Scrivere è un atto di scoperta continua, un cammino che parte dal caos del mondo per trovare un ordine nascosto nelle storie che vogliono emergere. Per Yari Selvetella, autore di “La mezz’ora della verità”, tutto comincia camminando: è nel rumore della città, tra le voci che si sovrappongono e poi svaniscono, che prende forma l’idea di un romanzo corale, dove ogni personaggio aggiunge un tassello a un racconto collettivo fatto di amore, fragilità e ricerca di senso.
In questa intervista, l’autore ci accompagna dietro le quinte del processo creativo, raccontando come nascono i personaggi e come la città, mai nominata ma inconfondibile, diventi un’entità viva, specchio delle contraddizioni umane. Si parla di tecnologia e delle sue promesse infrante, del narratore inaffidabile che riflette il nostro rapporto complicato con la verità, ma anche dell’importanza di perdonare sé stessi e gli altri per le proprie debolezze. “La mezz’ora della verità” è un romanzo che invita il lettore a perdersi nei labirinti della coscienza, a interrogarsi sulle proprie convinzioni e a lasciarsi sorprendere dalla bellezza imprevista dell’imperfezione. Perché, alla fine, forse non è tanto la verità che ci sfugge, ma la capacità di accoglierla senza paura.
Da dove nasce “La mezz’ora della verità”? È un libro che avevi in mente così fin da subito o ti ha sorpreso nel tempo in qualche modo?
Le idee per i libri mi vengono mentre cammino. I rumori intorno indietreggiano e salgono i colpi dei passi, ascolto meglio i battiti e così confondo bene le prime parole. Ma non vengono dal nulla. Credo che uno scrittore nella prima parte della sua vita abbia già chiaro – che ne sia consapevole o no – dove andrà a parare nella maturità. Riempie i suoi cassetti di indizi, poi passa il resto degli anni a trovare il pezzo mancante, l’incastro giusto. E quando ce l’hai, allora ti metti in testa che puoi iniziare a scrivere. Lo trovi all’improvviso, camminando. Così è successo, due o tre anni fa: provavo a concentrarmi su un’idea ma non ci riuscivo perché ero assediato da chiacchiere: vivavoce a tutto volume, altoparlanti di supermercati, tv accese dalle finestre aperte, squilli e trilli. Questa sovrapposizione mi dava ai nervi. Poi in pochi secondi è svanita, lasciando il passo a un silenzio di stucco. Ecco, ho pensato, voglio far parlare queste voci. Voglio seguirle. Quindi sì, il libro mi ha sorpreso. È la parte più divertente.
Scalettare ogni cosa fino all’ultimo esito è nefasto, viaggiare scrivendo è sacro.
È un grande romanzo corale, con tante voci, storie e famiglie che si intrecciano tra loro. Come si è sviluppato il lavoro di caratterizzazione dei personaggi? E qual è il tuo preferito?
Il mio preferito è Cecilia, la giovane che crede all’amore anche se non sa ancora che cos’è. Ma è così superba da volerlo vivere comunque fino in fondo. Adoro la sua purezza, con tutti i suoi rischi, con tutte le sue contraddizioni. In generale mi sono molto divertito con i personaggi di questo libro. Ho giocato con i punti di vista, spostando l’assetto impercettibilmente dall’uno all’altro, sempre con l’attitudine pettegola e un po’ nevrotica che ho infuso nel calco di Valentino Ricci, questo io narrante più rotto di un vecchio specchio.
Altra grande protagonista è la città, con i suoi segreti e meccaniche. Parlando di Roma, la tua città, c’è un qualche segreto che hai scoperto vivendola e che ti ha colpito?
Ho scritto di Roma sempre o quasi sempre, in tanti modi, in tanti libri. Come capisce prima o poi chiunque ne maneggi (non ne decifri, perché sarebbe troppo) i segreti, arriva il punto in cui non devi nominarla. E infatti in questo romanzo il suo nome non c’è. Puoi solo immaginarla. È la città in cui più stai e più devi immaginarla. La cosa curiosa, infatti, è che è sempre importato poco di cosa i romani scrivono su Roma, contano di più gli sguardi esterni. I più ingenui. Roma è il campo di battaglia di tutto. Noi qui passiamo, raccogliamo le cartucce, contiamo i feriti.
Per quanto Varami sia un’applicazione immaginaria, il mondo delle app, la fiducia che riponiamo verso il digitale, la condivisione del tutto e subito è un tema fin troppo attuale. Come vivi personalmente il rapporto con questo mondo?
