Donald Mowat è una persona incredibile.
É questo il primo pensiero che ti passa per la testa quando lo incontri -è una persona dolce, e il suo sorriso nel presentarsi è estremamente gentile- ma è un pensiero che aleggia anche quando lo ascolti.
Un’altra cosa immediatamente chiara è la passione che Donald Mowat mette quando parla del proprio lavoro: dei film che ha realizzato, di quelli che gli piacciono, e dell’attenzione che mette in ogni dettaglio.
L’abbiamo incontrato al Graphic Bar quando il locale era tranquillo, prima della tipica euforia di un sabato pomeriggio, orario happy hour, nel centro di Londra. Immediatamente, Donald risulta una persona gentile, divertente, e si può notare anche la sua umiltà, oltre all’attenzione al più piccolo dettaglio -un tratto, diremmo, molto importante quando si è a capo del makeup department di grandi produzioni cinematografiche.
Di fronte ad un Gin Tonic (uno dei migliori di Soho), ci ha raccontato dei suoi lavori più recenti, dalle responsabilità di “Blade Runner 2049” alla sfida emotiva di Stronger.
Ma Donald Mowat è anche stato profondamente sincero con noi, nonostante i suoi modi allegri e alla mano non permettano di notare immediatamente questo tratto: non è stato spaventato di ammettere come “Stronger” sia stato un lavoro duro da affrontare -tanto per lui quanto per Jake Gyllenhaal- e che fosse un film che meritava un trattamento migliore da parte della critica (concordiamo pienamente). Ha riso, anche, confessando come “Blade Runner 2049” terrorizzasse gran parte della produzione.
A questo proposito, è sempre un po’ strano sentire persone di talento ammettere che qualcosa le ha messe in difficoltà, ma il sollievo e la soddisfazione di Donald erano chiare mentre parlava di “Blade Runner 2049” che, per sua ammissione, è stato una grandissima responsabilità.
Nell’era dei reboot e sequel, tutti erano spaventati da “Blade Runner”, ed è stato proprio questo a convincerlo. Dobbiamo ammettere, però, che ha ampiamente superato la sfida (guardate il makeup di Joi. Guardatela.).
É affasciante ascoltare Donald mentre parla delle lenti a contatto di Jared Leto, di come l’attore abbia scelto di rimanere cieco per tutta la durata del ruolo, e dell’importanza del rossetto di Joi (Ana de Armas): un minuscolo dettaglio che avrebbe potuto rovesciare l’apparenza e la personalità del personaggio.
Con una lunga lista di successi come makeup designer alle spalle, da “Skyfall” a “Sicario”, Donald ha contribuito a creare moltissime realtà, formandole come li vediamo ora: mondi veri, in cui ci possiamo specchiare, simili al nostro quanto più possibile. Lo Sci-Fi non è per lui, come ha già dichiarato, ma è interessante come Donald trovi le sfide nel mondo reale, nel convogliare le emozioni e le esperienze attraverso il makeup (come nel caso di Gyllenhaal in Stronger) e nel rimanere il più vicino possibile al velo che separa realtà e finzione.
Ciò rimane vero in “Blade Runner 2049”, dove tanto Donald quanto Roger Deakins (direttore alla fotografia) erano piuttosto lontani dal genere e ciò ha, senza dubbio, aggiunto quel tocco di realtà che rende il mondo di K. (Ryan Reynolds) così vivido e credibile.
Alla fine dell’intervista, quindi, la sensazione era ancora lì: Donald Mowat è incredibile, davvero. Il suo amore per il lavoro incredibile che svolge e la sua professionalità sono trasparenti.
É stato per noi un piacere poter incontrare Donald, conoscerlo un po’ e poter condividere le sue esperienze nel backstage di due film estremamente complessi, seppur per diverse ragioni, come sono “Blade Runner 2049” e “Stronger”.
“Quello che amo dei film è il loro senso di realtà”.
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Quando hai capito di voler diventare Makeup Artist per il cinema?
