Una storia di disconnessione, tanto moderna quanto universale, raccontata dal punto di vista di una donna che ha perso il contatto con sé stessa e con il mondo che la circonda: “Non è al momento raggiungibile” è uno scorcio di contemporaneità nato data da una penna fresca, quella di Valentina Farinaccio, pluripremiata scrittrice, giornalista e critico musicale.
Ho incontrato Valentina per parlare di questo suo ultimo romanzo, letto tutto d’un fiato, rapita da un racconto che sembrava parlare di me e con me e che, stilisticamente, raccoglieva tutto ciò che più amo degli autori che più amo. Da Sally Rooney e Donna Tartt, a Jane Austen e Ottessa Moshfegh, Valentina si lascia ispirare da chi sa raccontare la propria contemporaneità, entrando nelle vite dei lettori per farsi occasione di contatto con sé stessi.
Resta, la sua, una scrittura originale, scorrevole, in grado di raccontare temi essenziali come i disturbi alimentari, il tabù della psicoterapia, l’amicizia adulta e lo smarrimento emotivo, con una leggerezza che, al momento giusto, si fa spunto di riflessioni profonde.
Inizierei dal titolo: “Non è al momento raggiungibile” mi fa pensare alle voci registrate della segreteria telefonica, quelle che scattano quando non facciamo in tempo a rispondere, o quando non vogliamo rispondere. Per Vittoria, la protagonista del tuo romanzo, sarebbe il secondo caso. Stanca di essere disponibile sempre, lei ad un certo punto decide di staccare la spina, e il racconto ripercorre ciò che l’ha portata a questa scelta. Da dov’è nata l’idea di raccontare una storia di “disconnessione”, soprattutto in un momento storico in cui si pretende che tutti e tutto siano sempre raggiungibili, e noi vogliamo esserlo in primis?
La storia è nata da una mia esigenza molto personale e dettata da una profonda curiosità, quella di raccontare il mondo contemporaneo. Io volevo che Vittoria in qualche modo incarnasse quelle che sono le nevrosi contemporanee, le dipendenze contemporanee. In questo romanzo c’è tanto telefono, tanti social media, e il mio desiderio era che tutti questi atteggiamenti che abbiamo oggi rispetto alla connessione, le relazioni, e il rapporto nevrotico con il cibo componessero una vita molto vicina alla contemporaneità. Infatti, effettivamente, i gesti di Vittoria sono gesti che compiamo tutti, tutti i giorni, molto più spesso di quanto crediamo. Poi, lei, per un caso fortuito, si ritrova ad essere molto esposta per un certo periodo, ma in realtà questo deriva anche dal suo passato: lei è una che vuole fotografarsi, vuole sapere come la vedono gli altri, fino a quando poi questo la divora. E allora capisce che effettivamente è lei a non essere “al momento raggiungibile” da sé stessa.
Il titolo di lavoro di questo romanzo è stato, per molto tempo, proprio “La disconnessa”, ma poi questo titolo finale ha racchiuso perfettamente il senso della storia e, secondo me, con più calore. La “disconnessa”, comunque, è una persona che non solo stacca il cellulare perché non ne può più di perdersi, ma è anche una persona che non ha contatto con sé stessa da un certo momento della vita in poi, o che si smarrisce, e che magari, guardando il fuori, si perde il dentro.
“Disconnessione” è proprio una parola centrale in questa storia, che racconta di una disconnessione emotiva, dalla realtà, e anche dal passato, perché la protagonista, quando riesce a connettersi con il suo passato, capisce che è da lì che si può ricominciare.
Il racconto si snoda su salti temporali, tra una seduta di terapia nutrizionale e l’altra, uno stupendo espediente letterario, secondo me: Mina (la nutrizionista-psicoterapeuta) aiuta Vittoria a riorganizzare gli eventi che le hanno scombussolato la vita e la porta a capire tante cose su sé stessa, sul suo passato e le persone che la circondano. Come pensi che sarebbe andata, per Vittoria, se avesse saltato anche solo uno dei suoi appuntamenti con Mina?
