Non mi sono mai mancate le parole, specialmente quando mi ritrovo davanti ad un personaggio interessante: ma quando a New York, in una mattina iniziata alle 4.30 per vedere l’alba alzarsi sul set televisivo in cui avevamo appuntamento, ho conosciuto Ane Crabtree, e così, ogni parola mi è sembrata superflua. Di fronte alla sua visione della vita, del mondo e del lavoro, ho capito che la più grande forma di rispetto in cui potessi onorare la sua incredibile carriera di costume designer e la sua esistenza fatta di segni, di proteste per un mondo migliore e di creatività ultraterrena, fosse il silenzio.
Un silenzio riempito dalla sua voce, dal suo passato e dal suo messaggio.
Un silenzio carico di significato, che porterò per sempre con me.
Un silenzio che, come un fiume libero di scorrere, mi ha guidato alla scoperta dell’essenza di Ane e di quegli elementi che rendono i suoi costumi dei pezzi unici e simbolici.
Quel che segue è ben più di un’intervista: è un flusso di coscienza, è la testimonianza dello spirito artistico di Ane che ci ha fatto aprire gli occhi sull’oltre.
Questa, è Ane Crabtree. Questa, è la nostra Cover Story di Maggio.
Quando hai realizzato di voler diventare una costume designer? C’è stato un momento specifico?
Non avrei mai pensato di fare questo lavoro.
Ho studiato pittura, Shakespeare e storia dell’arte, e ho lavorato come stylist; il momento di svolta è stato intorno al 1989 o 1990: quando mi sono trasferita per la prima volta a New York nel 1985 (vengo da una piccola cittadina del Kentucky) tutto girava intorno alla moda per me, e volevo scoprire il lato “sporco” di New York. Dopo cinque anni ho pensato: “È noioso notare solo le persone più alla moda”, perché sono ovunque per le strade, così ho iniziato a guardare le donne senzatetto: ce n’era una in particolare che si avvolgeva ogni giorno in sacchi della spazzatura diversi ed era veramente favolosa in quel contesto, realizzava fasce per capelli e scarpe con dei sacchi della spazzatura, e ho capito che quella era la sua personalità autentica. In altre parole, ho iniziato a guardarmi intorno per cercare i personaggi più interessanti.
Intorno al 1990, ho capito che amavo moltissimo il cinema, era un settore che stava cambiando parecchio in quel momento: era appena arrivato Tarantino, Oliver Stone stava facendo strani film, come pure Tilda Swinton, mi divertiva, recitava in produzioni come “Edward II” e “Orlando”. Questi film erano molti interessanti e continuavo a guardarli, mi appassionavano ben più della moda, perché riguardavano la narrazione, e la narrazione per il Sud è un elemento importante.
Crescendo i miei genitori mi facevano sempre vedere i film di Hitchcock (mio padre è cresciuto in Kentucky, ma mia madre no, aveva altre idee e una cultura diversa alle spalle), inclusi alcuni titoli poco appropriati per una bambina [ride], e ricordo che nessun altro nel mio quartiere, nei progetti, parlava di quei film; il lavoro di Hitchcock è incredibilmente bello e rimane impresso soprattutto nella memoria di un bambino, sembra quasi la vita reale, anche se, in un certo senso, c’è qualcosa di strano, e penso che tutte queste cose mi abbiano fatta avvicinare al cinema.
Inoltre, intorno all’età di 8 anni, non so come, magari tramite la svendita degli oggetti di un garage o di un mercatino delle pulci, qualcuno aveva messo in vendita una vecchia macchina da presa 8, non era nemmeno un Super 8, e io e mio fratello l’abbiamo comprata e abbiamo iniziato a girare dei film d’animazione, perché pensavamo fosse divertente. Quindi, penso che il cinema sia sempre stato presente sullo sfondo della mia vita. Registravo strani suoni e poi li mescolavo con quelli dei miei genitori che litigavano, pensavo fosse un sogno.
“Questi film erano molti interessanti e continuavo a guardarli, mi appassionavano ben più della moda, perché riguardavano la narrazione”.