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Ero piuttosto giovane, forse quindicenne, adoravo molto il cinema e mio padre mi portava spesso a vedere film; è come il film “Cinema Paradiso”, crei un legame quando sei molto giovane.
Andavo al cinema moltissimo, forse guardavo film che non avrei dovuto guardare, forse ero troppo piccolo, ma notavo davvero ogni dettaglio. Quando ero al liceo, ero uno studente pessimo e facevo davvero impazzire i miei genitori; così ho iniziato con teatro e recitazione, finendo con il fare il makeup: riuscivo a truccare i ragazzi per farli sembrare più grandi, ed è cominciato tutto così. Le persone dicevano “Oh, chiama Donald a farlo…”, così ho lavorato in diverse opere, teatri e in alcuni balletti. Ed eccomi qua!
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Teatro, editoriali e cinema: quale preferisci e qual è per te la più grande differenza?
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Per me il cinema, dato che ora lavoro per la maggior parte nei film. Non molto tempo fa, ho partecipato al Saturday Night Live con Ryan Gosling ed è stato molto difficile perché hanno un genere preciso e tutto loro. Solo ogni tanto lavoro nei teatri.
Quello che amo dei film è il loro senso di realtà, infatti non lavoro molto per il fantasy, “ ‘Il Signore degli Anelli’ o ‘X-Men’? Non chiamatemi!”. Mi piace vedere quei lavori, ma non fanno per me, infatti quando mi offrirono di lavorare per il primo “X-Men”, rifiutai. Quindi penso che i film siano giusti per me, mi piacciono i documentari, e adoro guardare il balletto e l’opera, ma non penso che questi siano adatti a me.
È come essere fotografi, si sa cosa ti piace, e quando si deve fotografare un matrimonio si borbotta “mmm bene”, ma è pur sempre fotografia. Così è come mi sento.
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Dato che sei uno dei più richiesti Makeup Artist ad Hollywood, come il makeup influenza la tua quotidianità?
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Bella Domanda! Penso che non importi cosa si ami fare, non si smette mai di pensarci anche nella vita quotidiana! Chi si occupa di sound, è sempre all’ascolto. Mi piace guardare le persone, di tutti i tipi, lo adoro. Infatti quando lavoro ad un film capisco cosa vuole il regista per la grande osservazione che ho così spesso sulle altre persone.
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A proposito di “Stronger”…
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“Stronger” è uno dei miei lavori preferiti in assoluto! E David Gordon Green, il regista, è una persona eccezionale ed è stato un piacere lavorare con lui.
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Ci devi dire come hai fatto! La faccia di Jake Gyllenhaal è completamente trasformata.
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É un attore spettacolare. Quando abbiamo girato “Stronger”, ciò che ho trovato interessante è come Jake si sia affidato a me.
Penso che il film sia stato davvero molto “maltrattato”. Stavo ritornando dalle riprese con Ryan (Gosling) e tra i film della library dell’aereo ho visto “Stronger”; l’ho guardato, e ho pianto. Mi son detto “Ci hanno fregato!” perché il film è molto più bello di come dice la gente.
Con Jake la difficoltà più grande non è stata dover fare un live casting delle sue gambe in tre posizioni, così che potesse indossare la protesi, si sedeva sulle ginocchia. Ma quando ho visto Jeff Bauman per la mia ricerca, la prima cosa che ho notato sono stati i suoi occhi; Così ho detto “mettiamogli delle lenti a contatto scure” così da non avere degli occhi così blu dato che quelli di Jake sono troppo identificabili. Ho provato con il verde, e una volta dall’ottico e scelto il colore, gli occhi sono diventati marroni ed è stato come se improvviso tutto si fosse allineato nel modo giusto. E Jake ha detto: “mi fanno sembrare ‘strano’” e io ho risposto “Si, ma sembri Jeff“, perché quando capita un tale catastrofico incidente, i tuoi occhi sono diversi. Poi ho sistemato i suoi capelli e l’ho fatto sembrare molto sofferente e dimagrito.