Il punto di Vittoria è che a un certo punto scappa. Lei, finché c’è, c’è per davvero, ma poi, a un certo punto, ha bisogno di farsi lo sgambetto, cosa che in questo romanzo fa continuamente. Da qui, l’aria tragicomica della storia, perché la protagonista, ogni volta che è a un passo dal diventare grande, dal realizzarsi, si deve auto-demolire, pensando: “Tanto io questa cosa non me la merito”, “Tanto io questa cosa non la so fare”. Anche questa è una cifra dei tempi che viviamo, che sono così faticosi per quanto riguarda l’affermazione di noi, che poi arriva anche il momento in cui senti di non meritarti i riconoscimenti, perché se sei abituato al fatto che nessuno ti dà spazio, il tuo primo pensiero è: “Ma forse io non me lo merito questo spazio, perché nessuno me lo dà?”. Allora, poi, quando ti piovono dal cielo dei follower, per una coincidenza non prevista, capita che tu ti senta un po’ impostore. Inoltre, come succede spesso nella vita, quando ti trovi a fare una cosa un po’ improvvisando, c’è sempre la possibilità che questa cosa fallisca.
Vittoria, finché fa i suoi incontri con Mina, ci mette tutta sé stessa, anche perché lei sente che ha bisogno di parlare con qualcuno e trovare la sua strada. Però… E mi fermo qui… [ride].
Quanto pensi sia importante la psicoterapia?
Guarda, io penso che si tratti di una questione che ci riguarda ormai tutti, intimamente. Credo molto nella psicoterapia, credo che sia un aiuto fondamentale nelle nostre vite. La psicoterapia ti dà un sostegno, ti guida, ti cura, è un rifugio per chi sente di non reggere. Io stessa sono in terapia da anni, quindi ci credo molto, però penso anche che, di questi tempi, per molte persone rappresenti un rifugio anche nel senso che non si sa con chi parlare, oppure si ha il timore di parlare con le persone che ci conoscono da vicino, e allora si va da chi non ci conosce, perché ci si sente liberi di dire chi siamo veramente, chi abbiamo paura di non essere e di non diventare, dove abbiamo sbagliato, dove ci sentiamo imperfetti, dove ci sentiamo falliti. Queste sono cose difficili da dire a un genitore, a un amico, a un’amica, per paura di fare male e di farsi male, perché specchiarsi in una persona che ci vuole bene è terribile. Invece, bene o male, avendo davanti un professionista o una professionista, quella cosa sembra un po’ più semplice, e soprattutto non si teme il giudizio. Dalle persone care, invece, si teme sempre quella punta di giudizio che ci può ferire.
“Tutto è fatto di numeri”, dice Vittoria. Lo penso anche io, però a me, per esempio, i numeri non piacciono, dai numeri tendo a fuggire perché mi spaventano. Vittoria, invece, è ossessionata dal contare e dal quantificare, perché è evidentemente attratta da ciò che la spaventa e la fa stare male. Da dov’è nato questo personaggio così complesso e duro con sé stesso?
È nato da un lavoro di grande ricerca di una voce, della storia. Ho lavorato tantissimo a questo libro e, soprattutto, alla voce di Vittoria. Volevo che fosse un personaggio dolente, attuale, un personaggio, a volte, involontariamente comico, perché il dolore spesso ci tira fuori degli aspetti di goffaggine, o delle reazioni che viste dal di fuori possono far sorridere.
Quello dei numeri è un concetto che mi assilla molto nella vita, ovvero il fatto che noi ci rapportiamo sempre con i numeri, quelli di cui siamo fatti, che misurano e pesano il nostro corpo, i voti a scuola, i numeri sul lavoro, i prezzi da pagare quando si compra qualcosa, il numero di soldi che si deve guadagnare per poter comprare qualcosa. Insomma, noi siamo in gran parte fatti di numeri, e Vittoria è ossessionata dai numeri perché non sa contare, e non in senso scolastico, ma nel senso che non riesce a programmare, non riesce a organizzare la sua vita, e anche questo è il motivo della sua disperazione, perché non ha mai una progettualità adulta. Quindi, quando ha i soldi, li spende, quando non li ha, non li può spendere più, e questo non è un modo adulto di vivere il rapporto con i numeri. Stessa cosa per quanto riguarda il suo corpo: a un certo punto, diventa ossessionata dai numeri che le hanno detto che il suo corpo deve incarnare, e anche quello è profondamente ingiusto.
Infatti, tra i temi del romanzo rientra quello del rapporto con il cibo, con il corpo, con l’immagine: argomenti molto attuali e discussi. Qual è il contributo che vuoi dare tu, con il tuo romanzo, a questo dialogo? Cosa vuoi comunicare raccontando la storia di Vittoria?
Vorrei che le persone che si ritrovano a leggere questo mio romanzo si riconoscano in cose che sembrano sempre di altri, e invece poi ci appartengono. Talvolta, si fa fatica a raccontare il disturbo alimentare, è una cosa ancora tabù, ma invece è diffusissimo, e in alcuni casi anche facilmente risolvibile, sempre seguendo delle cure e verbalizzando il fatto che quel tipo di disturbo esiste.
