Resistenza e rivoluzione.
Ani e Bianca.
Tiffany Vecchietti e Michela Monti.
Due concetti, due protagoniste, due autrici accomunate dalla lotta femminile e femminista che, dalle pagine di un romanzo dispotico come “Brucia la Notte” risuona nella nostra realtà, con il desiderio sempre più vivo di una comunità che si renda conto dell’importanza della condivisione, della libertà e della speranza. Attraverso le parole scritte nel romanzo e condivise in questa intervista, Tiffany e Michela ci ricordano (oggi più che mai) che l’affetto delle persone che amiamo, gli ideali di giustizia e sorellanza sono come scintille: si trasformano lentamente in fiamme che bruciano tutto, senza mai spegnersi davvero.
Vi conosciamo individualmente per il vostro lavoro, la narrativa social e altri contributi, ma quando e come è nata l’idea di scrivere questo libro insieme?
È iniziato tutto da un sogno, condiviso tra noi senza pensare a cosa avrebbe potuto creare, sul quale abbiamo continuato ad aggiungere dettagli. Ci abbiamo ragionato, è diventato un pensiero fisso, e la storia ha preso una forma sempre più concreta. Quando ci siamo guardate in faccia per chiederci se provare o meno a rendere quel sogno un libro, la risposta era già scontata.
Quanto di voi c’è nelle protagoniste, Ani e Bianca, o nelle altre donne che incontrano durante le vicende della storia? E al contrario, i personaggi sono riusciti a sorprendervi in qualche modo mentre li delineavate?
Chiaramente c’è tanto di noi in tutte le personagge che abbiamo scritto. Ani e Bianca sono due colonne portanti del racconto, sono opposte e complementari, con tratti che ci appartengono, atteggiamenti che riconosciamo come nostri, seppur esasperati. Ma ci tenevamo a non sovrapporre quello che siamo a loro, anche perché sarebbe stato un esercizio noioso e assolutamente egoriferito. Sapevamo quanto sia automatico prendere spunto da se stesse, però non volevamo limitarci, infatti abbiamo attinto a piene mani da chi ci circonda e da esperienze che non viviamo in prima persona proprio per andare oltre alla nostra limitatezza. La cosa che più ci interessava era non creare mai quell’aura di perfezione che non avrebbe avuto senso. Questo ci sarebbe dispiaciuto in ogni caso. E, riguardo alle sorprese, la nostra speranza è che tutte le diverse voci di “Brucia la Notte” stupiscano chi ci legge.
Per certi aspetti, trattandosi comunque di un romanzo dispotico e femminista, mi ha ricordato “The Handmaid’s Tale”, ma ho amato l’originalità nel scegliere di ambientare una storia simile nelle campagne romagnole: in che modo vi siete lasciate ispirare nel processo di scrittura, sia dalla narrativa contemporanea e folkloristica locale che non?
La distopia femminista (e femminile, ma anche queer) è una delle nostre cose preferite in assoluto. È vero che “Il racconto dell’ancella” è forse l’opera più famosa, e noi siamo indubbiamente legate ad essa perché Margaret Atwood è una voce incredibilmente potente, come lo sono state Ursula LeGuin, Octavia Butler, Alice Sheldon, Marge Piercy, Joanna Russ, Leonora Carrington, Angela Carter, Naomi Mitchinson, tra le voci recenti, impossibile non nominare Amal El-Mohtar, Malorie Blackman, NK Jemisin e la schiera di talentuosissime autrici italiane come Violetta Bellocchio, Elisa Emiliani, Lorenza Ghinelli, Laura Pugno e, soprattutto, una delle persone che più ammiriamo e che in qualche modo ha legato indissolubilmente le nostre strade, anche se inconsapevolmente, ovvero Nicoletta Vallorani.
La distopia ci offre uno strumento per parlare delle nostre inquietudini, del ‘qui ed ora’, proiettandole però in una distanza che riesce a renderle più universali. Mentre questo esercizio si è fatto molto spesso con ambientazioni inventate o in territori estranei, c’è una certa timidezza a ripensare ai luoghi dietro casa. Eppure è proprio in quei luoghi che impariamo ad amare e ad avere paura di tutto ciò che possiamo perdere, capendo quanto è fragile l’equilibrio che lega i nostri affetti a questi territori. Quando abbiamo iniziato a pensare alla storia di “Brucia La Notte”, è stato quasi inevitabile cercare in ciò che ci era familiare la fonte di quelle tensioni che non ci fanno chiudere occhio, che tutto il giorno ci inseguono come fantasmi. Così abbiamo ritrovato alcuni luoghi cari che hanno sempre rappresentato qualcosa di preciso, come Cervia e le sue Saline o Santarcangelo all’interno delle sue grotte. Per altri, invece, abbiamo cercato di stravolgere o ribaltare il significato storico e simbolico, come per Dozza e San Marino.
La voglia di bruciare tutto: come può la lotta per la libertà essere attualizzata nella realtà di oggi?