Ho anche telefonato al dottor Jeffrey Kalish, il chirurgo che ha amputato le gambe a Jeff , per chiedergli suggerimenti e consigli. Per esempio per la parte del film in cui si vedono i resti della gambe, si è accertato di tutto quello che stavo facendo e solo dopo la sua approvazione abbiamo proseguito.
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Wow…davvero tanto lavoro!
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Tantissimo lavoro. Per esempio, Tatiana Maslany, sono andato a trovarla sul set a Toronto dove gira “Orphan Black”, e guardandola mi sono chiesto “in che modo dovrebbe apparire vicino a lui? “, lei stessa me lo ha chiesto e ho risposto: “Bisogna che tu appaia in trasandata quanto lui, perché è il tuo ragazzo.” Come se lei si sentisse responsabile.
Poi la madre, Miranda Richardson, e lì ho pensato “lei è sbagliata per il ruolo, è troppo bella”, così le abbiamo cambiato un pochino gli occhi, messo una parrucca e l’abbiamo truccato per farla sembrare una persona che beve troppo e fumatrice accanita, perché era davvero troppo bella ed elegante. Miranda è molto ‘inglese’, minuta e pallida, quindi trasformarla come abbiamo fatto è stato davvero un piacere dal punto di vista lavorativo.
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Riguardo “Blade Runner 2049”, ci puoi raccontare il mood dietro le quinte? È stato difficile fare un sequel di un film così iconico?
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È stato spaventoso! Ero un grande fan e avevo visto l’originale quando ero molto giovane; ho iniziato a lavorare nell’industria cinematografica nel 1984 quindi per me è rappresentativo, anche perché adoravo e adoro il makeup del film creato da Michael Westmore. Ho usato quello – soprattutto per il look di Rachel- come ispirazione per mio primo lavoro in un programma TV negli anni ’80. Per il sequel, ho iniziato ad osservare “Blade Runner” un pochino all’inizio ma poi mi sono fermato, perché cominciavo a compararlo: non sono Michael e non volevo copiare il suo lavoro. Avevo il timore di andare in quella direzione e quindi di cadere nell’idea di copiare qualcosa. Avevo già lavorato con Denis Villeneuve in “Prisoners” e in “Sicario”; mi piace lavorare con lui, sa come creare la giusta tensione.
Quando mi ha chiamato per “Blade Runner” mi sono chiesto “perché mi stai chiamando, non è il mio genere di film”; quindi ero un po’ nervoso e insicuro. Una sera, stavo cenando con Roger Deakins, il direttore della fotografia, e sua moglie e mentre mi chiedevo “perché noi?”, dato che anche Roger non si occupava di Sci-Fi, tutto fu subito chiaro: ho lavorato molto basandomi sulla realtà e so come lavora Denis, e so che non vuole cose assurde. La gente pensa a “Blade Runner” come qualcosa di grande e talvolta dal punto di vista creativo può essere un grosso errore perché diventa una distrazione per lo stesso film. Iniziati i preparativi, ho chiamato Denis Villeneuve, stavo lavorando ancora su “Stronger” ed ero molto stanco in quel periodo, vivevo a Boston e gli dissi: ”Non lo so, sono spaventato da questo progetto.” E lui mi rispose “Non ti preoccupare amico mio, siamo tutti spaventati”. A quel punto pensai, “ok va tutto bene, siamo tutti nel panico!” Ed è così che andata!
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E come hai lavorato sul makeup di ogni personaggio?
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È stato difficile perché sono andato in primis a Montreal, dove vive Denis, per parlargli un po’, ma aveva bisogno di tempo; stava finendo “Arrival“. Così sono tornato a Los Angeles per la prova costumi e durante la prima prova ho incontrato Robin Wright, Ryan Gosling, Ana de Armas, e Sylvia Hoeks, in pratica tutti gli attori principali. Sono andato con Ana e Sylvia a fare la prova per le lenti a contatto; Ryan Gosling, invece l’ho incontrato solo una volta – per avere una prima impressione- e in seguito Robin. Insomma, questi incontri sono abituali tipo “Ciao, come stai?”, dove tu non sai niente e te ne vai.
