sono vestiti i personaggi, dal tipo di scarpe che indossano e di capigliatura che hanno, e così mi è più facile incorporarli nella storia. Dal momento in cui sono vestita e truccata, è come se tutto tornasse.
“DOC” è ormai un must della televisione italiana: cosa ci puoi svelare su Agnese in vista della nuova stagione?
Guarda, non posso svelare molto, ma diciamo che gli sceneggiatori quest’anno hanno fatto un 3.0, un altro salto. Di sicuro, ci saranno nuove sfide, nuove consapevolezze: sarà una stagione molto densa per Agnese.
Quanto c’è di Sara in Agnese?
Secondo me, in ogni personaggio che faccio c’è un pezzetto di Sara, ma forse anche di quello che non sono, nel senso che grazie ad un personaggio io riesco a tirar fuori caratteristiche non mie, che non mi appartengono, e le posso esplorare.
Agnese è cresciuta tanto negli anni, anche dentro di me: è una donna forte, e ritengo di essere anche io abbastanza forte e determinata. Per fortuna, io non ho dovuto vivere un dolore come quello che ha vissuto lei: non sono madre, non ho avuto perdite di quel tipo, non ho dovuto affrontare quei tipi di difficoltà. Agnese è una donna ferita, ma al contempo molto resiliente, è una persona che cerca di trasformare quello che c’è in qualcosa di migliore, o almeno ci prova, anche sacrificandosi e spesso non ascoltandosi. Ecco, io invece forse sono molto più in contatto con me stessa e baso la mia vita su quello, mentre penso che lei non abbia l’occasione di farlo fino in fondo.
“Call My Agent 2”. Come lo definiresti con una sola parola? E come definiresti il ruolo dell’agente con una sola parola?
Questa stagione è… exhilarating, come si dice in italiano? Su di giri, concitata!
Invece per l’agente, figura ambivalente, mi viene in mente la parola “custode”, che secondo me racchiude tante cose.
Parlando di “La Legge di Lidia Poët”, quello che colpisce è la differenza di pensiero tra la protagonista e il tuo personaggio, Teresa, che rappresenta molto di più le convenzioni sociali a cui una donna doveva sottostare nella Torino di fine ‘800. Come ti sei preparata per interpretare questo personaggio storico? Che tipo di ricerca hai svolto?
Come hai detto giustamente tu, Teresa in qualche modo è portatrice, dal punto di vista femminile, dei tempi in cui è ambientata la storia. Lei non è “cattiva” per forza, anche se nella dinamica con Lidia emerge quest’aspetto, dato che il punto di vista è quello di Lidia Poët e quindi ci affezioniamo al suo percorso. Tuttavia, Teresa rappresenta un’intera cultura, e infatti parte della mia ricerca è stata andarmi a guardare bene l’epoca. Io di base vengo dalle arti visive, ho una laurea in Arti visive dello spettacolo, e quindi mi è stato utile vedere tanti quadri, trovare ispirazione in quello che percepivo da delle immagini. Ho fatto alcune letture dell’epoca, studiato il periodo storico-industriale per capire come fosse la situazione, anche dal punto di vista religioso.
Teresa è uno dei pochi elementi che raccontano l’epoca in modo così chiaro, perché gli altri personaggi sono abbastanza liberali e anomali; già mio marito, interpretato da Pierluigi Pasino, è una figura particolare, anche lui portatore di una tradizione ma in modo diverso. Per me, la cosa fondamentale per costruire Teresa è stata quella di andare in opposizione a Lidia: le scene a tavola sono state fondamentali, per cui ho studiato le regole del galateo dell’epoca, quindi come stare seduti, eccetera. Il mio personaggio doveva essere colei che preservava la tradizione, e in questa seconda stagione abbiamo un’evoluzione di Teresa in questo senso, anche perché i tempi stanno cambiando, stiamo procedendo nel corso della storia italiana. Quindi, tutto è partito da una ricerca del contesto storico e l’analisi della dinamica reale con la persona con cui dovevo essere in contrasto.
Lidia, Teresa e Marianna incarnano tre generazioni di donne, tre modi di pensare, tre modi di vedere il mondo. Ad oggi, in base alla tua esperienza come donna e attrice, quanta strada ancora c’è da percorrere per ottenere quella libertà di espressione tanto cara a Lidia?
