Sulla lista delle serie TV più attese di questo 2017, Mindhunter va oltre le aspettative e passa di diritto nella lista delle più belle dell’anno.
Presentandosi con un biglietto da visita firmato David Fincher, Mindhunter partiva già con l’asticella delle aspettative parecchio alta, dopotutto l’ultima volta che avevamo sentito di una produzione originale Netflix prodotta da Fincher ci è stata presentata quella perla rara di “House of Cards”. Inoltre il maestro del crime drama ha diretto quattro dei dieci episodi che compongono questa prima stagione, i primi e gli ultimi due, dando un’ennesima prova di forza in questo genere che ormai gli è debitore.
Come debitore gli deve essere il creatore della serie Joe Penhall, che dallo stile di Fincher ha attinto a piene mani.
Sin dai tempi di “Seven” Fincher ha sempre avuto un modo molto personale di presentare il cattivo, ponendolo su un piedistallo ora per idolatrare la sua geniale follia, ora per osservare meglio la depravazione e la crudezza del suo istinto animale. In ogni caso la figura del cattivo è sempre stata principale nei suoi film, anche quando il suo reale minutaggio era molto scarso (“Seven”, “Zodiac”).
Da questo punto di vista Mindhunter è una specie di introspezione sul lavoro di Fincher attraverso gli occhi di due agenti speciali del FBI, il giovane Holden Ford e il rude Bill Tench, interpretati magnificamente da Jonathan Groff e Holt McCallany, che con il tipico binomio vecchio/giovane, buono/cattivo, vicino/distante al pubblico, creano una coppia forte e funzionante quasi al livello delle più famose coppie seriali.
Ambientata nel 1977, ai tempi in cui i serial killer erano considerati semplicemente bestie di Satana nati e cresciuti per seminare terrore, la serie mostra le difficoltà degli agenti nel far capire l’importanza del lato psicologico per creare un profilo utilizzabile per gestire e addirittura prevenire le azioni di questi criminali.
Si potrebbe dire che gli agenti Ford e Tench siano gli antenati dell’agente Aaron Hotchner e del dottor Spencer Reid che con “Criminal Minds” hanno introdotto tutti al concetto di profiling.
Oltre ai protagonisti chiaramente vicini a Fincher (è facile pensare alla coppia Somerset/Mills di “Seven”), il tocco del regista si percepisce nelle atmosfere che incastrano qualsiasi spettatore con le sue solite tattiche infallibili per sconvolgere e allo stesso tempo tenere attaccati allo schermo.
Con dieci puntate dalla durata variabile, Mindhunter cattura lo spettatore facendolo immedesimare negli agenti per poi incastrarlo nei loro stessi problemi suscitando dubbi esistenziali e insicurezze tanto genuine quanto spaventose.
Il merito della qualità della serie non va ovviamente solo all’eredità e al lavoro di Fincher. Gli attori principali, oltre ai già citati Groff e McCallany, non perdono mai di qualità, dalla dottoressa Debbie Mitford di Hannah Gross all’interpretazione assolutamente sopra le righe di Cameron Britton che è riuscito a gestire perfettamente un personaggio difficile come il serial killer Ed Kemper (diciamo che non sarebbe affatto sbagliato vederlo con un Emmy in mano).
Altra nota di merito va ai dialoghi, mai banali, sempre ricercati ma mai troppo pesanti, riuscendo a non rendere il tutto troppo tecnico ma mantenendo comunque un altissimo livello di credibilità e profondità.
Infine la scelta delle musiche. Invito a tal proposito ad ascoltare la playlist creata apposta da Netflix, non ve ne pentirete.
Per Mindhunter è consigliabile un intenso binge watching, ma se preferite usarla per rendere meno pesante l’attesa della seconda stagione di Stranger Things non vi biasimeremo.