“Il lavoro di Hitchcock è incredibilmente bello e rimane impresso soprattutto nella memoria di un bambino, sembra quasi la vita reale, anche se, in un certo senso, c’è qualcosa di strano”.
Tutte quelle cose mi sono tornate in mente all’età di 25 o 30 anni, allora ho pensato: “Forse non devo occuparmi solo di moda”, perché è così bella, la adoro ancora e cerco tutt’oggi di inserirla nel mio lavoro; intorno al 1990 mi stavo facendo un nome a New York, così ho pensato che potesse funzionare inserire tutti quegli elementi nel mio lavoro. Inoltre, la moda non mi pagava abbastanza, lavorare per la rivista Elle o per le sfilate di moda ma non mi permettevano di fare così tanti soldi, e quando sei giovane a New York cerchi un modo per pagarti l’affitto. Poi le persone hanno iniziato a contattarmi, e tra di loro anche un giapponese, un ragazzo simpatico per metà giapponese che mi ha chiesto: “Ehi, parli giapponese?” e io gli risposi: “No, lo parlavo da bambina ma non me lo ricordo” al che lui mi ha detto: “Beh, cercano qualcuno che aiuti un designer giapponese, ti andrebbe di occupartene? È per uno show televisivo che stanno girando a New York”, e io: “Certo, ma perché dovrebbero volere proprio me?” Il fatto è che i giapponesi conoscono l’inglese ma sono molto timidi, quindi per loro era utile avere qualcuno che potesse comunicare con gli attori di New York, interfacciarsi con loro. Questo è stato il mio primo lavoro che ha segnato il passaggio dalla moda al cinema; dopo tre film giapponesi qui a New York, ho iniziato a lavorare con registi indipendenti e poi, molto più tardi, è arrivata la TV… Sapete, è una lunga storia. [ride]
Cosa ti fa dire di sì a un progetto?
Cerco sempre un copione unico, ed è difficile perché a volte devi accettare un lavoro e basta. Ci sono stati alcuni momenti nella mia carriera, forse cinque volte in 30 anni, in cui ho dovuto accettare un lavoro perché avevo bisogno di farmi conoscere a Los Angeles o a New York, come ad esempio un poliziesco, una serie TV sul mondo degli avvocati o storie mafiose ambientate a New York, ne ho fatte tante, e poi ho fatto “I Soprano“. Quello che mi fa dire di sì è il fatto che, quando mi viene consegnato un copione, se c’è qualcosa che mi provoca una forte emozione subito dopo averlo letto, come piangere o rendermi particolarmente felice, allora so che fa per me; e se continua ad emozionarmi anche dopo la seconda o la terza lettura, perché non si può leggere una volta sola, se qualcosa si muove in me, allora so che la mia creatività è in moto: l’emozione conduce sempre alla creatività, quindi se sento qualcosa so che posso farlo, succede sempre così quando il copione è buono e sono fortunata, perché di solito si rivela esserlo per davvero.
“Quello che mi fa dire di sì è il fatto che, quando mi viene consegnato un copione, se c’è qualcosa che mi provoca una forte emozione subito dopo averlo letto, allora so che fa per me”.
“L‘emozione conduce sempre alla creatività“
Parlando invece del tuo processo creativo, come si sviluppa, come è cambiato nel tempo e dove cerchi ispirazioni?
È interessante perché credo di aver fatto questo lavoro per tutto il tempo che mi è stato possibile: quando ho iniziato a fare questo lavoro, mia madre e mio padre non mi credevano, perché era un’occupazione indipendente, che non era mai conosciuta in mezzo all’America, pensavano che mentissi quando dicevo loro che lavoravo nel cinema; ma, se ripenso al mio percorso dall’inizio ad oggi, mi rendo conto di fare sempre le stesse cose: che si tratti di un progetto super indipendente, di qualcosa che ho fatto agli esordi, quando ancora non sapevo nulla, o di uno dei miei film da produttrice, scrittrice o regista, ho ancora lo stesso approccio, anche nei confronti di un lavoro importante come quello in cui sono impegnata in questo momento. Invecchiando, realizzi che i componenti di te stesso che sono ripetitivi funzionano perché ti rendono felice.
