C’è una strada che sembra proseguire all’infinito.
C’è un paesaggio fatto di nulla.
E seguendo quella strada che porta chissà dove di preciso, troviamo Mark che cammina, con il suo amore per la poesia, per l’amore stesso e per la libertà, quel tipo di libertà che ti permette di essere chi sei veramente, in tutta la tua complessità.
A interpretare il personaggio di Mark in “Land of Dreams” è William Moseley, che sembra aver percorso a sua volta quella strada, per ritrovare se stesso e per realizzare che tutti noi siamo speciali a modo nostro. Ci siamo seduti con William per parlare del suo approccio alla sceneggiatura, e di come questa sia impenitente nel mostrare come il mondo potrebbe potenzialmente essere in futuro, dell’ultima verità onesta che ha scoperto su se stesso e del suo desiderio di continuare a fare film artistici, oltre a quelli divertenti.
Senza dimenticare mai una buona bustina di tè da portare sempre con sé lungo quel viaggio attraverso il cinema, la poesia, le paure e i sogni: in altre parole, attraverso la vita.
Qual è stata la tua prima reazione quando hai letto la sceneggiatura, e la prima domanda che hai rivolto alla regista?
Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, mi è subito piaciuta molto la sua piega politica, il modo in cui il film fosse una riflessione su varie questioni politiche, sull’immigrazione, sulle differenze socio-economiche tra la gente, sul controllo delle vite e dei sogni delle persone, tutti argomenti diversi tra loro e in cui credo personalmente. Il mondo sta diventato un posto senza regole, basti pensare ai nostri social media sregolati in cui la gente si inventa di tutto e tutti possono vedere la tua vita e farne quello che vogliono. Prendi noi due, per esempio, che stiamo avendo questa conversazione in questo momento: se ci mettiamo a parlare di vestiti blu, secondo me il mio telefono inizierà a mostrarmi immagini di vestiti blu e suggerirmi dove comprarli, e anche il tuo! [ride] È assurdo, sembra che i nostri cellulari ascoltino davvero le nostre conversazioni, e quindi, fra 30 anni, se vivremo ancora in un mondo senza regole, chissà che non arrivino a manipolare anche i nostri sogni e a controllarli e a soffocarli, perché sono l’unica libertà che abbiamo: abbiamo la libertà di sognare, di essere chiunque vogliamo, di credere in quello che vogliamo. Mi è piaciuto come il film affrontasse in maniera impertinente il tema della direzione che il mondo potrebbe prendere.
E ora di sicuro mi arriveranno un sacco di pubblicità di vestiti blu… ma va bene così!
In che modo ti sei immedesimato nei panni di Mark e qual è stata la sfida più grande che hai dovuto affrontare? Come l’hai superata?
Che bella domanda! Interpreto un personaggio piuttosto complesso e, all’inizio, immagino che a chiunque verrebbe spontaneo pensare, “Questo tipo è strano”, ma ciò che mi piace di Mark è che si scosti dai parametri che vengono imposti alle persone, parametri che esistono ma che noi non sappiamo che esistono, eppure ci inibiscono comunque, ci trattengono. Mark non è perfetto, ha molti problemi in un certo senso, è così liberale che quasi nasconde un lato oscuro, un anti-mondo che non è nemmeno un granché, è un personaggio sfaccettato. Io sono cresciuto in un paese hippie, pieno di artisti e musicisti, in qui facevano sempre cose interessanti: sapevo che a quella gente Mark sarebbe piaciuto, che erano persone vere e che lui era una persona vera, quindi ho pensato proprio a queste persone con cui sono cresciuto, e mi sono collegato mentalmente a loro per interpretare il personaggio nella maniera più credibile.
“Abbiamo la libertà di sognare, di essere chiunque vogliamo, di credere in quello che vogliamo. Mi è piaciuto come il film affrontasse in maniera impertinente il tema della direzione che il mondo potrebbe prendere”.
È una cosa stupenda che tu abbia vissuto un’esperienza da cui trarre ispirazione.
Come hai lavorato con Matt Dillon, invece, sulle dinamiche tra i vostri personaggi?
Alan e Mark sono due persone completamente diverse: il primo è la rappresentazione iper-mascolina dell’America, mentre Mark, secondo me, è più una specie di americano stile “Bob Dylan”, un poeta, un femminista, fanatico del romanticismo dello spirito umano, mentre Alan è uno che ne ha viste di tutti i colori, molto cinico a proposito della società, e non ha tutti i torti. Per quanto riguarda il lavoro con Matt, ho visto i suoi film e so che Matt è un americano doc, un attore di talento e una persona molto forte, e sapevo che se avesse interpretato il suo personaggio mettendo da parte il suo lato artistico – cosa che ha fatto, perché è un artista molto sensibile –, se si fosse liberato di quel lato di sé per far trionfare solo il suo lato “forte”, allora sarebbe stato perfetto, perché io avrei potuto trasformarmi in un tipo alla “Bob Dylan” e i nostri personaggi si sarebbero ben scontrati.