Le cose bisogna dirle, per farle esistere.
Quindi, questo romanzo porta con sé dei temi quali, appunto, la precarietà di questa generazione che gira intorno ai 40enni, il rapporto con il corpo molto vincolato dai social, perché ormai noi non siamo solo come ci vediamo allo specchio, ma anche come ci guardiamo nello schermo del cellulare, dunque gli specchi nella nostra vita sono aumentati, sono sempre intorno a noi: vorrei che la persona che si vede in una foto e si trova orribile in quella foto capisse che capita a tutti di guardarsi in una foto e trovarsi orribili, che tutti cancelliamo una foto dopo averla postata perché ci sembra all’improvviso che si veda una ruga che non avevamo notato, tutti ci sentiamo inadeguati, talvolta. Mi piacerebbe, per usare una parola tanto cara a quel mondo lì, che la condivisione di questa storia ci facesse sentire un po’ più leggeri.
La protagonista scambia la fame di cibo con la fame d’affetto e approvazione, e così riempie i vuoti interiori con qualsiasi mezzo (cibo, sesso, like su Instagram e Facebook), per “non essere meno di zero”. Capita anche a te di sentirti “meno di zero”? E come rimedi?
Certo. Concita De Gregorio ha scritto una cosa molto bella quando è uscito questo romanzo, e gliene sono molto grata, ovvero che, in fondo, non è importante sapere quanto c’è di autobiografico in una storia, ma è importante sapere che la scrittura passa sempre dal corpo dello scrittore. Dunque, chiaramente, ci sono delle parti di Vittoria che mi riguardano da vicino, come il senso di non essere all’altezza e di doversi cancellare perché non si è venuti bene, che è qualcosa che noi facciamo col telefono, ma che sarebbe bello poter fare anche nella vita, della serie “questa scena non mi è venuta bene, la cancello e adesso la rifaccio” … Ecco, secondo me arriveremo anche a quello, ma speriamo di no [ride]. Però, stiamo sempre più diventando quelli che, prima di pubblicare una foto buona, ne scattano 65 identiche che però non ci sembrano buone come quella che poi pubblichiamo. Io tante volte mi sento da cancellare e da rifare, ma a volte anche quello è uno stimolo per fare meglio. Quindi, ci sono delle nevrosi di Vittoria che, se non sono proprio mie, ho comunque guardato da molto vicino.
“Non è importante sapere quanto c’è di autobiografico in una storia, ma è importante sapere che la scrittura passa sempre dal corpo dello scrittore”.
Il romanzo si sofferma un po’ anche sul pericolo dei social media e dell’influencer marketing, tra le sue false sicurezze e intenzioni e il valore effimero del guadagno che promette in termini umani: in poche parole, sui social ci sentiamo amati e amici di tutti, nella vita vera, spesso rimaniamo delusi. Pensi che a Vittoria sia andata male con i social semplicemente perché non ha saputo usarli nel modo giusto? E qual è il modo giusto di usarli secondo te?
Ci tengo a sottolineare che questo romanzo non vuole demonizzare questo tipo di rapporto con i social, anzi, vuole proprio raccontare il fatto che per fare ad un certo livello un lavoro con i social media come quello di Vittoria, ovvero l’influencer (di cibo sostanzialmente), ci vuole una grande solidità, bisogna farlo con competenza, grinta, con una stabilità emotiva che viene richiesta a chi entra in quel mondo ad un livello abbastanza alto come quello che si racconta nel romanzo. Chiaramente, se non hai quella solidità, il rischio di crollare è a portata di mano, perché inevitabilmente è un mestiere che ti espone tantissimo, alla gloria ma anche all’odio della gente, e il passo falso lo paghi stando da solo a leggere quello che le persone ti scrivono.
E tra mille commenti positivi, l’unico che vedi è quello negativo…
Esatto, tra duemila “che bello”, “che brava”, “che buon contenuto”, tu vai a vedere quello in cui ti dicono che sei venuta male nella foto.
Quindi, per quel lavoro, ci vuole una grandissima capacità, e chi lo riesce a fare – e ce ne sono tantissimi di ragazzi e ragazze che hanno avviato delle piccole imprese personali a livelli alti e ottimi, qualitativamente parlando – per me merita un doppio plauso, perché significa che sono anche temprati, forti. Invece, Vittoria non lo è, perché lei improvvisa, e ritorna sempre nel passato, a quello che nel passato le è mancato. E quello che ci manca quando siamo piccoli ci mancherà per sempre.