Non è mai venuta meno quella eccitazione o quella connessione con la mia bambina interiore, e questo è qualcosa di molto giapponese, di Okinawa, e rende il mio lavoro estremamente puro perché tutto quello che vuoi fare è creare qualcosa che ti dia gioia; in questo modo, sai che farai del tuo meglio. Quindi questa è la prima domanda che mi pongo: come posso collegarmi con questa purezza che è sempre stata lì fin dal primo momento? Questo fatto non è cambiato.
L’altra cosa che stranamente non è mai cambiata è il fatto che devo sempre avere determinate cose intorno a me per invocare gli antenati, il che forse sembrerà sciocco, ma siamo costantemente su questo tapis roulant di “veloce, veloce, veloce!”, “Sbrigati!”, “Leggi il copione, o, abbiamo cambiato l’intero copione, quindi è meglio leggerlo in fretta, devi conoscere la nuova versione entro domani e devi farlo funzionare su 25 attori, devi poter raccontare questa storia entro le 9 di domani. Vai!” Questo è il ritmo frenetico a cui siamo abituati.
In un progetto come quello a cui sto lavorando ora mi definisco una “nomade seriale“. Questa è la differenza, siamo sempre in moto, come voi ragazzi, e quello che ho detto a uno dei produttori di questa serie è che il tempo è unico, il tempo scorre velocemente quando lavori a una storia che prende vita in più paesi e hai una crew diversa in tutti quei paesi e devi occuparti dei costumi delle persone in tutti quei paesi; non dormo, mi sveglio letteralmente alle 2 o 3 del mattino, dedico un momento tranquillo alla meditazione, all’organizzazione dei miei pensieri, oppure me ne sto seduta a guardare l’acqua e a invocare aiuto per la giornata. Poi torno alla realtà e “boom“, è un non-stop per 18-20 ore, a fine giornata torno a casa e crollo.
In qualsiasi contesto si possa ritagliare un momento di serenità o di concentrazione, è utile farlo; a volte la meditazione, che è ovviamente spirituale, per me rappresenta semplicemente un momento di quiete, per fare del mio meglio: si tratta sempre di lavoro per me, della prospettiva e della visione. Credo che l’unica cosa che sia cambiata è che sono sempre in viaggio, e che il mio lavoro e i progetti sono diventati più grandi, di solito mi viene chiesto di costruire un mondo intero, questo è quello per cui sono diventata famosa.
Cerco di aiutarmi a visualizzare come potrebbe apparire nel mio cervello, mi capita spesso mentre parlo con le persone e chiudo gli occhi. O mi ricordo o vedo qualcosa per quello che dovrebbe essere e, finché riesco a visualizzarlo, sono nel futuro, sono in vantaggio, e questa è la mia risposta, ma rende anche più difficile battere te stessa alla prossima occasione… Se ogni progetto è grande, come fai a diventare a tua volta più grande?
Ho aspettato 9 mesi prima di tornare al lavoro dopo “The Handmaid’s Tale“, perché è stata un’esperienza monumentale, ha suscitato davvero grandi emozioni, sono stata in viaggio per due anni e mi è piaciuta molto la storia, ha avuto un grande impatto politico e per le donne, è stato un progetto davvero grandioso per me. Mi sono resa conta poi che avevo bisogno di adeguarmi nel mentre, e questo è qualcosa che faccio fin da giovane, uscire e immergermi completamente nella natura, senza avere nulla che abbia a che fare con il cinema o la moda intorno a me, ed è per questo che mi vesto così, mi appartiene, e non si collega in alcun modo alla storia. La gente mi ha chiesto se potevo vestire qualcuno come me ma non lo farò mai, perché io sono io e non voglio rivedermi negli altri, devo mantenere una piccola cosa solo per me, do già i miei abiti ai personaggi, non voglio dover dare anche questo.
“Non è mai venuta meno quella eccitazione o quella connessione con la mia bambina interiore, e questo è qualcosa di molto giapponese, di Okinawa, e rende il mio lavoro estremamente puro perché tutto quello che vuoi fare è creare qualcosa che ti dia gioia; in questo modo, sai che farai del tuo meglio”.