Saprai bene anche tu, essendo donna e parte di questo mondo, che viviamo in un contesto molto complesso oggi giorno, soprattutto per come si sta manifestando l’umanità. Secondo me c’è ancora della strada da fare, e la difficoltà di integrare completamente la libertà e rilasciarla sta in un meccanismo sistemico. Non so se sia corretto parlare solo di patriarcato, perché a livello sistemico noi donne siamo messe in una posizione tale per cui non ci è permesso essere completamente libere con noi stesse e anche all’interno della società. È da millenni che è così, quindi ci vorrà un po’. Per fortuna la direzione giusta l’abbiamo individuata, il materiale femminile c’è, e io ho fiducia nelle giovani donne che pian piano conosco, vedo che c’è una grandissima consapevolezza. La cosa molto interessante di questo periodo storico è la voglia di esprimersi e di essere liberi anche a prescindere dalla propria sessualità, la libertà di definirsi. È come se si stia cominciando a ricercare la libertà pura, verticale, quella che non solo è connessa al gender d’origine. Sotto molti aspetti, la libertà manca alle donne, ma anche a molti uomini in altre situazioni sociali, quindi secondo me bisogna stare molto attenti a non dimenticarci che ciò di cui abbiamo bisogno è “not only a better world for women, but a better world for humanity”. Ci sono ancora molte differenze sociali e di genere, e secondo me, se Lidia fosse ancora tra noi sarebbe molto attiva [ride] ma troverebbe molte più alleate in questo presente. Nel corso del XX secolo, la donna si è resa conto sempre di più che ha una voce, e questa realizzazione riverbera tra donne; la solidarietà femminile è un argomento di salotto, ultimamente, e a proposito io penso che ci sia qualcosa di intrinseco nel nostro essere donne che ci rende unite, se lo vogliamo fino in fondo.
Come una sorta di potere magico…
Esatto, infatti una volta ci chiamavano Streghe! [ride]
“Not only a better world for women, but a better world for humanity”
Cosa possiamo aspettarci da Teresa per la prossima stagione? Qual è la tua speranza per lei?
La mia speranza non è detto che sia in linea con quello che succede…
Teresa in questa stagione fa un viaggio personale, mettiamola così, raggiunge, in quanto donna, delle nuove consapevolezze che sono molto importanti.
Quando reciti, il lavoro che fai su te stessa e il personaggio può essere molto grande, magari entri proprio in contatto con parti di te stessa che non pensavi di avere. Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stessa grazie alla recitazione?
Non so se è proprio l’ultima, però una cosa che ho amato molto scoprire interpretando alcuni personaggi è la mia contraddittorietà. Il mio segno zodiacale è Vergine, infatti sono molto precisa, determinata, con un principio forte di giustizia, un’idea di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, sono molto idealista. Quindi, ho sempre pensato che una coerenza del vivere fosse una virtù e anche un modo di portarsi; ecco, non dico che la coerenza sia sbagliata, però ho sperimentato, grazie ai miei personaggi, l’incoerenza che c’è nella vita, che è anche quasi un legittimare l’imperfezione, un ripensamento, lasciare che la vita faccia il suo corso, che ti colpisca, che ti faccia cambiare idea. Questa è stata la consapevolezza più grande che ho sviluppato. In realtà, sotto sotto, io ero già contraddittoria, anche se magari non lo volevo ammettere, però il fatto di vederlo in un personaggio, di accettarlo, ha fatto la differenza.
Io sono molto più benevola con i personaggi che con me stessa, li difendo tanto, li comprendo anche nelle loro rotture, nelle loro difficoltà, e questa cosa del realizzare la contraddizione è stata una grande scoperta per me.
Sei più razionale o irrazionale quando prepari e dai vita ad un personaggio?
Sono un blend di queste due cose. Sono molto analitica, soprattutto quando approccio una sceneggiatura, e ho una visione un po’ registica. Sai, a Londra ho seguito un corso di sceneggiatura perché mi interessa molto la parte della scrittura, e poi, venendo dal teatro, avendo lavorato con dei maestri, ho imparato che la destrutturazione del copione è fondamentale, è come creare una mappa quasi matematica, che crea una struttura all’interno della quale tu ti puoi esprimere impulsivamente liberandoti. Io faccio due cose: nella sceneggiatura comincio a capire il movimento che fa il mio personaggio all’interno della storia, come interagisce con le persone, quali sono le sue battute, i dialoghi, gli eventi, marcati nello script come una mappa; dopodiché, mi butto e cerco di trovare un corpo che si muove all’interno di questa mappa attraverso un’idea che mi viene in mente da una suggestione, che può anche non c’entrare nulla, ma mi fa venire in mente una voce, un modo di parlare, un atteggiamento.
Inoltre, a me capita che molti personaggi che faccio è come se li vedessi prima: spesso disegno i miei personaggi prima di interpretarli, immaginando che aspetto avrebbe, e parte del mio lavoro diventa immedesimarmi in quello che avevo già visto nella mia testa. Insomma, cerco di copiare un’immagine che mi ero creata in testa… Sembra una follia [ride]. Però, riesco ad essere molto specifica, e mi diverte tantissimo creare i personaggi, mi ci perdo e mi ci butto dentro perché sono delle occasioni incredibili. Io ho sempre voluto fare mille cose, ho viaggiato tantissimo, anche se non ancora quanto vorrei, e ho sempre avuto questo desiderio di vivere tante vite in una, che risiede anche in questa voglia di esplorare, credo. Io osservo tantissimo le persone, guardo tantissimo il mondo esterno, le persone che trovo interessanti, i modi di parlare, tutto mi incuriosisce molto, ecco perché spesso prendo spunto dalle cose che vivo.