Ho particolarmente apprezzato la struttura del romanzo, i capitoli brevissimi, che rendono il racconto più diretto, chiaro e scorrevole: a tratti mi sembrava di sentire i personaggi parlare come fossero davanti a me, le vicende accadere davanti ai miei occhi. Ho notato, poi, che hai scritto i dialoghi senza punteggiatura (virgolette), proprio come fa Sally Rooney: è una scelta casuale o ponderata? Chi sono i tuoi punti di riferimento nella letteratura?
Guarda, hai beccato proprio un autore fondamentale! [ride] “Persone Normali” è meraviglioso in questo, è uno dei romanzi che mi hanno segnata in questi ultimi anni. “Non è al momento raggiungibile” l’ho scritto proprio in questi ultimi tre anni e ci sono stati due romanzi in particolare che lo hanno incrociato e che sono stati pilastri, ma anche fonte di meraviglia, perché appartengono a due autrici giovani e, secondo me, incredibilmente forti per quanto riguarda la voce, lo stile, la scrittura: Sally Rooney e, in particolare, il suo “Persone Normali”, e Ottessa Moshfegh con “Il mio anno di riposo e oblio”. Quest’ultimo, infatti, l’ho messo in esergo, è un romanzo che viene ambientato in un presente che è un po’ più passato, perché è molto attuale ma indietro nel tempo: l’atmosfera creata da quel romanzo mi ha molto colpito, mi è entrata dentro. Sono felice di aver incontrato quelle due letture proprio mentre scrivevo il mio romanzo, sono state due letture nutrienti.
Per quanto riguarda le virgolette, sì, l’influenza c’è stata, ma devo dire che ormai è una cosa molto diffusa, si trovano sempre più spesso dialoghi liberi, e io sono una fan di questa modalità, perché facilita la fluidità della lettura, una volta che ti ci abitui, scorre tutto in maniera molto più naturale per il lettore. Infatti, io ho sempre la sensazione che, leggendo, quando metti i due punti e virgolette, rappresenti una pausa, mentre quando noi parliamo, di solito ci incrociamo, ci sovrapponiamo, e la rappresentazione del dialogo senza virgolette mi dà un senso di fluidità molto bello.
Una delle frasi del romanzo che ho appuntato sul quadernetto delle mie citazioni preferite è: “Mai niente di quello che facciamo riguarda noi soltanto”. Cosa vorresti fare, tu, per gli altri, con la tua scrittura?
Vorrei che fosse un momento importante per loro, che l’urgenza con cui ho scritto un libro – perché questo libro io l’ho scritto veramente con tanta urgenza, e secondo me i libri devono arrivare da quello – si trasformasse in un momento importante per il lettore, un momento di riflessione, di divertimento, di contatto con sé stessi.
Vorrei che la mia scrittura avesse un piccolo peso nella vita del lettore.
Mi piacerebbe entrare in contatto con chi mi legge. Poi, non credo che nella vita bisogna dare consigli e lezioni scrivendo: si scrive quello che per lo scrittore è urgente dire, e quando una cosa è urgente e autentica, sono certa che il lettore saprà farne un buon uso in qualche modo.
La musica è un altro tema importante della storia: la protagonista “consuma le canzoni che le tagliano la gola e lo stomaco”. Tu che musica “consumi”?
Io ne ho consumata tantissima di musica. Consumo tanta musica italiana: ho cominciato con i cantautori, sono una fan dei due Lucio, Lucio Dalla e Lucio Battisti; lì sono campionessa mondiale, perché per me loro due, in modo completamente diverso l’uno dall’altro, dato che per Battisti c’è la componente Mogol, che per me è un grandissimo genio a livello di composizione di testi, sono il centro di tutto. Sono anche molto attenta a quello che succede nel presente: mi piacciono molto alcuni cantautori che stanno fiorendo in questi ultimi anni, come Giovanni Truppi e Calcutta, secondo me sono molto bravi anche a scrivere. Poi, sono una beatlesiana incallita.
La musica io la uso come il cibo, quello sano, che nutre, non quello che ti riempie e basta. Infatti, nel romanzo ce n’è tanta, e Vittoria si accorge di star perdendo il contatto con la sua vita vera nel momento in cui non riesce più ad ascoltare una canzone dall’inizio alla fine, ad essere concentrata su un testo dall’inizio alla fine. Per me, quella è una specie di piccola religione: quando, su Spotify, parte “Anna e Marco” e mi accorgo che alla seconda strofa mi sono distratta, io la faccio ripartire, perché devo arrivare alla fine senza mollare mai la canzone; poi, quando è finita, torno alle mie cose.