“Quindi questa è la prima domanda che mi pongo: come posso collegarmi con questa purezza che è sempre stata lì fin dal primo momento?”
“The Handmaid’s Tale” è stato davvero difficile e pesante, così mi sono presa 9 mesi per iniziare a realizzare il mio documentario e per tornare in Kentucky, poi ho anche fatto domanda per una residenza artistica in Giappone, non ci vado dal 1991.
Per farla breve, mio padre è appena venuto a mancare, era molto malato, ma la cosa interessante è che avevo tantissimo girato di lui e di mia madre. Sto scrivendo la storia di mia madre e ho tutte queste interviste del 2018, di quando sono andata in Kentucky e li ho registrati e filmati insieme. È incredibile il fatto che abbia dovuto vederli come due sconosciuti per farmi raccontare le loro storie; questo è quello che ho fatto, mi sono detta: “Ho bisogno di ricominciare“. Ho provato a dipingere, ma non è andata molto bene. Semplicemente, penso che sia davvero importante vivere la vita e non la finzione. La vita è più difficile di quello che faccio io, quindi vivere nella finzione è una fuga, è un gioco per adulti.
Mi sono presa del tempo per ripulire la mia tavolozza da “The Handmaid’s Tale” e poi ero di nuovo pronta per questo progetto grazie anche alle persone coinvolte, la storia oltretutto è ottima e hanno molto rispetto delle donne. Il produttore è una donna coreana incredibile ed è la presidentessa della sua azienda, e lei è parte del motivo per cui le ho detto che non avrei accettato il lavoro a meno che non fossi stata pagata tanto quanto gli uomini della mia stessa posizione, e che avessero portato il giusto rispetto verso i costumi. Quando realizzi qualcosa come “The Handmaid’s Tale” tutto è gratis perché solo una persona può creare quel mondo, nessuno sa come ricreare Gilead nell’abbigliamento tranne il designer, nessuno direbbe mai: “Devi cambiare questo”, perché non sanno come fare, mi capisci?
Venendo qui per questo lavoro, e questo mi aiuterà a rispondere a una parte della tua domanda, ho detto: “Non verrò a meno che il costume design non sia davvero importante per lo sviluppo del processo e a meno che non pensi che possa costituire un elemento per costruire la storia”. Questo è cambiato dopo 30 anni di sicuro, sono sconvolta quando la gente mi dice: “Sono una tua fan”, ma un fan di cosa? Mi sento in imbarazzo, tutto quello che ho fatto l‘ho fatto per lavoro, sono felice di avere dei fan, non lo so, ma sono ancor più felice di sapere che il lavoro ha detto qualcosa alle persone, è diverso, è una fortuna essere più vecchia e capire che prima di morire come artista ho avuto modo di vedere che le persone sono state colpite dalla mia arte.
Parlando di donne e di cambiamento, quali sono i cambiamenti che vorresti vedere?
Sono stata di recente al Tribeca Film Center per un evento sponsorizzato anche da Chanel intitolato “Through Her Lens” dove scelgono cinque registe e i loro cinque produttori per evidenziare il loro lavoro, ed è una cosa fenomenale, perché c’erano tutte queste donne provenienti da vari rami del settore. Ciò che è divertente, e anche toccante, è che ci sono delle grandi menti, come Jane Rosenthal e Paula Weinstein, che gestiscono il Tribeca con Robert De Niro, lavora insieme a molte donne, è un precursore, ma in quell’occasione hanno detto: “Ripensate ai tempi andati, quando c’erano molte più donne nel settore, scrittrici, editor, mentre ora si trovano 10 registe, ma solo tre di loro stanno lavorando”, e questa differenza è molto strana: penso che in questo momento, negli Stati Uniti e in Canada, molte serie TV stanno cercando delle donne, a volte donne di colore, per coinvolgerle nel progetto e dirigere, ma a volte non riescono a trovarne, perché c’è così tanto da fare ora che quelle altre persone sono fuori a lavorare; la gente mi ha detto: “Dovresti dirigere, metti insieme i vari pezzi e dedicati a questo”, perché il momento è adesso, si è aperta una finestra e spero che rimanga tale, che non sia solo una moda, che non sia solo di passaggio.