La lotta non passa mai di moda, né perde la sua necessità solo perché ci sentiamo più sconfitte, più sfiduciate e spesso non ne vediamo il senso. In queste settimane abbiamo vissuto un momento collettivo che ce lo ha ricordato, nato da un episodio tragico come quello del femminicidio di Giulia Cecchettin. In mezzo a una sofferenza inimmaginabile, la famiglia di Giulia non si è chiusa, ma ha fatto in modo che quel dolore non fosse una questione privata, che venisse socializzato, che attraversasse le vite di tutte le persone sconvolte dall’ennesima vittima, e ha scelto di dare un senso più grande a quell’orrore. È qualcosa che non si era mai visto in Italia negli ultimi vent’anni.
“Brucia la Notte” in fondo parla molto di quanto sia difficile la lotta, ma anche di quanto abbia senso esclusivamente nell’istante in cui diventa collettiva. È solo quando si abbandona l’io per diventare un noi che si può bruciare tutto. Una delle nostre personagge, in una scena fondamentale, dice ‘Anche se veniamo sconfitti, non deve passare un giorno senza un tentativo di rivoluzione’: la rivoluzione è quella scintilla che crediamo si possa accendere proprio quando si torna a condividere, a vivere qualcosa di comune, a non arrendersi quando ci sentiamo più sconfitte. Forse è proprio nei momenti più bui che bisogna ritrovare il caldo abbraccio della lotta.
“La distopia ci offre uno strumento per parlare delle nostre inquietudini, del ‘qui ed ora’, proiettandole però in una distanza che riesce a renderle più universali. Mentre questo esercizio si è fatto molto spesso con ambientazioni inventate o in territori estranei, c’è una certa timidezza a ripensare ai luoghi dietro casa. Eppure è proprio in quei luoghi che impariamo ad amare e ad avere paura di tutto ciò che possiamo perdere, capendo quanto è fragile l’equilibrio che lega i nostri affetti a questi territori”.
Che cos’è la resistenza per voi, in quanto donne ma soprattutto esseri umani?
La sorellanza, la cura, la comprensione verso le vite e le esperienze diverse dalle nostre, la volontà di non crollare davanti a una realtà logorante, il desiderio di cambiare le cose, di bruciare tutto. La Resistenza è l’unione di tutte queste cose, legate indissolubilmente alle nostre radici, perché non si può parlare di Romagna senza pensare alla Resistenza nella storia, senza ricordare le persone che hanno combattuto per la loro e la nostra libertà. La Resistenza è un atto di riconoscimento verso chi l’ha già praticata, ma soprattutto è la nostra salvezza.
Le protagoniste di questo libro sono un monito all’importanza sempre attuale del cambiamento, specialmente di fronte alle ingiustizie sociali: a livello personale invece, qual è stato il vostro più grande atto di ribellione?
In realtà, le nostre sono vite abbastanza noiose, senza atti eroici da riportare nei registri. Il vero grande atto di ribellione che mettiamo in atto ogni giorno è quello di non soccombere, non arrenderci e resistere in un mondo che si imbruttisce, che recide sempre di più i legami tra le persone e che risucchia ogni speranza di cambiamento. Se il mondo è un vampiro, noi cerchiamo di armarci di paletta e aglio e andare all’arrembaggio (fortunatamente, accompagnate da tante sorelle e tante persone che ci supportano).
Il vero atto di ribellione è stato forse quello di aprire gli occhi e iniziare a guardare il mondo attraverso una lente femminista.
Qual è l’ultima cosa che avete scoperto di voi stesse anche grazie alla scrittura e lettura?
Scrivere insieme ci ha insegnato ad affidarci completamente l’una all’altra. Può sembrare poco visto dall’esterno, ma questo senso di fiducia immenso non è nato con l’idea di “Brucia la notte”, si è cementato giorno dopo giorno, parola dopo parola, crisi dopo crisi nel corso di questi tre anni.
Qual è il libro sul vostro comodino in questo momento?
T: “Seidmadur. Lo sciamano” di Maddalena Marcarini.
M: “L’immortale”, di Catherynne M. Valente, e “Prima che chiudiate gli occhi”, di Morena Pedriali Errani.
Qual è la vostra isola felice?
A parte la Romagna, che è una risposta scontata, la nostra isola è un posto immaginario, pieno di gatti, libri e un sacco di dischi. Non manca sicuro un forno ultracentenario gestito da un’anziana che spaccia crescente ad ogni ora del giorno.
Il libro si chiude con un cliffhanger non da poco: potete già darci qualche informazione sul prossimo volume?
Lo stiamo ultimando, incastrandolo in ogni momento libero tra le presentazioni. Possiamo solo dirvi che sarà un po’ più corposo di “Brucia la Notte”, non abbiamo risparmiato colpi di scena e momenti molto intensi. E torneremo anche in un luogo già nominato nel primo libro, che però è in Emilia. Di più non possiamo svelare.
Photos by Tiffany Vecchietti
Thanks to Mondadori