Poi siamo andati tutti in Ungheria per le riprese. Denis mi aveva inviato alcune fotografie, per lui molto d’ispirazione e io guardandole ho pensato “Non credo proprio”. Erano comunque interessanti, perché ci si fa un’idea, è molto importante dire alle persone qual è l’elemento da cui partire, ma non vuol dire che sarà lo sviluppo finale. Come per Alexander McQueen e quel make-up fantastico con le bocche nere, che a Denis piaceva molto, ma non era quello che avremmo fatto. Poi ho mostrato le mie fotografie che anche lui ha apprezzato.
Per Robin Wright, non so perché ma mi è venuta in mente Jeanne Moreau. I lineamenti dovevano essere duri, e Robin non doveva sembrare bella, fresca come in “House of Cards”.
L’unico pre-makeup test da approvare l’abbiamo fatto a Dave Bautista perché pensavano sembrasse troppo giovane e bisognava farlo risultare più vecchio.
Con Ana de Armas è stata una vera sfida, perché avrebbe interpretato Joi. L’ho incontrata prima a Los Angeles ed è una persona davvero simpatica e ci siamo divertiti molto insieme, ha accettato subito di colorarsi interamente di rosa.
Il rosa infatti era inizialmente rosso, poi un giallo non-acceso, ma rischiava di assomigliare a Mystique di “X-Men” e la cosa non mi convinceva, così ho detto a Denis “Non penso che funzioni”, ci siamo confrontati a lungo, ma lui continuava a ribadire che “doveva essere rosa” e così ho chiesto a Roger “Che tipo di rosa?” e lui “ Bubblegum”. Abbiamo quindi creato le lenti a contatto e cambiato la parrucca.
Ho fatto un moodboard per ogni singolo attore, come per Sylvia Hoeks, un po’ robotica e un po’ androgina. In origine il look doveva essere molto elegante, sofisticato e chic alla Tom Ford o Chanel. Ma, Denis ha fatto notare “se le metti delle labbra rosse, capisci che è una cattiva” e aveva ragione, basti pensare a Crudelia de Mon. Così niente rossetto, e il risultato è stato un più neutro e molto interessante.
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E per Jared Leto?
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Durante il casting si parlava anche di David Bowie, che però ci ha lasciati velocemente, fu molto triste. Poi si è pensato a Tilda Swinton dato che il personaggio era considerato nei limiti di un mondo androgino. Quando Jared si è aggiudicato la parte, eravamo tutti emozionati, solo dopo “abbiamo scoperto” che non avrebbe potuto modificare molto il suo aspetto, perché era coinvolto anche in un altro film.
È stato davvero difficile con le lenti a contatto. Così ho chiamato degli specialisti che si occupavano di lenti e insieme abbiamo creato uno specifico design, dipinto a mano, due paia di lenti uno sopra all’altra chiamate piggy-bag. Con queste Jared non poteva vedere assolutamente niente.
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Ed è rimasto “cieco“ per qualche tempo, giusto?
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Doveva tenerle, quindi vedeva solo me alla mattina. Infatti mi ricordo che l’ultimissimo giorno ha detto “pensavo che ‘lui’ fosse un tizio buffo con i capelli bianchi” “No no, è un tipo basso e di colore”. È rimasto davvero “cieco” ed è stato molto divertente perché non voleva vedere nessuno.
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Abbiamo già detto quanto il primo “Blade Runner” fosse incredibile. Come hai fatto, ad un certo punto, a mantenere la pressione sotto controllo davanti a tutte quelle aspettative?