Vorrei vedere un mondo dove questa non è nemmeno più una domanda o un argomento di discussione; a volte, quando parlo con i miei amici uomini, non vogliono più sentirne parlare, e la gente per un anno non ha parlato d’altro che di donne che dirigono, fanno dei commenti come: “Beh, ha avuto il lavoro perché è una donna”. Nessuno vuole questo, nessuno vuole ottenere il lavoro in questo modo, si vuole qualcosa perché si ha talento e un punto di vista, e penso che le donne abbiano un punto di vista diverso. Non voglio essere sessista, ma credo che diverse registe o attrici mi abbiano ispirata molto crescendo; mi portavano a pensare: “Come potrei essere come loro?” E pensando ai vecchi film di Hollywood, quelle sono donne forti… Joan Crawford, Betty Davis, Barbara Stanwyck, Katharine Hepburn, non cercavano solo di essere sexy. Questo è il problema, è fantastico che le donne abbraccino la loro sessualità e abbiano voglia di stare con altre donne senza dover pensare: “Oh, devo dimagrire”, ma è tutto così arcaico; certo, fai quello che preferisci, ma a cosa stai pensando, cosa stai realizzando nella tua vita e cosa stai facendo per le persone che verranno dopo di noi? Quali altre giovani donne stai aiutando? Parli di questi argomenti? O sei solo preoccupata per la tua forma e di avere un culo più grande? C’è altro nella vita! Va bene, fallo, lavora per ottenere il tuo culo più grande, ma dopo? Quando avrai 55 come me? Non sarà più quella la risposta che stai cercando.
“Nessuno vuole questo, nessuno vuole ottenere il lavoro in questo modo, si vuole qualcosa perché si ha talento e un punto di vista, e penso che le donne abbiano un punto di vista diverso”.
“Cosa stai realizzando nella tua vita e cosa stai facendo per le persone che verranno dopo di noi?”
Ho visto un cambiamento radicale con “The Handmaid’s Tale”: ho sempre saputo che il costume design raccontasse una grande storia perché fa parte di una scena proprio come gli attori, la fotografia e della scenografia, riempie lo stesso dannato fotogramma, come potrebbe non essere importante? Ma ci pagano molto meno, siamo meno tutelati in termini di straordinari richiesti e simili, perché? Perché lo permettiamo; perché è un settore dominato dalle donne.
Ho deciso di fare “The Handmaid’s Tale” perché conoscevo a fondo la storia e DOVEVO creare quel mondo. Sono così pazza che, da un giorno all’altro, ho creato un vocabolario in lingua latina per ogni capo perché volevo che gli scrittori lo usassero; quando eravamo sul set, e l‘assistente di regia diceva: “Porta il cappello”, ecco quello non è un cappello, è un paio d’ali, è così che vengono chiamate nel copione, volevo che tutti usassimo la stessa lingua per non confonderci. Girava tutto intorno al come risolvere un problema, ma quando ho realizzato che gli assistenti di regia, il reparto trucco e anche gli scrittori a volte venivano da me e dalla mia squadra, come la mettiamo allora? I costumi sono davvero importanti, quindi devono iniziare a pagarci e a darci quello di cui abbiamo bisogno perché siamo uguali, e questo è tutto ciò a cui penso ora. Potevo dirlo a 21 anni? Probabilmente no, ma penso che se non lo diciamo, se non diciamo quello che vogliamo o chi siamo per davvero soprattutto, non dobbiamo avere paura di essere quello che siamo o di essere nelle grinfie del nostro più grande potere, a nessuno interessa. Dobbiamo farlo, dobbiamo fare il nostro lavoro, e credo che sia questo che le nostre madri o la società non ci insegnano, non lo troverete là fuori, anzi, troverete persone che cercano di essere perfette su Instagram, ma è una bugia; cercate di scavare dentro di voi per capire quale sia la vostra forza e per parlarne.
