Una rivoluzione perché funzioni ha bisogno di alcuni ingredienti fondamentali: un leader carismatico, un messaggio importante e un seguito di interessanti convinti di quel che fanno/dicono. “Fashion revolution” ha questo ed altro: fondato da Orsola de Castro e da Carry Somers nel 2013, in poco tempo è stato capace di divulgare il proprio messaggio di salvaguardia e tutela dei lavoratori nell’ambito della moda, volendola rendere il più ecosostenibile possibile, un progetto rivolto non solo ai brand, ma anche ai consumatori, che sempre più spesso dovrebbero interrogarsi su chi produce i loro vestiti. Oggi è una realtà attiva in 92 paesi, e nuove persone si interessano quotidianamente, in modo costante e anche creativo a questo “Credo”, soprattutto tramite i social. Di strada ne è già stata fatta molta ma il lavoro non è ancora ultimato.
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Durante il nostro soggiorno a Londra, abbiamo avuto il piacere di conoscere e intervistare Orsola de Castro, che ci ha spiegato in modo chiaro e semplice cosa sia veramente Fashion Revolution: il progetto è nato in seguito alla tragedia avvenuta il 24 aprile 2013 in Bangladesh, dove lo stabilimento Rana Plaza di Dhaka è crollato, uccidendo 1134 persone e ferendone 2500. Una perdita terribile, prevedibile e che non sarebbe più dovuta succedere; Orsola ha ricevuto una chiamata mentre era in bus da Carry Somers, con la quale aveva già collaborato in precedenza, che l’ha invitata a fare qualcosa insieme, un invito che è stato accolto immediatamente con entusiasmo, per non dimenticare l’accaduto e per evitare il suo ripetersi. Ci dice che aver come centro operativo Londra è un fatto non da poco, perché qui possono contare su un gran numero di collaboratori realmente interessati alla sostenibilità, grazie ai quali sono riuscite a divulgare le loro idee in ben 92 paesi, con l’obiettivo di riuscire coinvolgere il mondo intero prima o poi.
Orsola de Castro trae la propria ispirazione quotidiana da diversi ambiti, tra cui l’arte e la letteratura, ma soprattutto dalla vita di tutto i giorni e nelle persone che incontra: sono proprio le storie di cambiamento e di positività che sente/vede ad ispirarla maggiormente nell’ andare avanti con il suo lavoro, credendo inoltre che l’umanità sia giunta ad un punto di svolta e che quindi non bisogna trovarsi impreparati.
A proposto di come coinvolgere l’umanità, si dichiara privilegiata di poter lavorare con i giovani all’istituto St’s Martins di Londra, perché in loro vede una curiosità realmente interessata: molti designers le chiedono come possono fare per essere parte attiva della rivoluzione, ma il suo messaggio non è rivolto soltanto agli addetti del settore, poiché vorrebbe che Fashion Revolution venisse anche intesa come un’avanguardia, in grado di cambiare il mondo della moda con creatività ed attivismo. I piccoli gesti come comprare sempre più abiti ecosostenibili sono essenziali per dimostrare quanto a cuore ci stia questo argomento, perché i vestiti sono la pelle che ci scegliamo, e di conseguenza veicolano un messaggio, che in questo caso deve essere di cambiamento, in nome di una qualità e di un mondo migliore.
Nella stessa sede abbiamo poi avuto la possibilità di parlare con Sarah Ditty e Heater Knight, due collaboratrici di Fashion Revolution: la prima si occupa soprattutto di due progetti in uscita nel 2017, il “Fashion transparency indeex” e il “Garnment worker diaries” (Vedi prossimo paragrafo), con la speranza di riuscire a ricostruire un’industria della moda ormai rotta (Lei personalmente si è accorta di questo fatto notando la quantità di vestiti che possedeva e di cui non aveva bisogno, realizzando di avere un ruolo attivo in questo settore così grande per dimensioni e per persone coinvolte) dalla troppa velocità con la quale cresce e dal processo di globalizzazione, ormai incapace di aiutare realmente anche solo chi ci lavora, potendo migliorare in questo modo l’ambiente e stimolare la creatività delle persone.
La seconda si occupa principalmente delle comunicazioni con i brand, controlla il website, i social e si dedica al fanzine (Vedi prossimo paragrafo): lavorava anche precedentemente nell’ambito delle comunicazioni e si è decisa a diventare parte attiva di Fashion Revolution anche per fare un cammino personale di miglioramento, per cambiare la propria visuale sui vestiti; spera che sempre più persone possano fare altrettanto, pur mantenendo la loro diversità e le loro peculiarità.