Credo che ogni generazione a un certo punto raggiunga un suo equilibrio con l’evoluzione tecnologica e fatichi ad andare oltre. Insomma, coi boomer è facile da capire. Per loro è tutto troppo, non intuiscono, non ci stanno. Poi all’interno del gruppo c’è il caso. Ecco, io penso che il mio idillio con le tecnologie sia stato raggiunto alla fine degli anni Novanta. Sms, ricerche in internet, tv via cavo. Perfetto. Da lì in poi per me è stata sempre una rincorsa. Un entusiasmo iniziale poi mutato in malsopportazione o in rimpianto, con danni maggiori dei benefici.
Lo dico senza retorica: per un mondo senza gruppi whatsapp e senza riunioni su zoom sono disposto a rinunciare agli indubbi benefici. In generale se le innovazioni tecnologiche sono orientate soprattutto a generare profitti e ad approfondire l’alienazione, perdiamo molto. Dunque è sbagliata la premessa. Se invece fossero davvero occasioni al servizio dell’essere umano, potrebbero aprire scenari incredibili anche nell’economia e nell’arte.

“Ma la verità già la sappiamo. È che non sappiamo che cazzo farci, con la verità” scrivi ad un certo punto. Che cosa significano per te “verità” e “onestà”?
La pronuncia un uomo di mezza età, come me. Ho l’impressione che tanti di noi si trincerino dietro a un relativismo d’accatto per evitare di prendersi la responsabilità della realtà.
Viene spontaneo leggendo un tipo di storia simile trovare dei riferimenti ed elementi di appartenenza alla letteratura distopica. Quali sono le tue ispirazioni maggiori in questo campo?
Da ragazzo leggevo molta letteratura “alta”, però poi mi divertivano anche autori di fantascienza, classici come Richard Matheson o H.G. Wells. In qualche modo sono rimasti nel vortice dei miei archetipi letterari. Poi lessi Burgess, Bradbury, Dick, ma non è da quelle parti che si situa questo mio romanzo. Ecco, mi piacque molto “Io sono vivo, voi siete morti” di Carrère, proprio su P.K. Dick. Comunque la distopia è solo uno degli strumenti possibili per, diciamo così, aiutare la realtà a esplicitare i suoi elementi onirici, o l’aura delle sue paure. Penso a quel vecchio straordinario romanzo di Ahmet Hamdi Tanpinar, ‘L’istituto per la regolazione degli orologi’. O a certi spunti di grande letteratura: Gregor Samsa si sveglia trasformato in una bestia immonda. È così divertente, così tragico. E non è che l’inizio. Prendi Saramago: improvvisamente diventano tutti ciechi, o smettono di morire; e lì comincia la storia.
C’è anche la tematica del narratore inattendibile, che ci porta appunto a mettere in dubbio quello che conosciamo. Quale domanda vorresti che il pubblico si facesse leggendo il romanzo? Che non obbligatoriamente deve portare ad una risposta.
Un romanzo deve sempre contenere, in qualche modo, questa domanda: perché scriviamo? Ma è una domanda che sta nelle fondamenta del romanzo, dove non tutti sono chiamati a scendere. Per questo libro forse vorrei che la gente si domandasse: quante sciocchezze dico io stesso? Non dovrei perdonare di più gli altri?
“Sei mai stato felice?” Vero. È un passaggio che mi ha colpito molto nel libro: quanto per te l’aspetto individuale e collettivo, del singolo e dell’appartenente ad una società, contribuiscono alla felicità? Immagino che scrivere sia anche un lavoro molto solitario…
Sì, è un lavoro solitario e forse il mio carattere non mi aiuta a condividere quanto vorrei quello che faccio. È un modo sbagliato per sentirsi meno soli. Ma forse è l’intenzione che conta, quella di credere che la felicità degli altri ci riguardi quanto la nostra.
Se tu potessi ricevere risposta ad una domanda con vero o falso come con l’app Varami, che domanda vorresti porre?
Be’ questa, riguardo ad alcune circostanze della mia vita: è vero che non potevo fare di più?
Il libro o i libri sul tuo comodino in questo momento.
Sto leggendo le poesie di Alicia Gallienne. La sua tragica esistenza e la rocambolesca vicenda editoriale mi avevano fatto supporre che l’avrei amata per i motivi sbagliati. E invece è la luce abbagliante di certi suoi versi, il motivo giusto.
Qual è l’ultima cosa che hai scoperto di te stesso grazie anche alla scrittura?
Che posso essere molto disciplinato.
La tua isola felice.
Un’isola reale, nel Mediterraneo, ma non so ancora decidermi su quale sia. Di certo profuma d’elicriso e di ginepro. E si può ascoltare il vento, il vento e nient’altro.
Thanks to Mondadori
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