Mi sono vergognata per tutta la vita di dire che voglio fare la regista, ora non me ne frega un cazzo, andrò nella mia residenza artistica in Giappone i prossimi ottobre, novembre, dicembre 2020, è a Fukuoka perché voglio essere vicino al luogo di provenienza di mia madre, Okinawa, è a un’ora di volo. Voglio includerla, voglio essere multimediale, dirigere un corto, realizzare opere d’arte e forse altro, magari parlare anche dell’essere multietnica. Penso che questo derivi dal fatto che un giorno sul set ero arrabbiata da morire perché mi avevano mancato di rispetto, e mi sono detta: “Fanculo, ora mi metto alla ricerca di una residenza giapponese”. Ho fatto domanda e non pensavo che sarei stata accettata immediatamente, così mi sono detta: “Faresti meglio a dire quello che vuoi e faresti meglio a finire quel lavoro perché è più importante di qualsiasi film o serie TV per cui tu sia mai stata assunta”.
Amo i giovani, la modernità e il futurismo, ma una sorta di piccolo anello mancante su cui vorrei che tutti lavorassimo sono l’umanità e l’integrità, l’umanità di essere se stessi, e l’onestà nell’accettarlo. Sarebbe fantastico se riuscissimo a integrare questo punto nel nostro futuro e nel mondo moderno.
Qualche curiosità veloce su “The Handmaid’s Tale” invece, sul processo creativo e sull’uso dei colori: considerando anche il vocabolario di cui parlavi prima, credo che questi ne facciano parte per dar vita ai personaggi e a un messaggio.
È davvero interessante, “The Handmaid’s Tale” è un romanzo scritto 30 anni fa, ed ero un grande fan e in realtà sono presenti già nel libro i colori di riferimento per ogni classe sociale. L’unica cosa che ho cambiato è stato usare il grigio per i lavoratori. Nel libro in realtà avrebbero le strisce ma ho pensato che se state guardando l’intero paesaggio e vedete solo dei blocchi di colore in un mondo grigio come quello di Gilead, non volete vedere delle stampe o delle strisce; inoltre, sapevamo che avremmo dovuto inserire delle storie diverse provenienti sia dal passato che dal presente, dove il passato risale solamente a tre anni fa, a volte a un anno addirittura nella storia, mentre il presente è solo tre o cinque anni in avanti rispetto a quando tutto è cambiato, così ho deciso di non inserire le strisce; stampe, colori diversi e colori mescolati avrebbero rappresentato il passato, mentre un singolo colore sarebbe stato emblematico per Gilead. Ha avuto tutto inizio dal design pensato da Margaret Atwood: ero così spaventata all’idea di cominciare, perché amo il libro e il film così tanto e finalmente avevo l’occasione di appendere tutte queste immagini alla mia parete.
Ho iniziato con il rosso perché stavamo lavorando in una vecchia fabbrica del vetro a Toronto (che era davvero infestata oltretutto) ed ero in una bellissima sala industriale dipinta con questo colore rosso, quello tipico dei cartelli “Attenzione”, non riuscivo a pensare ad altro. Stavo lavorando con il regista e la scenografa e continuavo a mostrare loro le foto di questi vecchi tubi, o della cassetta antincendio, quella che si rompe; lei mi chiedeva sempre: “Perché continui a mostrarmi questa roba?” ed è perché il rosso era perfetto, anche emotivamente parlando, dicevano “Attenzione”, e sapevo sarebbe stato orribile per le persone.
Quel rosso è stato il primo, ma poi, andando oltre, il libro era scritto tutto con il punto di vista di una nazione bianca, mentre nella nostra società di oggi ci sono persone come me o nere, asiatiche, latine, e così abbiamo detto: “Non ci soffermeremo su quello, non racconteremo quella storia perché è stato scritto 30 anni fa, racconteremo questa storia in chiave contemporanea, con milioni di colori, e quasi non parleremo di etnia, perché tutti sono qui rappresentati”.
Ho iniziato a preoccuparmi di come il rosso sarebbe risultato su ogni carnagione, così abbiamo preso dei piccoli pantoni e li abbiamo provarli su tutti, avevamo un cast multietnico e poi, una volta che era tutto deciso, mi sono resa conto che il colore era quello delle mestruazioni, era il colore del sangue reale, ed è per questo che funziona su ogni carnagione, perché si trova in natura, tutti condividiamo quel colore. È pazzesco da realizzare. Questa era la risposta, e poi ho pensato: “Troverò il grigio perfetto, o il verde perfetto per le Marte, o il nero, che è facile, o il blu per i militari; deve essere in qualche modo collegato alla natura“, così facendo sai che funzionerà cinematograficamente su ogni tono di pelle, e così è stato.