Il film affronta anche il tema del conoscere sé stessi, le proprie origini, la propria destinazione, e parla anche dell’essere parte della società e di come, a volte, fingiamo di essere chi non siamo per entrarne a far parte. Quest’aspetto della storia ha influenzato il tuo approccio al personaggio? Hai mai avuto quel tipo di sensazione, quel bisogno di fingere e di adeguarti alle regole della società per riuscire a sentirti parte di essa?
Sì, l’ho pensato per molto tempo. Ho vissuto a Los Angeles per 10 anni e mi sono spesso sentito fuori posto, un intruso, ed è dura quando sei giovane, perché non sei maturo abbastanza da capire che non c’è niente che non vada in te, e che non devi per forza pensare una cosa solo perché la pensano gli altri. Ho sofferto per questo, pensavo cose del tipo: “Magari, se fossi più così…” o “Dovrei essere più così, sarebbe meglio anche per la mia carriera”, “È cosi che dovrebbe essere un attore, è così che dovrei essere anche io”. Poi, quando cresci, cominci a renderti conto che la tua personalità, il modo in cui ragioni, sono validi tanto quanto quelli degli altri, e che devi valorizzarti. Alla fine me ne sono andato da Los Angeles e sono tornato nella campagna in cui sono cresciuto: volevo essere me stesso e nessun’altro se non chi sono davvero. Sono felice di essere quella persona adesso.
“Ho vissuto a Los Angeles per 10 anni e mi sono spesso sentito fuori posto, un intruso, ed è dura quando sei giovane, perché non sei maturo abbastanza da capire che non c’è niente che non vada in te, e che non devi per forza pensare una cosa solo perché la pensano gli altri”.
Hai ritrovato te stesso e questo è ciò che conta di più, secondo me.
Hai scoperto qualcosa di nuovo su te stesso durante quest’esperienza?
Sì. Ho scoperto una grande verità, ad essere sincero. Un tempo, pensavo una cosa che pensano tutti, e fa un po’ ridere, perché è un concetto antiquato, ma io lo pensavo davvero, ovvero, che se avessi avuto tanti soldi sarei stato felice. So che è assurdo, ma pensavo davvero quel genere di cose e poi, quando i soldi sono arrivati, ho pensato: “Beh, però non sono felice!” [ride] È un po’ la morale della favola, i soldi possono aiutarti nella vita, possono farti condividere belle esperienze con la tua famiglia, ma non possono essere il tuo unico obiettivo, dovremmo concentrarci su cosa arricchisce la nostra anima e non il nostro conto in banca! [ride] Ora l’ho imparato, il che non significa che non voglio avere soldi, ne ho bisogno per vivere ovviamente, ma lo vedo in maniera diversa adesso.
Ad un certo punto del film, tu e Sheila dite che “i sogni sono solo storie”. Che genere di storie sogni di raccontare o di far parte?
Sai, durante un periodo di transizione della mia vita, ho desiderato fare qualcosa di artistico, non avevo mai fatto niente di artistico. Quando ho sentito Shirin [Neshat] al telefono, e ho visto il suo lavoro, la sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, e ho saputo che Matt Dillon avrebbe fatto parte del progetto, e per me erano tutti artisti di rispetto che adoravo, ho subito desiderato far parte del film più di ogni altra cosa; ho lavorato sodo, e poi Shirin mi ha fatto entrare in squadra.
Così, ho fatto un film artistico, l’ho visto l’altra sera e ho pensato: “Devo essere fiero di questo film, è un progetto in cui credo, che mi rappresenta, che rappresenta la mia anima, la mia sensibilità”. Voglio continuare a recitare in film artistici, quindi continuerò a fare bei film. La prima volta che ho visto “I diari della motocicletta” con Gael García Bernal, l’ho adorato, ho adorato il messaggio che sottintende, la sua dinamica, e ho visto anche i film di Sorrentino, di Almodóvar, di Alfonso Cuarón. Questo non significa che voglia fare solo film d’arte, voglio fare anche film leggeri, ma quei film puoi guardarli un milione di volte e scovarci sempre qualcosa di nuovo, amo fare film di quel genere. Ecco qual è il mio obiettivo, continuare a fare film artistici, insieme a film più leggeri.
“Ecco qual è il mio obiettivo, continuare a fare film artistici, insieme a film più leggeri.”
Il film affronta anche il tema della libertà, in maniera molto profonda. Cos’è per te la libertà, anche dal punto di vista lavorativo?