Il tuo must-have sul set?
Oltre al mio quaderno di appunti, ho un oggetto un po’ da nerd che si chiama bone prop, che ho preso a Londra quando ero a scuola: è una specie di dente che ti metti davanti a incisivi e denti inferiori e ti aiuta a fare esercizi di articolazione. Ogni tanto scaldo la voce col bone prop. Quello e la mia borraccia termica, devo averli sempre con me sul set.
Il tuo film guilty pleasure?
Forse uno dei film che ho visto una quantità imbarazzante di volte è “Il grande Lebowski”. Sono ossessionata dal quel film, penso di saperlo a memoria. Quando vivevo a Los Angeles, sono stata una volta in una sala concerto adibita a cinema, dove hanno fatto il The Lebowski Fest in cui tutti dovevamo vestirci come i personaggi del film. C’erano alcuni vestiti in accappatoio, io ovviamente da Maude, e in mille persone abbiamo guardato il film sapendo tutte le battute a memoria.
Qual è, invece, la tua più grande paura?
In questo momento storico, la mia mente è pervasa da quello che sta succedendo nel mondo. Sono molto preoccupata e ho paura che l’uomo smetta di essere umano, ho paura di perdere umanità. Purtroppo, è una cosa che percepisco a livello sociale, perché oggi c’è poca attenzione, poca cura, poca voglia di interessarsi agli altri, si sta diffondendo un individualismo malsano che allo stesso tempo è dipendente dall’accettazione sociale.
Nel mio piccolo, invece, per me una cosa importantissima in generale è amare, questa è la premessa, quindi vorrei essere sicura di amare bene, di dire frequentemente alla gente che fa parte della mia vita che gli voglio bene. Le cose possono cambiare davvero in modo così repentino, quindi non dovremmo dare nulla per scontato. Ecco, una delle mie paure è proprio dare le cose per scontato… Io non voglio dare per scontato nulla, il che secondo me rientra anche nel discorso sull’essere umani. La tua paura più grande invece qual è, in questo momento?
Ho paura che il tempo voli via o finisca bruscamente senza che io abbia fatto tutto quello che vorrei fare, tutto quello che c’è da fare…
Anche quello, bravissima. Poi, ultimamente le cose vanno a tremila all’ora, specialmente dopo quello che abbiamo vissuto con il Covid, e il cui impatto psicologico secondo me molti hanno sottovalutato. La salute mentale è fondamentale e penso sia importantissimo parlarne e capire che “it’s okay to not be okay”.
“Vorrei essere sicura di amare bene, di dire frequentemente alla gente che fa parte della mia vita che gli voglio bene”
Cosa significa per te sentirsi a proprio agio nella propria pelle?
Per me è un viaggio ancora in atto.
Molto spesso direi che ha a che fare con l’amor proprio, è un equilibrio, è quando chi sei, se ti conosci, ha un’aderenza rispetto alle tue azioni, a quello che stai vivendo, e a come il mondo ti risponde. È una cosa su cui io cerco di lavorare ogni giorno, per essere “true to myself”, onesta con me stessa, e trovare la mia onestà. Significa anche accettare quello che si è e lasciare che si manifesti e sbocci. Perché non è mai finita. Noi continueremo fino all’ultimo a cercarci, a trovarci, a trovare nuove forme da assumere, a scoprire cose nuove. Sentirsi a proprio agio nella propria pelle è una questione di armonia emotiva, mentale, fisica, perché il nostro corpo è molto importante, anche se lo sottovalutiamo molto, ma non dal punto di vista estetico, è nostro e dobbiamo prendercene cura e ascoltarlo. Il mio corpo è sempre stato più saggio di me, per esempio.
Qual è la tua isola felice?
In alcuni casi, non è un luogo ma sono delle persone, le persone a me care. Mi sembra di essere in un nido quando sono con loro. Anche la mia cagnolina è un’isola felice speciale per me.
Poi, sono fortunata perché ho un posto del cuore che è Venezia. È la mia città, ed è importante perché avendo sempre vissuto in giro tra California, Italia e Londra, per un momento ho pensato di dover vivere contemporaneamente ovunque per stare a casa. A Venezia ho fatto l’università, Arti visive e architettura, e negli anni ci sono sempre ritornata: è una città che mi rispecchia molto per il suo caratteristico stile di vita, per il fatto che si cammina, è tutto a misura d’uomo, sei in balìa delle maree. Da poco ho preso casa lì, è stato un investimento derivato da una domanda che mi sono posta: “Io, Sara, dove sto bene?”. La riposta è stata proprio Venezia, quindi ho fatto un investimento verso la mia persona.
Photos by Luca Ortolani.
Styling by Luca Pisciottano.
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Thanks to Amendola-Corallo Comunicazione.