Questa è tutto, la TV viaggia velocemente, devi avere le risposte pronte, perché prima di arrivare alle riprese devi vendere quelle idee allo studio, devi risolvere i problemi velocemente e risolvere i problemi rappresenta la metà del lavoro. Il problema in quel caso era: come far funzionare tutti quei colori su ogni tono della pelle? Vai nella natura e riuscirai a far funzionare il tutto, è quello che ho fatto per due stagioni.
“Non ci soffermeremo su quello, non racconteremo quella storia perché è stato scritto 30 anni fa, racconteremo questa storia in chiave contemporanea, con milioni di colori, e quasi non parleremo di etnia, perché tutti sono qui rappresentati”.
Una volta hai detto che il tuo lavoro è dall’interno verso l’esterno: come funziona, sei stata influenzata da qualcuno, da un attore o da un ruolo?
È divertente, tornando al discorso della paura, sono così spaventata all’idea di farmi influenzare da un film che amo, tutti dicono sempre: “Voglio essere come Terrence Malik“, anche io lo dico sempre, chi non lo fa? Mi chiedo se le sue orecchie fischino ogni volta che qualcuno dice il suo nome nel settore. Ora io e i miei amici abbiamo questo gioco divertente che ci fa molto ridere: non possiamo più dire Terrence Malik o Edward Hopper, perché tutti lo dicono.
Non avevo realizzato di fare quello che sto per dirvi fino a poco tempo fa, quando ho avuto del tempo libero, ma è qualcosa che in realtà faccio da sempre, prima con una camera o con un disegno e ora con il telefono: quando viaggio, e sono sempre da sola o con il mio cane, scatto foto di qualsiasi cosa, a caso, tanto sono solo per me; queste sono le immagini che poi finiscono sulle pareti, non è Edward Hopper, a volte c’è un vecchio abito di Balenciaga, ma la maggior parte delle volte no, per lo più è il colore della paglia in un campo in Kentucky. Quello che faccio è incollare tutte queste immagini ovunque, perché è così che ragiona il mio cervello.
Questi sono i colori che sto usando per questo lavoro, sono tutte immagini utili per l’ispirazione, anche se sono state scattate da me. Non so se sia ego, un benefico, o entrambi, ma mostrando a certi registi una cosa simile quelli si mettono a piangere e dicono: “Dove sarebbe l’abito?”, mentre altri registi o direttori della fotografia lo capiscono immediatamente, perché è così che funziona il mio cervello, non sono stata formalmente addestrata.
“Dall’interno verso l’esterno” a volte significa questo, è una cosa davvero strana che accade in natura con due pietre diverse mentre per me, è la mente ad alveare. È molto giapponese questo modo di pensare, ma se stai realizzando cinque mondi in un’unica serie che si basano l’uno sull’altro affronti dei giorni molto difficili; la mente ad alveare ragiona per mantenere tutte le persone coinvolte in armonia e al loro meglio, lo faccio anche quando penso agli attori nelle varie scene: dall’interno verso l’esterno, cosa li farà sentire davvero al sicuro e a non realizzare che sono in una storia fittizia?
Sappiamo che credi nei segni: qual è l’ultimo che hai visto? Li cerchi?
Credo molto nei segni. Non li cerco nemmeno più, ma faccio una pausa quando arrivano e li applico poi al mio lavoro. Un segno recente è stato un gufo: li vedo raramente nel mio quartiere a LA. Uno l’ho visto al mattino presto, prima di trasferirmi a New York, ho sentito un grande gufo cornuto chiamarmi da fuori dalla finestra della mia camera da letto. (L’ho cercato per riconoscere che tipo di gufo fosse, ero ossessionata dal suo suono). La sera che sono tornata a Los Angeles di recente, anche il gufo era tornato. Una persona che sta collaborando con me a un progetto artistico si è recentemente ispirato a loro, stiamo cercando un modo per includerli nel progetto. La simbologia del gufo consiste nel vedere ciò che è più nascosto, un passaggio nella vita o un cambiamento, la saggezza nel vedere al di là delle maschere della gente. I gufi sono importanti per molte culture, ho anche pregato la Dea Atena (da bambina, perché era la dea della saggezza), e gli sciamani dei Lakota credono che il loro potere si manifesti di notte (proprio come il gufo) attraverso il sonno e la chiara visione.
