Vittoria e Abdul è un film biografico con un tocco leggero, da commedia.
Segue la scandalosa, ma dolce, amicizia tra la famosa Regina Vittoria d’Inghilterra, imperatrice d’India, e Abdul Karim (Ali Fazal), il suo Munshi, il suo maestro e consigliere spirituale.
Un uomo la cui esistenza è stata riconosciuta solo recentemente.
Vittoria è stata, ed è ancora, un amatissimo gigante della storia britannica.
Il suo regno ha coperto tutta la seconda parte del Diciannovesimo secolo, permettendole di regnare attraverso la Rivoluzione Industriale e svariati cambiamenti sociali, come la fine dell’avvallamento della schiavitù nelle colonie britanniche.
È semplice immaginarla come una figura nobile, dal carattere forte; come Alexandrina, una ragazza appena diciassettenne, metà sassone e metà inglese, dormire nello stesso letto della madre. È, forse, persino più facile immaginala mentre si innamora follemente, con uno sguardo, di quel cugino alto, intelligente e appassionato che credeva di detestare.
Tuttavia, questa commedia dulcamara ha luogo nel 1887, nell’anno del suo Giubileo d’Oro e al tramonto del suo regno.
Entrambi i grandi amanti della Regina Vittoria sono morti, prima l’amato marito e Principe Consorte Albert e successivamente John Brown, e ci si trova in un momento storico particolarmente critico. Ciò che Stephen Frears deve rappresentare in Vittoria e Abdul è una regina vecchia, in lutto, che affronta la sua ora più buia. Una donna la cui reputazione è minata, quando lo spirito repubblicano è più alto e le colonie ribollono come paludi, in un costante brontolio fatto di povertà e scontento.
È difficile, tutt’oggi, presentare Vittoria come un essere umano, una donna stanca della vita. La regina si culla attraverso i suoi ultimi giorni di vita, celebrazione dopo celebrazione, eppure ancora si attacca alla vita con forza.
E tuttavia, tali sono la maestria di Frears e il talento della Dench, che la figura della Regina in Victoria e Abdul ne esce umana, smitizzata e disinteressata a tutto ciò che ha amato, sì, ma regale. Quello che riporta Vittoria alla vita, che accende quella scintilla dietro i suoi occhi chiari, è un servitore dell’Uttar Pradesh. L’uomo, Abdul Karim (interpretato da Ali Fazal) è stato imbarcato velocemente ad Agra per consegnare alla regina, a Windsor, una moneta cerimoniale chiamata Muhur. Abdul è il più umile degli inservienti e, tuttavia, è assolutamente chiaro che è diverso da tutti gli altri; è intelligente, pronto con le parole e attento, oltre che molto bello. La Regina Vittoria, storicamente, non è mai stata cieca alle personalità affascinanti.
Judi Dench è un’attrice estremamente talentuosa e non nuova al ruolo: nel 1997, infatti, ha interpretato la regina Vittoria in “Mrs Bown”.
Il film (anch’esso prodotto dalla BBC), esplora il legame unico e, alle volte, scandaloso tra la regina e il suo attendente scozzese Mr Brown (Billy Connolly), amico e assistente del defunto Principe Albert.
Quindi, non è la prima volta che Judi Dench interpreta con successo una controversa Regina Vittoria, coinvolta in un’amicizia al di sotto del suo rango.
In Vittoria e Abdul, tuttavia, i toni sono più delicati, dolci, rispetto a “Mrs Brown”. La natura della relazione tra i due protagonisti è sospettosamente incerta, e temuta dalla Corte che conosce la voglia di vivere e le inclinazioni dell’anziana regina, ma la passione è superata dal rispetto reciproco, dall’affetto e dall’amore materno nella sua forma più alta, più pura.
Il tocco del regista è leggero, la camera come un occhio indiscreto, nascosto, che spia la regina e il suo improbabile amico. Il film si sofferma spesso su bellissime vedute della campagna inglese -dai suoi laghi ai castelli umidi di pioggia, fino ai campi di erica in Scozia- mentre Londra e le sue residenze sono quasi del tutto ignorate.
La vita della regina Vittoria è tratteggiata all’interno del palazzo, seguendo il ritmo delle visite reali e delle celebrazioni, dove tutto è triste e ripetitivo. Anche svegliarsi e vestirsi è lungo e doloroso, un processo che segue una folle etichetta che, ancora, garantisce troppi privilegi per essere abbandonata. I suoi ultimi giorni si snodano in fronte alla Corte, di fronte al figlio che scalpita per il proprio turno sul trono.
Le cose cambiano, ovviamente, quando Abdul si fa avanti.
Nelle scene che condividono i due amici, anche la luce sembra più brillante, i colori più vividi.
I nobili e il personale di corte, anche il figlio primogenito Bertie (Eddie Izzard), successivamente Edoardo VII, sono una rappresentazione divertente dell’Ancien Regime, di regole che proibiscono i legami tra ranghi diversi e tra individui di colore diverso.
Un razzismo che può non sorprendere in personaggi del Diciannovesimo Secolo ma che è viene fieramente contrastato dalla Regina, una donna senza pregiudizi, interessata solo ad amicizia e conoscenza.
Ali Fazal è un Abdul Karim convincente e ammaliante, leale ed innamorato della vita, del bene, mentre Judi Dench è brava in modo commuovente; ha così tante sfaccettature, così tante reazioni diverse. Abdul tocca ogni corda dell’animo dell’anziana donna con la forza di un uragano, portando conoscenze mai sentite che, seppur normali in India, risultano strane e pressione alla Regina d’Inghilterra.
Sono questa infatuazione con la cultura mussulmana, la volontà della regina di apprendere dal suo Munshi, un uomo di colore senza passato né titolo, che preoccupano la Corte Reale.
Sicuramente è un buon momento per un film di questo tipo, dopo il successo di “Victoria” (ITV, Jenna Coleman interpreta la Regina Vittoria), “The Crown” (Netflix, di Peter Morgan e con Claire Foy come Elisabetta II) ed i numerosi documentari prodotti per l’Anniversario d’Argento della Regina Elisabetta II.
In un certo senso, le sovrane britanniche sono state vere protagoniste dell’universo multimediale.
Ora, Vittoria e Abdul viene presentato alla 74 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, sette anni dopo la scoperta degli appunti privati di Abdul Karim. Si potrebbe dire che, finalmente, la loro dolce storia, una storia d’amicizia e rispetto, smetterà di essere oscurata dal pregiudizio e dall’oscurantismo, permettendole di essere libera di commuovere le generazioni a venire.