La libertà è una cosa bizzarra, perché anche la persona più libera del mondo potrebbe comunque essere imprigionato nella propria testa. Essere liberi implica concedersi la libertà, non è così? Se sei libero, ti sei dato il permesso di esserlo, di vivere la tua stessa libertà. Per me, ciò corrisponde a fare del mio meglio per tenermi alla larga dalle persone tossiche, dalla gente che ti mette pressione e che cerca di opprimerti. Chiunque si senta oppresso, o represso, o abbattuto da qualcuno, dovrebbe imporsi e dire, “Non ho più intenzione di subire tutto questo” e andarsene. Se qualcuno vi opprime, vi butta giù, distrugge i vostri sogni, o cose del genere, soprattutto se siete adolescenti e non riuscite a uscire da una certa situazione, ma i vostri genitori sanno che ce la farete ad un certo punto e sarete liberi: c’è un mondo là fuori che vi aspetta, l’universo vi aiuterà e potrete avrete successo, circondarvi di brave persone, ed essere voi stessi, seguire la vostra verità.
Il tuo personaggio scrive poesie: tu ne hai una preferita?
Sì! È buffo, perché nel film recito questa poesia: “Se saprai mantenere la calma quando tutti intorno a te / la perdono, e te ne fanno colpa. / Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano, / tenendo però considerazione anche del loro dubbio”, ma è stata una mia idea recitarla, non era in copione, ero io che ho iniziato a recitare quei versi mentre camminavo. Ho pensato, “Magari potrei dire una bella poesia”, ma poi mi sono detto, “E se recitassi una poesia che mi piace?”. Ed è stato quello che ho fatto nel film, è una delle mie poesie preferite, la adoro, quindi ho recitato quella.
“C’è un mondo là fuori che vi aspetta, l’universo vi aiuterà, e potrete avrete successo, circondarvi di brave persone, ed essere voi stessi, seguire la vostra verità“.
Di cosa hai paura?
Le mie paure sono cambiate molto, il che è un bene. Prima di arrivare qui soprattutto, e di vedere questo film, avevo paura di aver fatto qualcosa di cui non mi sarei sentito fiero. Ho recitato in “Narnia” da piccolo, e ne vado fiero, poi in una serie tv di cui vado fiero, ma dopo quei progetti, non avevo ancora fatto qualcosa che mi piacesse davvero; quest’ultimo progetto è stupendo, quindi, dopo questo film, quella paura è svanita. Ora ho fatto qualcosa di cui vado davvero fiero. Non ho idea di quali saranno le mie prossime paure [ride].
Beh, anche quella è una paura, paura di non sapere quali saranno le prossime paure!
Esatto, hai ragione! [ride] Sai, crescendo diventi anche più forte, e inizi a renderti conto che siamo tutti dei semplici esseri umani che abitano la Terra, siamo solo animali, e non c’è niente di cui preoccuparsi, niente di cui aver paura, dobbiamo goderci ogni momento.
Qual è il tuo must-have sul set?
Non credo di averne… A volte, ascolto della musica, ma la maggior parte del tempo lo passo a rilassarmi, magari leggo un libro, o chiacchiero con qualcuno. In effetti, sai cosa, il mio must-have è il mio tè! Me lo porto dietro letteralmente ovunque, è un po’ triste, ma a volte lo porto con me anche quando vado al ristorante, perché so che il tè che avranno lì sarà orribile, di solito quando ne chiedo una tazza mi portano sempre il tè più orrendo in circolazione, mentre gli altri invece bevono un caffè delizioso, ma io non bevo caffè, quindi metto la mia bustina di tè nella tazza e bevo il mio tè. Anche qui in Italia, alloggio in un hotel di lusso, ma hanno un tè orribile, quindi in tazza ci metto le mie bustine [ride].
Ultima domanda: ricordi qual è l’ultimo sogno che hai fatto?
Il sogno più recente che ho fatto è strano, proprio come il film. Ho sognato di trovarmi a casa di mia nonna, seduto a guardare la tv o a scrivere, e poi compare mia madre, entra dentro dalla porta della cucina, portando con sé una grossa valigia grigia; la mia mamma è molto minuta, e nel sogno aveva la mascherina, e faceva fatica a trasportare questa grossa valigia. Lei colleziona valige, ne ha 70, e la valigia del sogno sembrava proprio quella del film, quella vecchia valigia che si vede nel film. Nel sogno pensavo: “Ma perché è sempre così stressata?”. Mia madre era alla premiere l’altra sera, quando ho raccontato di questo sogno, quindi poi, quando sono andato da lei, mi ha detto: “Forse il fatto che mi vedi in ansia ti mette ansia”, e io le ho detto, “Già! Vorrei che ti calmassi!” [ride] e lei mi ha risposto, “Okay, cambierò”. Quindi, il mio sogno su di lei di sicuro le cambierà la vita.
“Mi porto dietro il tè letteralmente ovunque.”
Photos by Johnny Carrano.