Ho amato l’impostazione del rapporto tra Vittoria e Serena, amiche di infanzia che però non hanno più niente da dirsi e congelano il bene che si vogliono. Perché Vittoria si sente lontana da Serena, ma Serena non la vive allo stesso modo? Perché spesso gli amici si allontanano con distanze diverse?
Bella questa domanda… Non che le altre non lo fossero, però a queste pagine ci tengo particolarmente, perché volevo proprio raccontare l’amicizia adulta, quella che arriva dal passato. Succede che le vite cambino e che vadano in direzioni strane, quindi alcuni fanno delle scelte di vita che si distanziano un pochino da com’erano dieci anni fa, e altri vanno lontanissimi, a volte anche solo emotivamente, affrontando delle questioni nella propria vita e poi, quando tornano a contatto con le persone che c’erano prima, sentono di averle sorpassate e non riescono più ad essere in simmetria con loro.
L’amicizia adulta, secondo me, è un grande esercizio di disonestà, perché, per il bene che ci si vuole, bisogna continuare a cenare insieme ogni tanto, prendere un caffè insieme, rendendosi conto che non ci si sceglierebbe mai oggi. Vittoria e Serena, se si incontrassero oggi, non diventerebbero mai amiche, però sono diventate amiche 20 anni prima, quindi resteranno amiche per sempre, però con molte cose in meno da dirsi e da condividere.
È una forma di amore che non finisce mai.
Le storie che racconti, di solito, sono interamente fittizie, o ti lasci ispirare da vicende personali o personalmente conosciute?
Io non credo nella storia interamente fittizia. Credo che gli scrittori e le scrittrici si facciano in qualche modo ispirare con gran facilità da quello che hanno vissuto, dalle persone che incontrano, da quelle che hanno osservato. Si scrive di quello che si conosce molto bene, anche se non è la nostra vita, però comunque ci dev’essere una prossimità, altrimenti esiste una distanza che può diventare freddezza. Io credo che tutte le storie, quando passano da uno scrittore, lo “contengano”, anche se racconta fatti che non sono la sua vita.
Hai sempre voluto fare la scrittrice?
Sì, dalle scuole medie in poi. Alle medie, io non ero brava in matematica, e la mia compagna di banco non era brava in italiano, quindi quando c’era il compito in classe di matematica, lei lo faceva per tutt’e due, mentre quando dovevamo fare il tema di italiano, lo facevo io per tutt’e due, ne consegnavo due: la gioia che mi provocava il fatto di dover scrivere due temi invece che uno, di dover scrivere bene e prendere il massimo dei voti, la felicità che mi dava anche dovendo scegliere due tracce diverse e, quindi, mettermi alla prova con due cose completamente diverse, mi ha fatto pensare che, effettivamente, quella cosa per me fosse fonte di gioia. Quindi, da lì, ho cominciato a scrivere sempre, e iniziato a immaginare che potesse diventare anche un lavoro.
Invece, prima delle scuole medie, volevo fare la cantante e la ballerina [ride]. È andata bene così direi.
Qual è un libro che hai già letto e vorresti cancellarti la memoria per poterlo rileggere come fosse la prima volta?
Ce ne sono tantissimi! Ma ti direi: “L’isola di Arturo” di Elsa Morante, “Un amore” di Buzzati, “La noia” di Moravia, “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, “Cime tempestose” di Emily Brontë, “Dio di illusioni” di Donna Tartt.
Che libro stai leggendo attualmente?
“Divorzio di velluto” di Jana Karšaiová. Poi, ho appena finito “Niente di vero” di Veronica Raimo. In realtà, rileggo anche molto, ora per esempio sto rileggendo “L’isola di Arturo” in contemporanea a “Divorzio di velluto”.
Che libro comprerai (o hai già comprato) al Salone del Libro di Torino?
Ma io li comprerei tutti! Ne comprerò tantissimi, mi porto sempre le sacche così poi torno a casa carica.
Quale storia non ancora raccontata sogni di raccontare tu?
Nel momento in cui c’è il sogno di raccontare una storia, io ci provo a raccontarla, quindi, evidentemente, ora non si è ancora materializzata nessuna idea. Sono felice che si possa cominciare a mettere in letteratura anche la contemporaneità senza aver paura di adoperare alcune parole, senza aver paura che la parola “postare” non vada bene in narrativa perché magari può abbassare il livello. Sono felice che adesso, piano piano, si cominci anche a scrivere la contemporaneità con le parole della contemporaneità. È una cosa che ho provato a fare col mio romanzo perché mi stava molto a cuore, e adesso vediamo cosa succederà.