Solo pochi giorni fa, ho detto al mio migliore amico: “Questo è stato uno dei viaggi più strani, ho sempre avuto dei falchi a farmi compagnia lungo la strada, mentre questa volta non ne ho visto quasi nessuno… Mi chiedo se sia dovuto al coronavirus…” e poi, all’improvviso, un falco è piombato sulla mia auto.
Hai già letto “I Testamenti” di Margaret Atwood? E qual è il libro sul tuo comodino in questo momento?
Ora mi sto godendo la vita e sto recuperando un po’ di cose, tra cui i libri. Sul mio comodino troviamo: nulla… Mi sono appena trasferita da New York, e sto visitando il Kentucky. Ma tra i libri che sto leggendo ci sono un libro sulla demenza (una persona a me cara ne sta attraversando le fasi iniziali), “The Yellow House” di Sarah Broom, un libro sull’earthing (voglio dormire meglio e connettermi con la terra), “Year of the Monkey” di Patti Smith, “L’arte della guerra” di Sun Tzu e un bellissimo libro antico sui sogni (tutti mi sono stati regalati da amici).
“La simbologia del gufo consiste nel vedere ciò che è più nascosto, un passaggio nella vita o un cambiamento, la saggezza nel vedere al di là delle maschere della gente”.
Il tuo look preferito di una serie TV/film di tutti i tempi?
“Lezioni di piano” di Jane Campion, “In vena d’amore” di Wong Kar-Wai, “I giorni del cielo” e “The Tree of Life” di Terrence Malick, “Orlando” di Sally Potter, “L’Ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci, “8 ½” di Fellini, “After Life” di Hirokazu Koreeda, “Delicatessen” di Jean-Pierre Jeunet. È difficile sceglierne solo uno. I costumi di un film ti trasportano quando non vuoi tornare nel mondo reale…
Qual è il genere di cui non ti sei ancora occupata ma che ti piacerebbe fare?
Non lo so davvero…. Forse uno in cui tutti indossano solo spazzatura in modo bello, individuale e intellettuale, come nel mondo del wabi-sabi.
Qual è un must-have nel kit da costume designer?
Salvia, candele bianche, un cd gospel di Aretha Franklin… I must have sono diversi per ogni livello del processo di lavoro, prima o mentre sto lavorando con gli attori.
Puoi rivelarci qualcosa dei tuoi prossimi progetti?
Sto lavorando a una mostra segreta per una triennale che include una mostra, un cortometraggio e un libro…E non sto solo progettando dei costumi per questo progetto, ma sto coordinando tutti i look degli artisti che stanno lavorando a questa mostra… Non è una prospettiva facile, è una prima volta per me.
Poi sto lavorando a un breve documento sul viaggio di mia madre, che potrebbe includere anche una serie di dipinti e/o un’installazione.
Infine, sto cercando di realizzare la serie di uno dei miei migliori amici, sia come costumista che come produttrice.
The Film Wall
35mm & Fuji Instax
Photos & Video by Johnny Carrano.
Makeup by Cynthia Sobek.
Styling by Elanur Erdogan.
Follow Ane here.
LOOK 1
Jewelry: Neroloosh, Bliss Lau
Headpiece: DOBS NY
Dress: Roksanda
Shoes: Celine
LOOK 2
Jumpsuit: Miwa Ishii
Jewelry: Bliss Lau, Reine de Blanc, The Modern Tales, Neroloosh
Cape: DOBS NY
Boots: Margiela
LOOK 3
Opera Cape: Ane Crabtree’s Own
Dress: DOBS NY
Jewelry: Bliss Lau, Reine de Blanc, The Modern Tales
Boots: Margiela