Di seguito una presentazione generale dei loro progetti sopracitati in uscita nel 2017:
(Per una spiegazione ancor più approfondita, vi invitiamo a guardare il video e a visitare il loro sito)
1) FASHION TRANSPARANCY INDEEX: la trasparenza da parte dei produttori deve essere rispettata, soprattutto quando questa può salvare delle vite, le vite di chi lavora nelle fabbriche, un numero di persone talmente grande che può spesso sembrare difficile salvaguardare, ma non per questo la loro tutela deve venir meno anzi, deve dimostrarsi con forza ancor maggiore. Inoltre, i consumatori hanno il diritto di sapere da dove proviene ciò che comprano e da chi è stato fatto, per evitare abusi e sfruttamenti di vario genere. A sostegno di ciò Fashion Revolution, in collaborazione con Ethical Consumers, ha lanciato il tag #whomademyclothes, per invogliare la gente a chiedere chi fabbrica i loro abiti attraverso i social e costringendo in questo modo i brand (ne sono stati coinvolti già più di 40) a rispondere, attuando poi un controllo per certificare che dicano la verità. Basandosi su un metodo composto da 5 aree di indagine, Fashion Revolution è stato in grado di accertare quali sono tra questi 40brand i più trasparenti (Come Levi’’s e H&M) e quelli meno (Chanel, Hermes e Forever 21 tra gli altri); con il tempo sperano di riuscire a coinvolgere e a migliorare con la loro etica tutti i marchi, siano essi di lusso o poco costosi, per poter salvaguardare la vita dei lavoratori coinvolti nella produzione.
Per saperne di più su questo studio cliccate qui.
2) THE GARMENT WORKER DIARIES: si basa su oltre un anno di ricerche (In collaborazione con Microfinance Opportunities e con il sostegno della C&A Foundation) sulla vita dei lavoratori del settore in Bangladesh, India e Cambogia, volte a migliorarla e a tutelarla. Spesso e purtroppo, questi lavoratori lavorano 12 ore al giorno in condizioni pessime per la loro salute psichica e fisica, ricevendo in cambio un salario minimo, incapace di far fronte alle varie spese. Si è deciso dunque di andare a intervistarli per sapere le loro abitudini, i costi effettuati e le varie occasioni affrontante, allo scopo di far luce su cosa accade realmente all’interno delle fabbriche e su come questi lavoratori vivano una volta usciti da esse, con la speranza di presentare ai produttori e ai consumatori le condizioni effettive di tali realtà, potendo in questo modo apportare un cambiamento positivo e di importanza mondiale. Il tutto sarà correlato da foto per poter dare un volto alle persone che preparano i nostri vestiti.
Mantenersi informati sugli sviluppi di questa ricerca è fondamentale per raggiungere l’obiettivo finale e a questo proposito, cliccate qui per scoprire di più a riguardo.
3) FANZINE: con 72 pagine totali, questo magazine si propone di esplorare il mondo dell’abbigliamento e della produzione industriale, tramite giochi, illustrazioni, curiosità, foto, poesie e altri contenuti! Tra i vari collaboratori di questo numero unico ci sono Tyler Spangler, Alex Jenkins, Alec Doherty, Cléa Lala, Rozalina Burkova, Elyse Blackshaw, Chrissie Abbott, e molti altri provenienti da tutto il mondo. E’ disponibile da questo gennaio e costa 10.50 sterline, soldi che saranno impiegati totalmente per raggiungere gli obiettivi di cambiamento che Fashion Revolution si è proposto fin dall’inizio, e farà anche avvicinare i lettori alla conoscenza del progetto “The Garnment worke diaries”.
Per ulteriori informazioni cliccate qui.
4) FASHION REVOLUTION WEEK: quest’anno l’inizio cade proprio il giorno dell’anniversario del disastro in Bangladash e si tratta di un’intera settimana in cui le persone vengono spronate a chiedere ai brand tramite il tag #whomademyclothes di mostrare le persone che si sono dedicate alla produzione dei loro vestiti, chiedendo anche in questo modo un miglioramento delle loro condizioni di vita.
Tutti nel loro piccolo possono fare qualcosa per permettere a questo messaggio di cambiamento positivo di entrare in ogni fabbrica e nella vita di tutti i giorni: siate curiosi prima di tutto, visitate il sito di Fashion Revolution dove troverete diverse informazioni per essere parte più o meno attiva della rivoluzioni tramite donazioni, eventi e ricerche di vario genere, fate valere i vostri diritti in nome di un mondo migliore; da soli sarete soltanto una scintilla, ma sarà proprio questa scintilla a far brillare con maggior intensità tutte quelle che le si trovano vicine e lontane, fino a quando non si otterrà una chiarezza assoluta, agibile a tutti e rispettosa della vita umana.
Allora e soltanto allora, la rivoluzione avrà raggiunto il suo scopo, diventando una norma quotidiana, semplice e personale, proprio come i vestiti che compriamo: siate “Ribelli” dunque, siate consapevoli, siate paladine del cambiamento positivo, non soltanto ora, ma anche in futuro, sempre.