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La mia squadra è fantastica, perché io conosco loro e loro conoscono me. Una meravigliosa signora di Budapest, Csilla (Blake-Horvath) e Jo-Ann Mac-Neil, con la quale avevo già lavorato in passato, e che ho fatto venire dall’Inghilterra e Jason (Collins) da Los Angeles. Infine, Kerry Warn per le acconciature.
Tuttavia, “Blade Runner” non è un film da grandi hairstyling, è più mantenere un “profilo basso” e non è facile, perché tutti sono capaci di far fare alla gente cose grandi, quindi è stato una sorta di ritorno alle origini. Penso si sia trattato più che altro di mantenere un’idea di realtà!
Il mio punto di partenza per Ryan è stato quello del cerotto sul naso di Jack Nicholson in “Chinatown”.
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Qual è il tuo film preferito per il makeup?
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Vorrei dire Barry Lyndon, è davvero straordinario. Anche “Cabaret” è altrettanto ammirevole. Ma adoro la semplicità di “Casa Howard” e di “Barry Lyndon”, perché si parla di sfumature, con persone che hanno fatto davvero un lavoro fantastico, che c’è ma che non si nota. Oppure in “Espiazione”, penso che il make-up sia brillante, tanto da non farlo notare.
Ho visto Barry Lyndon quando avevo circa 12 anni…Ogni immagine è un quadro.
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Qual è il tuo progetto dei sogni?
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Probabilmente finora sono stato davvero fortunato perché ho lavorato a progetti davvero buoni e interessanti, ma sì…penso che “Blade Runner 2049” sia praticamente il progetto dei sogni! Tante persone si confondono, perché pensano che il progetto dei sogni significhi il preferito; non è il mio preferito, anzi è stato molto difficile. Ad esempio “Sicario”, è uno dei miei migliori lavori e uno dei miei film preferiti, ho amato lavorare su questo particolare set, le attrici, ho amato tutto di quel progetto. Ci è voluto tanto, era molto specifico.
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Quali sono invece i tuoi progetti futuri?
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Abbiamo ancora poco per finire un lavoro con Ryan Gosling e Claire Foy, si tratta di un film su Neil Armstrong e il lancio dell’Apollo 11 del 1969. Ci manca praticamente un giorno e poi abbiamo finito. Stiamo girando ad Atlanta e siamo andati a Cape Canaveral poco tempo fa.
Mi sto già preparando ora per il prossimo film di Dan Gilroy con Jake Gyllenhaal, Rene Russo: non ha ancora un titolo, ma deve essere molto interessante, credo sia un po’ alla “Nightcrawler” e un po’ alla “Animali Notturni”.
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Un’ultima curiosità…Com’è stato ricevere la Medaglia del Giubileo di diamante da Elisabetta II?
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Nel mondo reale penso che si dovrebbero dare riconoscimenti in qualsiasi campo. Quello che a me piace davvero tanto è incontrare persone che fanno un lavoro molto significativo, infatti quando sono andato a ricevere la medaglia, c’era qualcuno che aveva fatto davvero qualcosa che mi aveva colpito – una star del cinema? Non è importante – ma quel qualcuno che scopre questa o quella cellula del cancro, o che ha scoperto un nuovo colore, o che lavora con una tribù indigena, questo è interessante!
Conoscere persone che fanno i volontari, assistenti sanitari, è davvero eccezionale. Stare insieme e incontrare persone che hanno questa vita.
C’era un ragazzo che era uno specialista in un tipo di poesia, ne ero affascinato. Ho un’amica che è specializzata in Letteratura Italiana e viene da Philadelphia ma ha studiato prima a Cambridge e poi Venezia. Immaginate voi! Questo è quello che mi interessa.
Nell’industria cinematografica ci si può prendere troppo sul serio, me incluso. Arriva un punto, in cui bisogna guardarsi attorno e vedere cosa stanno facendo le persone. Questo è il motivo per cui amo i documentari così tanto. “Un sogno chiamato Florida” (The Florida Project) per esempio, è uno dei miei film preferiti di quest’anno, perché è vero e reale!